
L’isola, prima parte
1 Agosto 2007
L’isola, terza parte
4 Agosto 2007PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO
10 gennaio.
Dopo una marcia spossante nel cuore della foresta vergine, sotto una pioggerella insistente che ci inzuppava, abbiamo raggiunto il crinale della quebrada del Sàndalo avvolto nella nebbia. La visibilità era così ridotta che bisognava procedere con estrema attenzione, poiché sotto di noi vi era uno strapiombo impressionante. Solo con sforzi penosi, scivolando più volte sui sassi umidi e muscosi, giungemmo sul fondo della valle. Lì facemmo sosta per un paio d’ore, al riparo delle gigantesche foglie di Gunnera, simili alla bardana, e riempimmo le borracce alla fresca acqua del torrente. Finalmente smise di piovere, e con le gambe ancora indolenzite per la ripidissima discesa, iniziammo a risalire la quebrada, in verità piuttosto demoralizzati. Nel primo pomeriggio la gola prese l’aspetto ai un autentico canyon, dominato da rocce gigantesche e perpendicolari, sempre più incombenti, sempre più ravvicinate. Finalmente, a una svolta del torrente, ci trovammo la strada sbarrata da un muraglione di roccia pressoché verticale. Solo un condor avrebbe potuto avanzare oltre, lasciandosi trasportare dalle correnti ascensionali che stavano in quel momento spazzando la densa nuvolaglia.
Col cuore stretto per la delusione e lo scoraggi amento, dovemmo rifare il cammino inverso e ridiscendere fino all’altezza del precedente bivacco. Qui sostammo per mangiare qualcosa, per bere e per fare il punto della situazione. Da qualunque parte la si volesse considerare, quest’ultima non era rosea. I viveri erano quasi terminati, e, lontano dal mare, veniva meno anche la possibilità di catturare qualche grossa aragosta. Altri animali di cui nutrirci, senz’armi come eravamo, non ce n’erano. Tranne alcune capre selvatiche e alcuni ceni, anch’essi divenuti selvaggi – le une e gli altri introdotti dall’uomo – non vi sono altri animali sull’isola, a eccezione di uccelli e insetti. Le numerose colonie ai foche da pelliccia della costa occidentale sono state recentemente sterminate da spietati marinai del continente, e così pure le otarie. I pochi frutti commestibili crescono solo nella parte bassa della foresta, più vicino al mare.
Esisteva una remota speranza che l’accesso all’altopiano interno sia. ancori possibile da una delle valli più a mezzogiorno. Ma, a parte la difficoltà di raggiungerle, scavalcando i ripidissimi crinali fra l’una e l’altra, resta il fatto che, se anche tale passaggio verso la parte più elevata dell’isola esistesse, ciò non ci potrebbe avvicinare alla meta, con quasi assoluta certezza. In novembre, quando siamo arrivati quaggiù, abbiamo potuto osservare bene la costa occidentale, mentre la nave la costeggiava a velocità ridotta, e del resto la testimonianza di tutti è unanime: non esistono sentieri naturali che mettano in comunicazione quella costa con la vetta. Tuttavia, che altro ci resta da fare? Sappiamo che è un tentativo condannato in partenza, ma non esistono alternative che non siano ritornare alla colonia e consegnarsi, oppure lasciarsi morire di fame. Quindi, domattina, faremo quest’ultimo tentativo.
Lettera di don Alvaro al Direttore degli istituti di pena, 10 gennaio.
Eccellenza,
al mio ritorno sull’isola, nella giornata di ieri, ho appreso la notizia che cinque confinati, due politici e tre comuni, sono evasi dallo stabilimento e hanno fatto perdere le loro tracce. Ma su ciò, le accludo una relazione dettagliata, e un rapporto compilato dal mio sostituto, don Venustiano Rodrìguez. Benché io mi trovassi nella capitale per conferire con vostra Eccellenza, e non possa pertanto, in coscienza, sentirmi responsabile dell’accaduto, pure mi sembra che l’autorità superiore preposta ad un dato istituto debba essere almeno moralmente responsabile del suo buon funzionamento.
Ritengo, pertanto, che questo increscioso episodio sia un richiamo a non ritenermi indispensabile in un incarico che altri, più giovani di me, potrebbero espletare con eguale dedizione e, forse, con maggior fortuna. Sinceramente, Eccellenza, ritengo di aver costretto la mia famiglia a sopportare abbastanza sacrifici, trascorrendo più di un anno in un luogo tanto isolato, dove mancano le più essenziali comodata del mondo civile e dove non esiste altra compagnia che quella del personale militare e dei confinati. Rimango quindi al mio posto, in attesa che Ella provveda, quanto prima le sarà possibile, ad inviare un nuovo direttore o a comunicarmi se devo frattanto cedere le mie funzioni al señor Rodriguez.
Suo devotissimo don Alvaro Donoso.
11 gennaio.
All’alba ci siamo rimessi in marcia, e dopo circa tre ore di arrampicata siamo arrivaci in cima al crinale fra le valli del Sàndalo e del Pasto. Tirava un forte vento da mezzogiorno, sotto le cui raffiche era giocoforza procedere quasi curvi. Da uno squarcio della vegetazione abbiamo potuto vedere la nave del governo che si allontanava in direzione est: era già vicina all’orizzonte e solo la nostra posizione elevata e il pennacchio di fumo della ciminiera ci permisero di scorgerla.
A quel punto, invece di scendere nella valle sottostante decidemmo di proseguire lungo lo stretto crinale verso l’interno, sperando di trovare una via di accesso più praticabile. Era una situazione fantastica. Risalivamo il crinale largo pochi metri, che tendeva a restringersi sempre più, sospeso fra cielo e terra e spazzato da venti furiosi. Ogni tanto bisognava fermarsi e stendersi a terra, quando banchi di nebbia lo avvolgevano bruscamente e nascondevano il terreno, tanto che non si distinguevano più gli orli del precipizio. Grandi uccelli marini, credo cormorani, volteggiavano sopra di noi ad ali spiegate, lasciandosi portare dalle forti correnti aeree. Per fortuna, nessuno di noi soffre di vertigini, ma posso affermare che abbassare lo sguardo a destra o a sinistra del nostro cammino avrebbe messo i brividi a chiunque.
Verso mezzogiorno, sudati, esausti e quasi increduli, improvvisamente ci trovammo sul bordo dell’altopiano interno. Ce l’avevamo fatta!
Il vento si era un po’ calmato e accompagnò la nostra marcia attraverso praterie che conferivano al paesaggio uno spiccato carattere alpino. Muschi, licopodi e piccole piante nane, contorte dai venti dominanti di mezzogiorno, crescevano lungo le sponde di un ruscello che prendemmo come punto di riferimento. Massi erratici sparsi qua e là testimoniavano che questa parte superiore dell’isola deve aver conosciuto una sua èra glaciale, resa evidente anche dalle forme arrotondate della morfologia. È questo il cosiddetto Plano de la Mona, l’altopiano della Madonna, che qualche spirito religiosa ha battezzato così, forse ispirato dalla strana atmosfera di estatica solitudine che regna a queste altezze. Verso sud, al disopra di un banco di nuvole spuntava la cima di Los Inocentes, il punto più elevato dell’isola, a 2.000 metri sul livello del mare. Il silenzio era impressionante, sovrumano. Pareva realmente di essere sulla sommità del mondo, in una zona al di fuori della storia, al di fuori del tempo; lontanissime e microscopiche, quasi improbabili, apparivano di lassù le faccende degli uomini, i loro odi e i loro amori, le loro speranze e i loro timori. Ci sentiva in un certo senso purificati; o, come disse Mariano, che avvertiva le mie stesse sensazioni, vicini all’essenziale.
D’improvviso ci arrestammo. Davanti a noi, a un tratto, o per meglio dire sotto di noi, si spalancava l’abisso. Un salto verticale di oltre millecinquecento metri era ai nostri piedi: ancora un passo in avanti e saremmo precipitati giù fino alle nude scogliere che si frangevano, in un alone di bianchissima spuma, in riva all’isola. Credo che non esista altro luogo al mondo in cui la natura, fino a un momento prima quasi idilliaca, mostri d’improvviso, e in uno spazio così breve, il suo volto smisurato e terribile. Questo abisso sembra costruito per un mondo di Titani e di Giganti, non di uomini; non è nell’ordine di grandezze cui l’uomo si può abituare. Nessun essere umano potrebbe mai far l’abitudine a una bellezza talmente orrida, anche dopo anni e anni; e nessuno, che si sappia, era mai giunto prima fin quassù. Dai lontani tempi geologici in cui l’isola emerse dalle acque dell’oceano, sotto la spinta di poderose forze vulcaniche, nessun occhio umano si era mai posato prima su questo scenario di selvaggia grandiosità.
Quasi a rendere ancor più impressionante lo spettacolo, vedemmo dapprima una, poi due, infine tre balene solcare le acque a circa un miglio dalla riva. Si tuffavano e riemergevano, maestose, incredibili, sollevando alti spruzzi verso il cielo e dirigendosi in fila indiana verso il nord, prevenienti dalle gelide solitudini antartiche.
Poco dopo ci fermammo in un valloncello erboso riparato dal vento, a breve distanza dal bordo dell’altipiano, e discutemmo il da farsi. Avevamo potuto vedere coi nostri occhi che non esisteva via possibile verso la costa occidentale, proprio come pensavamo. Eravamo d’accordo sul fatto che fosse inutile costeggiare il bordo della scarpata, poiché senza alcun dubbio quell’immane muraglione di basalto proseguiva unito e compatto lungo tutta la costa occidentale. Da lì non avremmo mai trovato il modo d’imbarcarci sulla goletta, anche se scremino avuto un eccellente punto d’osservazione per avvistarla e magari per farle dei segnali con uno specchio o accendendo un fuoco. Inoltre i nostri viveri erano praticamente finiti e non restava altro da fare che scendere di nuovo alla costa orientale, in cerca di aragoste. E poi?
Diego pensava che l’unica fosse tornare alla ricerca della zattera, che non poteva essere stata trasportata molto lontano dal punto ove era stata occultata a suo tempo. Era pesante, dunque doveva trovarsi sempre lì vicino. Avevamo ancora qualche giorno di tempo per girare attorno alla punta nord dell’isola, e tornare sulla costa occidentale. Qui, comunque, avremmo dovuto rimanere sulla zattera, in una posizione scomoda e pericolosa, fino all’arrivo della goletta: senza poter sbarcare, anzi badando – notte e giorno – a non avvicinarci troppo agli scogli, dove le onde avrebbero potuto mandarci a fracassare. E se il mare fosse stato agitato? Sapevamo, inoltre, che le acque dell’isola erano infestate dagli squali. Insomma, valutando bene la cosa, dovemmo renderci conto che anche il progetto originario di evasione, quand’anche non avesse subito un cambiamento imprevisto con la scomparsa della zattera e il folle intervento di Pedro e Garcià avrebbe comunque presentato molti punti oscuri e non pochi rischi.
.Prima che calasse l’oscurità, ci affrettammo a tornare indietro verso il limite orientale dell’altopiano e iniziammo la discesa verso la quebrada del Pasto. Ma eravamo troppo stanchi, e il buio ci sorprese prima di aver raggiunto il fondo della valle. Ci fermammo per dormire in un angolino riparato da un boschetto di alberi nani, ma non potemmo chiudere occhio. Eravamo ancora troppo in alto. Il freddo, l’umidità, la fame e la stanchezza c’impedirono di riposare. Rabbrividendo nei nostri indumenti troppo leggeri, guardavamo lo spettacolo semplicemente meraviglioso di un immenso e limpidissimo cielo stellato, quale non avevamo mai visto prima in vita nostra. Avevamo acceso un fuoco per scaldarci, che, insieme a una buona tazza, di caffè bollente, ci ridiede un po’ di animo. Una stella brilla va luminosissima fra tutte le altre. Ne chiesi il nome a Mariano, che già sapevo essere un amante e discreto conoscitore del cielo notturno.
– Quella è Fomalhaut-, mi disse – "la bocca del pesce", in arabo. È la stella alfa della costellazione del Pesce Australe, a sud dell’Acquario. Una delle più brillanti del cielo meridionale. –
– In Europa, quindi – osservai – queste stelle sono invisibili. –
– Non tutte. Fomalhaut, per esempio, si può vedere anche dall’Italia, in autunno; è posta a soli trenta gradi di latitudine sud. –
– Sicché, fra qualche mese, una ragazza, poniamo, in qualche piccolo paese dell’Italia, potrà alzare gli occhi al cielo e vedere questa stessa stella, che ora splende come una regina dei cieli del Sud? E’ strano. –
Diego s’era finalmente addormentato; noi fumavamo, guardavamo il cielo e lasciavamo cadere parole nella notte, per distrarci dalla fame e dal pensiero opprimente della nostra impossibile situazione.
– Tu che ne pensi del progetto di Diego? -, domandai, smuovendo i rami per ravvivare il fuocherello che languiva. Mariano scosse le spalle.
– Sono d’accordo di tornare alla costa orientale: qui, non ci resta che morire di fame. Sono d’accordo anche di cercare quella dannata zattera, ma senza farmi troppe illusioni. Tra l’altro, avvicinarsi alla zona della colonia penale significa rischiare d’incappare in qualche pattuglia che forse è ancora alla nostra ricerca. Non dimenticare che don Alvaro è tornato sull’isola, e che don Venustiano vorrà mostrarsi pieno di zelo e farà di tutto per riprenderci. E’ certo che la nostra fuga è stata uno smacco per le sue ambizioni, vorrà in ogni modo riaffermare le sue capacità. Però, la cosa più probabile è che non troviamo la zattera e che l’appuntamento con la goletta venga mancato. –
– Ne parli – osservai – come se la cosa riguardasse altri, non noi. –
Si volse a guardarmi intensamente, e mi chiese: – Tu ci tieni alla vita? –
– Ci tengo come chiunque altro. E tu?
– Tiene alla vita chi ha delle speranze davanti a sé. Non importa quali, non importa quanto realistiche o quanto campate in aria. –
– E tu, non ne hai? –
Improvvisamente distolse lo sguardo, e tornò a fissare in direzione della fulgida Fomalhaut; poi disse: – Una, forse; ma veramente pazzesca. E’ quella che mi tiene ancora attaccato al domani. La speranza di trovare il modo, Dio o il diavolo sanno come, di spostare ciò che provo per una creatura mortale su di un piano immortale, eterno; se è lecito parlare di eternità nel mondo degli uomini. Io devo, devo trovare il modo di dare ai miei sentimenti una forma che oltrepassi le contingenze, l’impossibilità e la caducità della sfera mortale. lì guaio è che non credo in un altro mondo, al di sopra di questo: cerco l’infinito all’interno del finito. E’ una follia, ma è l’unica strada che mi rimanga da percorrere.
Ci fu un silenzio, poi osservai: – In fondo, la tua ricerca interiore somiglia alla nostra ricerca di una via d’uscita da quest’isola. Sappiamo che quasi certamente non esiste, eppure non possiamo fare a meno di cercarla. Senza questa speranza, che ne sarebbe di noi? –
Di nuovo tacemmo, e si udiva solo il crepitio delle fiamme sui rami.
Poi Mariano riprese, guardando fisso innanzi a sé, con voce assorta: – Quando ci siamo affacciati di colpo sulla scarpata della costa occidentale, questi mattina…. e abbiamo visto il mare frangersi sugli scogli laggiù in basso al termine di quel salto vertiginoso… Be’, guardando verso il fondo ho provato una strana sensazione, quasi di attrazione… E1 strano, ma in ed quel momento non avevo affatto paura; provavo anzi una sensazione inebriai te, come di liberazione, di verità alfine conquistata… Sembrava così facile fare un altro passo in avanti, e poi… –
– Sì, è vero – ammisi – a volte capita di provare cose del genere.
– Allora mi sono chiesto: perché no? Perché non farlo? E subito dopo: c’è dunque qualcosa che ti tiene ancora attaccato al presente, all’esistenza? La passione politica? Ma non mi faccio più illusioni. L’amore per lo studio, per la conoscenza? Ma non mi ha avvicinato di un passo nemmeno alla verità più elementare: quella su me stesso. La bellezza della natura? Una maschera dietro la quale si cela la crudeltà. quotidiana di ogni forma di vita., la mancanza di senso del tutto. Dio? Non esiste. L’amicizia, allora? Anche quella, esiste finché esiste l’interesse reciproco; svanito quello, l’amicizia si dissolve. L’uomo è un essere fondamentalmente egoista. Parassita ed egoista. Infine: l’amore? -. Qui fece una pausa, e una piega si disegnò sulla sua fronte, mentre il suo viso assumeva involontariamente un’espressione dura, contratta. – Eh, l’amore… –
– Neppure quello esiste, secondo te? -, domandai. Non si udiva che il crepitio della fiamma e, ogni tanto, lo stormire delle foglie nel vento.
– L’amore…, un tragico inganno. E tuttavia, un pensiero mi attraversò la mente, in quell’attimo, con la nettezza di un lampo notturno: il pensiero di… insomma, tu sai di chi. E mi sono detto: possibile che un sentimento così puro, così profondo, debba andare anch’esso perduto, irrimediabilmente, come tutto il resto? Che scompaia nel buio, come una fiammella che si spegne nell’oscurità, senza lasciare nulla, senza un significato al mondo: come sabbia che scorre fra le dita? –
Riflettei un poco, poi gli dissi: – Sai cosa penso, Mariano? Che tu, in fondo, sei uno spirito religioso: sì, pur con tutto il tuo ateismo. A tutto vorresti dare un significato, ovunque vorresti scorgere le tracce di un’armonia, di una verità ultima, decisiva. E non ci riesci e ti tormenti. Dici di non credere all’amicizia, ma sono certo che per un amico ti faresti ammazzare. Dici non credere nella giustizia sociale, ma sei qui al confino per aver lottato in suo favore. Di aver smascherato l’inganno crudele della natura, ma sei continuamente in contemplazione ai essa: delle piante, dei fiori, delle stelle. Di non credere neanche nei classici, nello studio, ma perfino in queste circostanze non hai voluto separanti dal tuo Virgilio; e la sera, con le ossa rotte dalla stanchezza, sottrai ore al riposo per leggerlo e rileggerlo. –
– Adesso non venirmi anche a dire che credo in Dio più di un prete. –
– Questo non lo so, ma forse non sei così lontano. E quanto all’amore… io penso che tu ci creda, e molto, giacché lo prendi estremamente sul serio. Sono convinto che non hai mai pensato… sì, insomma, che non hai mai avuto per quella tal persona, che non vuoi neanche nominare, se non pensieri di sconfinata ammirazione, di rispetto, di gratitudine… Che, cioè, anche avendone la possibilità, per ipotesi, non avresti mai desiderato dell’altro… Eppure, non fai che pensare a lei, non vivi che per lei… E questo non è amore? Se dovessi scegliere, poniamo, fra il suo bene e il tuo, so che non avresti dubbi né esitazioni… Anzi, non credo si possa dare una forma più elevata di amore. L’amore che nulla chiede per sé, è l’amore perfetto. E tu cerchi, cerchi, dici di voler dare un senso, ma il senso è già lì, hai già trovato, e da un pezzo, quel che cercavi; lo tieni in pugno, è tuo, solo che non te ne sei ancora accorto… –
Le mie parole, uscite inaspettate anche per me, parvero colpirlo, come se gli giungessero non da fuori, ma da una voce interiore. Infatti ripeté, come parlando a sé stesso e stringendo istintivamente il pugno: – Lo tengo già in pugno, solo che non me ne sono ancora accorto… E’ strano – si riscosse, dopo un poco – qualche cosa di simile, in un certo senso, me l’aveva già detta lei… Che io sto cercando affannosamente qualche cosa che, in realtà, è molto più vicina di quanto io non creda… Strano.
– Tutti cerchiamo qualcosa, nella vita – dissi – ma per molti tale ricerca è un qualcosa di accessorio, magari d’inconsapevole. Per altri, invece, è la ragione stessa dell’esistenza. E quando la trovano, diventano dei cavalieri dell’ideale: inforcano il loro destriero, e partono coraggiosamente.
– Oppure – osservò lui – cercano senza trovare, e allora restano delle creature incomplete, insoddisfatte, perennemente scontrose: ce l’hanno col mondo; ma, in fondo, ce l’hanno soprattutto con se stessi.
– Ma chi non ha trovato dopo un certo numero di anni, non è detto che non potrà trovare domani. Non ci sono certezze, né tabelle orarie. La ricerca di senso è una continua avventura, emozionante, piena di rischi… –
– Già, il rischio. Vivere pericolosamente, diceva Nietzsche. Cioè, reinventare ogni giorno la propria sfida alla vita…, mettersi in gioco.-
D’improvviso, si volse a guardarmi e fissò intensamente: – Sai, ti dirò una cosa. A novembre; quando siamo arrivati sull’isola, io mi sentivo né più né meno che un fallito. Mi pareva di aver mancato tutti gli appuntamenti importanti della vita, e di essermi arreso. Inoltre, mi pareva di non aver capito niente. Niente di niente cioè, di aver fallito pienamente anche nella ricerca intellettuale. Poi…, poi… -, e qui parve realmente imbarazzato, ma si riprese e continuò deciso, volgendo lo sguardo in un punto entro le profondità del cupo bosco stormente nella notte: – poi ho incontrato una creatura straordinaria, che, se fossi un credente, direi messa sulla mia strada dalla provvidenza, o qualcosa del genere. Parlare con lei, essere ascoltato da lei, è stato straordinario, come se l’avessi conosciuta da sempre, come se lei mi conoscesse meglio di chiunque altro… E tutto questo, in meno di due mesi… Con tutti i limiti e le difficoltà di un rapporto così squilibrato, in questa situazione… La moglie del direttore della colonia penale, e un deportato politico… –
Mariano non aveva mai parlato così apertamente di sé, dei suoi sentimenti, e intuivo che non lo faceva per dare sfogo alla sua pena: era uno di quegli uomini che non hanno paura della solitudine e sono gelosissimi del loro mondo interiore. Era un segno di fiducia e di amicizia profonda verso di me, e come tale lo ascoltai in religioso silenzio.
Ma qui, d’un tratto, la sua voce si fece nuovamente dura, ebbi l’impressione che stringesse i pugni nel buio: – La moglie del direttore! Ah, diavolo, come avrei voluto, certe volte, come avrei voluto che don Alvaro fosse un mediocre pallone gonfiato, un aguzzino di mezza tacca, come don Venustiano; qualcuno da poter odiare e disprezzare, insomma. Avrei lottato per portargliela via, non so neppur io come… Invece, è una brava persona, e lei lo ama. E ha ragione di amarlo, e fa bene. Ecco, il problema è tutto qui. Dopo averla conosciuta, come potevo non innamorarmene? E che fare, adesso, di questo sentimento così forte, così esclusivo, così… imbarazzante, in un certo senso? Non dico disdicevole: lo sarebbe, se io avessi desiderato qualcosa da lei. Ma così non è stato, mai. Nel mio amore è compreso un rispetto sconfinato per lei, per tutte le sue scelte: presenti, passate e future; per tutto ciò che la circonda. Una creatura così pura non avrebbe potuto amare e sposare se non un uomo notevole. E allora? Che cosa mi resta da fare? Che senso dare a tutto ciò? –
Alla fine, aveva parlato quasi da solo. Rimestava nervosamente la cenere, alimentando la fiamma. Di colpo tacque, non si aspettava alcuna risposta, e probabilmente non la desiderava. Voleva riflettere, da solo. Gli diedi la buonanotte e mi coricai, avvolgendomi nella mia coperta.
Lui rimase ancora un po’ a giocherellare con un bastone tra le fiamme, lo sguardo fisso in un punto inesistente.
Non so quanto tempo rimase così, sveglio, insonne, meditabondo, perché un poco alla volta la stanchezza mi vinse, e scivolai nel regno misterioso del sonno.
CAPITOLO SECONDO
12 gennaio.
La tragedia è accaduta così rapidamente che quasi non abbiamo fatto in tempo a rendercene conto.
All’alba un rumore di rami spezzati e delle voci provenienti dal basso ci hanno fatto levare il campo a precipizio. Convinti di essere stati quasi raggiunti, chissà come, da un distaccamento di soldati, correndo abbiamo risalito le pendici della quebrada e ci siamo spinti nuovamente verso il bordo dell’altopiano. Vi eravamo appena arrivati e ci eravamo fermati un attimo per riprendere fiato, quando abbiamo scorto, a poche decine di metri, i nostri inseguitori: Garcia e Pablo. Ci hanno visti e ci hanno ordinato di fermarci, poi hanno sparato un colpo verso di noi. Allora ci siamo messi a correre all’impazzata, affondando nel soffice muschio imbevuto d’acqua, cercando di ripararci dietro i massi erratici disseminati sull’altopiano. I luoghi ci erano familiari, ma nella fuga perdemmo, chissà come, l’orientamento, e invece di correre verso sud ci addentrammo verso ovest.
Diego, in quel momento, ci precedeva: essendo il più debole, gli avevamo lasciato il sacco più leggero, contenente solo i suoi effetti personali, mentre io e Mariano portavamo anche le coperte, le borracce, i piatti di rame, le posate, delle calzature di ricambio e altre cose. Sicché, meno impacciato dal peso, procedeva più svelto; ma di colpo lanciò un grido disperato e scomparve letteralmente alla nostra vista.
Pochi attimi dopo, giunti sul posto, ci rendemmo conto di essere arrivati proprio sul margine estremo della roccia e che immediatamente sotto di noi si spalancava l’abisso. Diego era volato al di là dell’orlo dell’altopiano, senza rendersene conto, trasportato dalla sua stessa spinta, e non aveva fatto in tempo ad intuire il pericolo né a fermarsi. Il suo corpo stava ancora rotolando giù per la scarpata, rimbalzando qua e là sulle asperità della roccia come un tragico fantoccio. Pallidi, senza dir parola, non ci trattenemmo neppure per veder la fine di quel drammatico volo nel vuoto: non c’era tempo. Riprendemmo a correre lungo il margine della scarpata, con i nostri inseguitori che di tratto in tratto s’intravedevano dietro le rocce sparse nell’erba.
Non so come, riuscimmo a non farci tagliare la strada e a riguadagnare l’interno dell’altopiano. Ci precipitammo dentro un torrentello sassoso e risalimmo, sempre di corsa, l’altra, sponda, piegando poco alla volta verso sinistra. Mariano con voce trafelata mi gridò che restando lassù non saremmo mai riusciti a distanziarli, che dovevamo rientrare nella foresta per cercare riparo fra gli alberi. Così, descrivendo un semicerchio, ritornammo faticosamente verso la successiva quebrada.
Il sangue martellava le tempie, il respiro era breve e spezzato, la gola bruciava; il sudore scorreva a rivoli giù per la schiena; cominciavano ad apparirmi delle macchie scure davanti agli occhi. Forse era un effetto della fame su un organismo sottoposto a uno sforzo violento. Non sentivo quasi più le gambe.
A un certo punto mi fermai, rassegnato; mi volsi, ma con grande stupore e sollievo non vidi più Garcìa né Fabio. Mariano tornò indietro e mi si fermò accanto. Mi chiese se mi ero slogato una caviglia; risposi di no, ma che non ce la facevo più a correre.
– Va bene, allora ci riposeremo un po’ e poi riprenderemo la marcia. E scrutava con gli occhi il terreno; ma i nostri persecutori non apparivano ancora. Anche lui era esausto, ansimava e dovette appoggiarsi a una roccia per riprendere fiato.
– E Diego? -, chiesi, in maniera assolutamente stupida. Non so perché lo dissi, ero in uno stato di sovreccitazione e faticavo a coordinare i pensieri. Mi muovevo come in sogno, anzi come in un incubo.
– Diego, ormai, è al di là di ogni preoccupazione – disse Mariano cupamente, come parlando a sé stesso.
Dopo due o tre minuti, non più di corsa ma a passo sostenuto, riprendemmo la discesa e, un quarto d’ora dopo, imboccammo una quebrada che non era quella dove avevamo trascorso la notte; doveva essere, con tutta probabilità, quella chiamata del Òvalo. Era molto ripida, e in breve raggiungemmo il limite della foresta; dopo di che, penetrammo nel folto e ci fermammo, compi et ambente esausti e sempre più affamati. Restammo lì, nascosti, une buona mezz’ora, sempre temendo di sentire i passi dei nostri nemici; ma nessun rumore veniva a turbare il profondo silenzio della foresta. Ci consultammo sul da farsi: quasi subito ci trovammo d’accordo che non restava altro da fare che scendere fino al mare, in cerca di cibo. Quella era la nostra necessità più urgente; al resto, avremmo pensato dopo. E così, dopo un’altra mezz’ora di sosta, durante la quale recuperammo in parte le nostre forze così provate, cautamente ci arrischiammo a tornare sul fondo della valle e riprendemmo la discesa lungo il greto di un fiumicello completamente asciutto.
Eravamo così deboli che dovemmo fare delle soste frequenti, e ogni volta riprendevamo il cammino con passa più incerto. Ogni sasso sul nostro percorso era un ostacolo faticoso da scavalcare, i rami degli arbusti ci graffiavano il viso e le mani e spesso, per la stanchezza, mettevamo il piede in fallo, scivolando sul terreno umido e malagevole. Verso mezzogiorno ci accampammo per riposare più a lungo. Non avevamo nulla da mettere sotto i denti, tranne alcune bacche simili ai mirtilli, ma in compenso la fame rabbiosa aveva ceduto il posto a un languore indefinito; d’altra parte eravamo molto deboli. Ci stendemmo per dormire un po’, ma fu impossibile. Troppa stanchezza, troppe emozioni, troppa fame. Non avevamo neanche voglia di parlare, per cui restammo a lungo in silenzio, tremando di freddo, perché non avevamo osato accendere il fuoco che avrebbe potuto tradire la nostra posizione. Fu Mariano a rompere il silenzio, come dopo aver riflettuto a lungo:
– Sai, ho ripensato al destino di Diego. È lui che ci ha imbarcati in quest’avventura, ma non ne vedrà la conclusione. Ho ripensato, dicevo, a quel volo nel vuoto…, e mi sono chiesto: quanto vale la vita umana? Cioè: possiede un valore intrinseco, assoluto, o soltanto un valore relativo? Io ho sempre inclinato a favore della seconda ipotesi, ma…-
– Come, un valore relativo? In che senso? -, domandai.
– Immagina un individuo che soffra atroci dolori, senza alcuna speranza di guarigione, né di sollievo; immagina ch’egli viva, a parte il dolore, una esistenza puramente vegetativa; immagina lo strazio e la fatica di coloro che lo assistono; ebbene io domando: che valore ha una vita simi-le? E non tirarmi fuori l’anima immortale… –
– Perché? –
– Perché io non ci credo. Tutte sciocchezze inventate dai preti e da coloro che hanno paura di guardare in faccia la realtà. Comunque, il minimo che si possa dire, è che si tratta di una congettura assolutamente indimostrabile. Si crede ciò che si ha bisogno di credere. E lo stesso discorso, naturalmente, vele anche per dio. Abbiamo bisogno di credere che vi sia, per dare un senso e un ordine al tutto. Per veder la giustizia premiata e la malvagità punita, e così via. Ma sono solo chimere. –
– Continua. Stavi dicendo che, vedendo il corpo di Diego precipitare… –
– Già. Ho provato una sensazione strana; strana per me, voglio dire. Come se anche quella, dopotutto, fosse una perdita irreparabile… Poi, ci ho riflettuto. Devo ammettere che ho avuto l’intuizione, per così dire, che vi è qualcosa di sacro nella vita umana, anzi nella vita in quanto tale, nella vita di qualunque essere. Ma non riesco a capire che cosa sia. Per me, siamo solo frutto del caso: assurdamente si nasce e assurdamente si muore. Ma allora, mi chiedo: perché quel senso di perdita, di malinconia per la morte di un estraneo, di uno qualunque? E’ come quando ci accorgiamo di quanto preziosa ci fosse un’amicizia, dopo averla perduta. –
Seguì una lunga pausa. Alla fine osservai: – Forse perché intuiamo che la nostra esistenza è legata a quella di tutti gli altri, per mille fili, visibili e invisibili; e che il distacco da essi, anche da uno solo, anche il più lontano, ci impoverisce, in qualche modo misterioso, ma certo. –
Mariano parve riflettere su queste parole, poi disse: – Ho letto in un romanzo di Dostoievskij, credo ne I fratelli Karamazov, che un nuovo mondo sorgerà quando noi arriveremo a sentirci responsabili per ogni sofferenza di ogni uomo, per ogni ingiustizia, come se ci toccassero in prima persojna. Ma è un’idea che mi ripugna. Per me, la responsabilità dell’uomo è esclusivamente personale. Altrimenti si ricadrebbe nell’idea cristiana del peccato originale, ossia della responsabilità collettiva. No, no, non può essere. L’uomo sarebbe schiacciato da eterni sensi di colpa….
La nostre discussione terminò qui, e ci accingemmo a tentar di dormire almeno qualche ora. Ma i problemi sollevati erano tutt’altro che risolti. Quanto a Mariano, sono certo che continuerà a rimuginarli ancora a lungo, e che non si darà pace finché non si sarà avvicinato a una soluzione soddisfacente per la sua coscienza.
Dal diario di dona Alexandra, 12 gennaio.
Dove sarà in questo momento? Che cosa starà facendo, che cosa starà pensando? E se… e se… gli fosse accaduto qualche cosa? E1 duro non poter sapere niente, non aver nessuno con cui parlare, a parte Dio. Dio, custodiscilo tu. Stagli vicino. Fagli coraggio, perché so che, dopo avermi detto addio, si sentirà molto, molto solo. Forse si sentirà come abbandonato. Fagli capire che nessuno è abbandonato, che c’è sempre qualcuno presso di noi, anche se non lo sappiamo.
15 gennaio.
La discesa giù per la quebrada è stata lunga, spossante. Ci siamo trascinati come ubriachi, incespicando spesso nei ciottoli, i riflessi ormai appannati. Per fortuna. una fresca brezza temperava il calore del Sole, infondendoci un po’ d’energia.
Nel pomeriggio, da lontano, fra la macchia del bosco abbiamo intravisto lo scintillio delle onde. Il mare! Il mare! Come i diecimila di Senofonte. ci siamo affrettati verso la salvezza. E infatti, due ore dopo, abbiamo trovato alcune aragoste arenate sulla riva e le abbiamo cucinate e divorate avidamente. Poi abbiamo spento in fretta il fuoco e ci siamo nuovamente rimpiattati nel folto della vegetazione, cercando di recuperare le forze. È incredibile come una certa quantità di cibo nello stomaco aiuti a far vedere le cose sotto una luce più favorevole. Un certo ottimismo rinasce anche negli animi più abbattuti; un filo di speranza si riaccende, a dispetto di ogni ragionamento e di ogni evidenza.
Più tardi, riposati, discutemmo sul da farsi e decidiamo di riprendere la via della costa nord-orientale, dove già avevamo dovuto arrestarci alcuni giorni fa. L’idea è quella di cercare ancora una via di accesso all’altro versante o, almeno, all’estremità settentrionale dell’altopiano, per essere in grado di avvistare in tempo l’arrivo della goletta, segnalare la nostra presenza e poi sperare che accosti, doppiando l’estremità nord dell’isola. Tutto ciò è piuttosto improbabile, specialmente ora che abbiamo perso, con Diego, l’unico contatto col padrone della goletta; ma è l’unica cosa che si possa tentare, dunque non v’è da scegliere.
CAPITOLO TERZO
14 gennaio.
Scrivo a bordo della goletta Santa Inés, e mi sembra ancora tutto un sogno. Molte cose sono accadute e troppo in fretta. Ancora ventiquattro ore fa eravamo due sbandati, malnutriti e quasi senza prospettive, mentre adesso si è aperta una pagina completamente nuova della nostra avventura. Scartata l’eventualità di risalire l’altopiano e ormai troppo deboli per salire e ridiscendere le valli parallele che sboccano sulla costa orientale, abbiamo puntato a nord, cercando di tenerci il più vicino possibile alla riva, anche per non allontanarci dalla nostra unica fonte di sostentamento. Ma in molti punto le scogliere sono precipiti ed è necessario risalire le grandi rocce verso l’interno, al limite inferiore della foresta, cercando di rimanere paralleli rispetto alla costa. Così abbiamo impiegato tutta la mattina, in una serie di saliscendi spossanti, ora camminando sui ciottoli della riva, ora risalendo verso le ripide pendici da cui scendono pressoché verticalmente delle pittoresche cascatelle.
Improvvisamente, dopo aver oltrepassato il capo che separa gli sbocchi delle valli del Pasto e del Sandalo, la sorpresa. Lo snello veliero a due alberi era lì davanti a noi, a non più di cento metri dalla riva, e stava manovrando per entrare all’imbocco della quebrada del Sandalo. In quel momento io procedevo per primo; mi fermai di colpo, e Mariano, raggiungendomi, mi chiese cosa fosse accaduto. Solo allora la vide anche lui, e tacque per lo stupore e l’emozione. Da bordo dovevano averci visti, perché una scialuppa si staccò quasi subito dal fianco della nave e due marinai remarono vigorosamente nella nostra direzione.
In quel punto il sentiero praticabile correva una ventina di metri al di sopra della riva, tra una rada macchia di araucarie. Ci calammo verso di essa e vi arrivammo, con qualche difficoltà, quasi contemporaneamente alla scialuppa. Per un istante ci guardammo fissamente, dubbiosi.
– Los hombres amigos de Diego? -, chiese infine uno dei due.
– Sì – rispose Mariano, – ma Diego està muerto. –
– L’uomo era comprensibilmente sorpreso. Ripeté: – Muerto?
– Precipitò en mar, a la vez que procuraba de huir.
I due marinai si consultarono fra loro, parlottando a bassa voce, e ogni tanto ci guardavano in tralice. Fu un’attesa spasmodica, con il cuore che mi batteva all’impazzata: dalla loro decisione dipendeva il nostro destino. Infine uno dei due ci disse: – Bueno, embarcarse pronto -, e accostò col remo fin presso la riva. Sguazzando nell’acqua, salimmo a bordo e fummo trasportati in silenzio fino alla goletta, che subito spiegò le vele in direzione nord.
II capitano era un uomo basso di statura, tarchiato, senza barba, ma ad accoglierci e a farci le prime domande fu un uomo vestito non da marinaio, che indossava abiti eleganti da città, alto, diritto, con un viso magro e intelligente incorniciato da una sottile barbetta ben curata. I suoi occhi azzurri. avevano la freddezza dell’acciaio, e ci fissavano con una strana intensità; prima ancora che aprisse bocca, ebbi subito la sensazione che non fosse cileno, né sudamericano, e neppure spagnolo.
– Benvenuti a bordo, signori – ci disse in uno spagnolo corretto ma scolastico, con un forte accento straniero. – Sono il marchese di Villemer, e ho noleggiato la goletta Santa Inés del capitano Lucio Lopez. –
II capitano fece anch’egli un cenno di saluto, senza parlare; notammo sei o sette marinai, impegnati nelle manovre per riprendere il vento.
– Posso conoscere i vostri nomi? – II tono era formalmente cortese, ma ebbi fin dall’inizio l’impressione che vi fosse un’energia compressa, pronta a scattare inesorabile, dietro quei modi signorili e quasi frivoli. Ci guardammo, Mariano ed io; parlò lui. Non disse che eravamo confinati politici, anche se quelli, forse, lo sapevano già; spiegò che eravamo amici di Diego, ma che questi era tragicamente perito in un incidente. Non parlò neanche di Garcìa e di Pedro; disse semplicemente che Diego era precipitato in mare sulla costa occidentale, mentre cercavamo un sentiero per scendere al mare in attesa della goletta. Disse i nostri nomi e infine chiese se eravamo egualmente accetti a bordo.
Per tutto il tempo che parlò il mio amico, il marchese lo guardò dritto negli occhi, senza mai interromperlo ma fissandolo a lungo, come avesse voluto leggergli dentro la veridicità delle sue parole.
Quando Mariano ebbe posto la sua domanda conclusiva, egli sorrise in maniera enigmatica, guardando anche me e quasi trapassandomi coi suoi occhi chiari e freddi. Non sembrava meravigliato di nulla, e non ci fece altre domande sulla nostra condizione; disse soltanto: – Come vedete, stiamo già spiegando le vele per allontanarci il più in fretta possibile da questa zona, dove potremmo fare incontri spiacevoli, e per doppiare il capo settentrionale dell’isola. Due uomini in più a bordo potranno sempre farci comodo, anche se, per ora, non prevedo di impiegarvi come aiutanti: c’è stato un cambiamento di programma. Non andremo a caccia di foche, ma tenteremo di svelare un affascinante mistero del mare. –
E poiché dovemmo guardarlo piuttosto meravigliati, egli si rivolse al capitano. dicendogli in tono autoritario: – Señor Lopez, questi uomini saranno stanchi e, presumo, affamati. Li faccia rifocillare e mostri loro dove potranno sistemarsi per la notte.- Poi, rivolgendosi di nuovo a noi: – Señores, vi attendo fra un’ora nella mia cabina. Desidero parlarvi in privato con più agio. A più tardi, dunque. –
E, ciò detto, se ne andò lasciandoci alle cure del capitano, che ci fece mangiare e ci mostrò la nostra cabina: minuscola, ma abbastanza pulita. Ci chiese anche ulteriori particolari sulla fine di Diego, ma noi confermammo la prima versione fornita da Mariano, sia pure aggiungendovi qualche ulteriore elemento; sempre tacendo, tuttavia, dello scontro con gli altri due confinati "comuni". Ci sembrò un uomo rozzo e ignorante, ma non stupido né malvagio, e mostrò una certa simpatia nei nostri confronti. Ci chiese se era duro il bagno penale, e di che reati ci fossimo macchiati; parve quasi deluso quando seppe che non avevamo ucciso né rubato, ma che eravamo "solo" due politici.
– Io non ci capisco nulla di politica, señores, ma secondo me bisogna essere pazzi per farsi deportare a casa del diavolo per faccende del genere. Avete compiuto qualche attentato dinamitardo, forse? No? Nemmeno quello? Allora non capisco, non capisco proprio. –
Approfittai del clima di benevola confidenza per chiedergli qualcosa sul nostro strano ospite: – È da molto che conoscete il marchese? E’ straniero, vero? Cosa significa che il programma è cambiato?
Lui masticò a lungo il suo tabacco, grattandosi il capo come se emesse cercato le parole, infine rispose con un gesto significativo, toccandosi la fronte con l’indice della mano destra, e abbassando istintivamente la voce, come se qualcuno avesse potuto sentirlo: – Chi, quello? Quello es un loco, è un pazzo, credete a me. Ma paga, paga in bigliettoni fruscianti, e quando questa storia sarà finita, Lucio Lopez potrà piantare la vita del pescatore, disfarsi della goletta e comperarsi una bella casa con un po’ di terra dalle parti di Concepciòn. Che m’importa se gli manca qualche rotella, quando io diventerò ricco? Certo che quell’uomo è anche stranamente furbo. Non ha denaro con sé, non si fida, ma io so con certezza che è ricco, molto ricco, e che questo viaggio sarà l’inizio della mia fortuna. Perciò, non domandatemi altro. Per me, il capo è lui. –
Qualche minuto dopo, rimessici in ordine e sbarbati, ci presentammo alla porta della sua cabina. La nave intanto stava doppiando il capo nord a vele spiegate, costeggiando i giganteschi muraglioni di roccia che parevano incombere minacciosi, nella luce violetta della sera, sulla sagoma microscopica della nostra imbarcazione.
Ci fece entrare e ci offrì da fumare, quindi ci chiese qualche breve informazione sulla nostra professione. Non fece domande sulla nostra condizione di deportati, ma lasciò cadere una frase sulla fedeltà ai propri ideali che, a volte, si paga con il carcere e il confino, lontano dalle persone care, dalla quale apparve che aveva perfettamente intuito – a differenza del capitano – la nostra qualità di "politici".
Tirò qualche boccata del suo sigaro in silenzio, come riflettendo, poi disse: – Sono lieto che il destino abbia portato a bordo due persone come voi, due uomini colti e intelligenti, con cui poter parlare dei miei piani. – E ci fissò accora a lungo, quasi soppesandoci e scrutandoci dentro. Poi, bruscamente, andò a prendere una mappa e la spiegò sul tavolo davanti a noi. suoi movimenti si erano fatti rapidi e nervosi, la luce fredda era scomparsa dal suo sguardo per cedere il posto a una concentrazione assorta, quasi febbrile. Anche la sua voce era divenuta più calda e fluente.
Guardammo la grande carta: era una mappa dell’Oceano Pacifico, nel tratto compreso fra il Tropico del Capricorno, la costa occidentale del Sud America, la Nuova Zelanda e l’Antartide.. Naturalmente la linea costiera di quest’ultimo continente era molto incerta, con frequenti spazi bianchi o tratteggiati.
– Qui siamo noi – disse, puntando il dito sulla nostra isola. – Avrete notato che non stiamo facendo rotta verso il continente, come forse pensavate, ma verso l’oceano aperto. In questo momento stiamo costeggiando la riva occidentale, e puntiamo a ovest-sud-ovest. – Colse una muta interrogazione nei nostri sguardi, e proseguì: – Vi state chiedendo a che scopo, vero?, dal momento che ho detto che non andremo a pesca o a caccia di foche, e che non vi sono terre nella direzione che vi ho indicato, per diverse migliaia di miglia. –
Un lampo d’acciaio passò nei suoi occhi chiari, e in quel momento mi chiesi se era davvero così giovane come sembrava – non dimostrava, infatti, più di quarantadue o quarantatré anni -, oppure
se la ferrea volontà e la febbrile immaginazione, che s’intuivano dietro i suoi modi cortesi, non nascondevano un’età molto più avanzata. I capelli erano scuri, la barbetta appena brizzolata, le linee del volto intelligenti e decise.
Improvvisamente diede in una breve risata stridula, così inaspettata, così strana che un brivido di gelo mi passò per la schiena. Ma subito tornò alla massima serietà e disse lentamente, fissandoci negli occhi: – E qui sta il punto, signori. Io sostengo che questo tratto meridionale dell’Oceano Pacifico non è deserto come tutti pensano. Io sostengo che esiste una terra emersa, un’isola, che è già stata veduta, di cui conosco esattamente le coordinate, e la cui scoperta, o meglio, la cui riscoperta è l’obiettivo della presente spedizione. –
E ciò detto, indicò con il dito una terra posta circa 4.000 chilometri a ovest dello Stretto di Magellano, e contrassegnata sulla carta col nome di Isola Dougherty. La sua posizione era approssimativamente centoventi gradi di longitudine ovest e sessanta gradi di latitudine sud.
– Sì, ho sentito parlare di quell’isola – disse Mariano – ma credevo fosse ormai certo trattarsi di una leggenda. Il suo ritrovamento non è stato più confermato, a quanto mi risulta… Forse il capitano Norris ha scambiato un semplice iceberg alla deriva, per una terraferma; o forse un banco di nebbia. A quelle latitudini, con quelle onde furiose, è possibile… Il marchese lo ascoltò fissandolo intensamente, e frattanto un sorriso indecifrabile si andava allargando sulla sua bocca dal taglio crudele, dalle labbra sottili; come se avesse ascoltato una vecchia canzone stonata che conosceva assai bene.
Quindi rispose, con una strana luce negli occhi: – Mi dispiace, señor, che anche lei presti fede a questa versione dei fatti, anche se vedo con piacere che conosce perfettamente i termini della questione. Ebbene, lei che è un uomo colto sarà d’accordo con me che solo 1’esperienza diretta dei fenomeni può far progredire la conoscenza scientifica, non è vero? Noi non dobbiamo credere alle chiacchiere o alle leggende; noi dobbiamo sperimentare i fatti. Non è così? -, e guardava con quel sorriso indecifrabile ora il mio amico, ora me, come aspettando da noi una risposta. – Ebbene – riprese -, ecco i fatti. Nel 1800, il baleniere Swain scopre un’isola cui da il suo nome, e che viene avvistata da altri capitani, Gardiner e Macy, il quale ultimo la descrive "ricca di foche, con scogli coperti d’alghe e le acque straordinariamente colorate". Che ne dite, signori? Ricca di foche e con scogli coperti d’alghe: poteva trattarsi d’un iceberg, o d’un banco di nebbia, secondo voi? Intanto, la notizia si è diffusa, qualcuno pensa già a sfruttarla economicamente: tutte quelle foche, e nessuna concorrenza! C’è da diventare ricchi. Se ne interessano, fra gli altri, due armatori statunitensi, i fratelli Palmer, nel 1830. Ma è solo nel 1842 che un capitano inglese, Dougherty, riesce a ritrovarla ed è veramente ricchissima di foche. Ne stabilisce le esatte coordinate: 59°20′ sud e I20°20′ ovest: dunque, a 3.500 chilometri dal Capo Horn; e la ribattezza col suo nome. Altri la vanno a cercare; qualcuno non riesce ad avvistarla, ma almeno altre due navi, una nel 1859, l’altra nel 1866, la ritrovano e bordeggiano per qualche tempo nelle sue vicinanze. Questi sono fatti, non è vero? Ricapitolando, sono almeno sei le. navi che l’hanno avvistata, in un arco di tempo di sette decenni: un po’ troppe per essersi sbagliate tutte, non vi pare?
– Mi permetta, marchese – replicò Mariano – anch’io ho seguito un po’ questa vicenda, a suo tempo. E so che una nave bene attrezzata venne mandata appositamente alla ricerca del l’isola Dougherty, che incrociò e bordeggiò, con la massima cura, su di una superficie di 250 chilometri intorno al punto indicato; e che tornò indietro senza avere visto nulla . Non solo: so che nel1904, dunque appena otto anni fa, l’esploratore Scott volle fare dei sondaggi nello stesso luogo, e lo scandaglio della sua nave toccò il fondo a ben 4.000 metri di profondità! Ora, egli disponeva certamente di mezzi più moderni e di strumenti più precisi di quelli di Dougherty o degli altri balenieri; nessuno dei quali, si badi, affermò mai di essere sbarcato, di aver posto piede su quella misteriosa, terra… Si potrebbe aggiungere che altre isole evanescenti vennero individuate nel sud Pacifico nel corso del secolo scorso, e poi perdute per sempre. Cito per tutte l’isola Smeraldo, a sud della Nuova Zelanda, avvistata nel 1821 dai capitano Nockells; l’isola della Compagnia Reale, a sud della Tasmania; l’arcipelago Nimrod, in pieno Pacifico meridionale…
– Sì, lo so – rispose il marchese, per niente turbato – conosco tutti questi casi da lei citati. Tuttavia, ci andrei piano prima di cancellare tutte queste isole dagli atlanti geografici: non è ancor detto che si tratti di isole fantasma. "Ci sono più cose sulla terra e nel cielo, di quante non ne possiamo immaginare", dice Shakespeare. So con certezza, per esempio, che l’esploratore inglese Shackleton sta allestendo una spedizione per l’Antartide, nelle cui finalità rientra anche la ricerca dell’isola Smeraldo. E Shackleton è un uomo positivo, un uomo ricco di esperienza in questo campo; non certo un ingenuo o un sognatore! Comunque. per tornare al nostro argomento – cioè alla nostra isola – io so delle cose che non sono state divulgate dalla stampa, e che quindi neanche lei, che pure mostra di essere un buon conoscitore di tali problemi, potrebbe conoscere. Volete dunque sapere su che cosa riposi la mia convinzione che l’isola Dougherty esiste, e che la sua posizione è esattamente quella indicata nel 1842? Ve lo dirò -, e qui tornò al tono freddo, distaccato, professionale che aveva all’inizio.- Ho conosciuto, a Londra, un vecchio cacciatore di balene norvegese, Bull, il quale è stato l’unico uomo al mondo a rivedere l’isola dopo il 1866. Essa è realmente nella posizione indicata, ed è ricchissima di foche; Bull non solo l’ha veduta, ma ne ha fatto anche il giro con la sua nave. Egli è talmente certo del fatto suo che da molto tempo paga all’Ammiragliato britannico una somma di venticinque sterline l’anno, per avere il monopolio della caccia sull’isola, che per varie ragioni non ha mai potuto iniziare. Ma quelli dell’Ammiragliato, gente seria e realistica, che ha una poderosa tradizione marinara alle spalle, hanno accettato la sua richiesta e anche il suo denaro. Intascano venticinque sterline l’anno, da cinque anni… segno che ritengono la cosa più che attendibile. Ebbene io ho parlato con questo Bull, a Londra, come dicevo, non più di sei mesi fa… e ho comperato da lui tutti i diritti sull’isola, subentrandogli anche nel pagamento dei diritti di pesca presso l’Ammiragliato… non perché pensi di organizzare una campagna di caccia alle foche, ma semplicemente per tenere lontani i curiosi, se mai ve ne fossero… benché la cosa sia poco probabile.
– Due cose, a questo punto, dovremmo sapere – dissi – per comprendere fino in fondo la situazione. La prima, – proseguii, poiché il marchese aveva fatto un cenno d’assenso con la testa – è perché lei abbia preferito prestar fede alla parola di un oscuro marinaio norvegese, piuttosto che alle ricerche scientificamente condotte da due spedizioni appositamente allestite non molti anni or sono. La seconda, che cosa mai l’attiri tanto verso quella meta, dal momento che non le interessa affatto l’unica ricchezza che l’isola Dougherty, se esiste, sarebbe in grado di offrire: le foche che pullulano a migliaia sulle sue scogliere.
Il marchese fece un piccolo sorriso di condiscendenza: – Ho le mie ragioni per credere al racconto del capitano Bali. L’ho conosciuto, ripeto, e ho potuto valutarlo: non è affatto un rimbambito sognatore. Ma non è ancora il momento di rivelarvi il contenuto dei nostri colloqui. Ho saputo da lui delle cose importanti… delle cose che mi hanno spinto a organizzare, con la massima celerità, questa spedizione. Purtroppo, non posso, per ora, soddisfare nemmeno la vostra seconda curiosità. Ma quando sarà il momento, vedrete coi vostri occhi e capirete quello che, se ve lo spiegassi ora, difficilmente potrebbe essere creduto.
– Marchese – disse Mariano, con tono fermo – voi ci avete presi a bordo quasi senza fare domande, togliendoci da una situazione difficile, e ve ne siamo quanto mai obbligati. Avete anche mostrato una estrema delicatezza, evitando perfino di nominare la parola "confino". Tuttavia, devo farvi presente che ogni nostro piano e ogni nostra speranza si basavano sulla notizia che una goletta ci avrebbe trasportati fino al continente, di dove avremmo cercato di passare in Argentina.
– Lo capisco, signori, e mi rincresce non potervi accontentare. Ho preteso dal capitano e dai marinai che la destinazione e lo scopo di questa crociera rimanessero assolutamente segreti. Vi chiedo di avere pazienza per un periodo di tempo non superiore ai due, tre mesi al massimo; poi sarete riaccompagnati dove pensavate. Del resto, suppongo che sia preferibile affrontare l’imprevisto da uomini liberi, che languire su un’isola prigionieri di un’autorità detestabile. Non è così? –
Dovemmo convenirne. Tuttavia, nella mia mente si faceva strada una penosa domanda: eravamo realmente liberi? Dove ci stava portando quello strano individuo, e perché? L’unica cosa certa, era che stavamo facendo rotta verso una delle zone più deserte, più tempestose, più mal conosciute dell’immenso Oceano Pacifico, alla ricerca di un miraggio. Non eravamo forse caduti da una forma di prigionia ad un’altra?
Lasciata la cabina del marchese, ci trattenemmo presso la murata ad ammirare lo spettacolo grandioso e inquietante della costa occidentale del’ l’isola, nella luce ormai incerta del tramonto. Il formidabile muraglione di nuda roccia, privo di qualunque ombra di vegetazione, si ergeva terribile e ammonitore sopra di noi, levando le sue vette dentellate verso il cielo nuvoloso. A lungo quell’incombente colosso rimase in vista della nostra nave, sagoma nera contro il cielo ormai scuro, anche quando virammo di bordo lasciandocelo indietro di poppa. A lungo rimanemmo senza parlare, fortemente emozionati. Quel solitario lembo di terra proteso sull’immensità del mare era stato la nostra dimora negli ultimi mesi e, benché legato a ricordi penosi, costituiva l’ultimo legame fra noi e il nostro passato.
Un brivido di freddo mi percorse mentre lo guardavo lentamente rimpicciolire per le distanza, oltre le vaste onde del mare insolitamente calmo. Per il mio amico, ne sono certo, l’emozione doveva essere anche più forte: oltre quelle scure rocce si allontanava inesorabilmente anche la donna amatissima, che aveva d’improvviso rischiarato la sua esistenza solitaria e meditabonda.
CAPITOLO QUARTO
15 gennaio.
E’ strana la vita a bordo, strano questo rollio della nave, strana questa inattività dopo tanta fatica fisica e tanti imprevisti. La nostra isola si è definitivamente persa dietro l’orizzonte orientale; puntiamo decisamente verso sud-ovest, con tempo bello, per ora. Tutt’intorno, l’immensità del mare, in ogni direzione, a perdita d’occhio.
Io e Mariano abbiamo discusso a lungo, cercando di fare il punto della situazione. Sicuramente ci troviamo alle prese con una realtà inquietante e, forse, pericolosa. Sappiamo di navigare con una nave a vela verso mari sconosciuti e totalmente deserti, celebri soltanto per le loro nebbie, le loro tempeste e i ghiacci galleggianti; e, soprattutto, ne ignoriamo le ragioni ultime. Che sia un interesse puramente scientifico ad animare il marchese, scartato per ovvie ragioni quello commerciale, non sembra del tutto credibile. Egli ci tiene nascosta la ragione ultima di questa crociera, ma per farlo delle avere delle buone ragioni.
Quanto all’isola Dougherty, noi siamo pressoché certi che essa, semplicemente, non esiste. Le storie del mare sono piene di isole perdute, a cominciare dall’arcipelago delle Auroras, nell’Atlantico meridionale. In qualche caso si tratta di fenomeni reali di sprofondamento, come per la famosa isola Giulia, nel Mediterraneo. Ma in una zona oceanica ove la profondità media è di 4.000 metri, la cosa non è certamente possibile. Mariano sostiene che le isole Dougherty, Nimrod, Emerald non sono che gli ultimi frammenti di una leggenda dura a morire, quella del continente australe che i navigatori cercarono per trecento anni e fra essi lo spagnola Mendana de Neira, il francese Kerguélen-Tremarec e l’olandese Roggeveen. Doveva trattarsi di un immenso continente posto a sud del Capo di Buona Speranza, delle Indie Olandesi e dello Stretto di Magellano (più tardi, del Capo Horn).
I governi europei ci credettero e organizzarono spedizioni che dovevano scoprirne le ricchezze e stabilire rapporti con gli indigeni. Ma un poco alla volta, e specialmente dopo i tre grandi viaggi di James Cook, apparve chiaro che un tale continente non esisteva.
Eppure, qualcuno sosteneva addirittura di averlo visto, di esservi sbarcato, e di averlo trovato incredibilmente bello e felice. Uno dei primi era stato il navigatore spagnolo Juan Fernandez, lo scopritore delle isole che da lui hanno ricevuto il nome, nel 1563, e di quelle di San Félix e San Ambrosio (ma il nome, in origine, era San Nabor nel 1574. Due anni dopo egli navigò molto a occidente nell’Oceano Pacifico, sempre partendo dal Cile, e disse di avere scoperto una terra vasta e meravigliosa che non è stata mai più ritrovata, sebbene alcuni abbiano pensato di identificarla, ma certamente a torto, addirittura con la Nuova Zelanda. La descrizione che egli fece della sua scoperta australe era tale da accendere la fantasia, per non dire la cupidigia, non solo di mercanti e avventurieri, ma anche di filosofi, e infatti il mito sopravvisse fino all’età dei lumi, quando i viaggi di Cook e La Pérouse lo sfatarono per sempre. Disse,Juan Fernandez, che quel paese meraviglioso da lui scoperto era ammantato età fitte foreste e solcato da fiumi maestosi; non solo: che era abitato da uomini bianchi "sontuosamente vestiti", diversi dagli abitanti del Cile e del Perù. Insomma, un Eden dipinto coi colori incandescenti della poesia. Egli volle allestire una seconda e più imponente spedizione per tornare alla sua terra australe e colonizzarla, ma la morte lo rapì improvvisamente, portandolo verso altri e più misteriosi lidi.
Il marchese di Villemer, d’altro canto, non sembra un sognatore, né un esaltato. Ha una mente lucida e una volontà di ferro, tuttavia vi è qualcosa di allarmante e indefinibile nella sua persona. La coscienza di essere, di fatto, suoi ostaggi, ci rende ancor più diffidenti. Quali saranno le sue vere intenzioni? Abbiamo cercato di sondare il capitano Lopez, che tutto sommato pare un buon diavolo, anche se il miraggio dei denaro sovrasta in lui anche la naturale prudenza del vecchio lupo di mare. Non ha saputo o voluto dirci altro che il marchese è un francese, capitato improvvisamente a Valparaìso due settimane fa; che ha noleggiato la goletta per un viaggio esplorativo, pagando profumatamente (ma non così ingenuo da pagare tutto in anticipo, né da portare il denaro con sé; che gli ha raccomandato, prima della partenza, la massima segretezza su ogni cosa.
– Ma quell’uomo – gli disse Mariano – ci sta portando verso una meta inesistente: ve lo ha detto? Sapete dell’isola Dougherty? Il capitano si strinse nelle spalle: – Se il marchese ne è tanto sicuro e sborsa fior di quattrini, per me vuoi dire che sa il fatto suo. Ma anche fosse come voi dite, e noi non trovassimo nulla, egli mi ha comunque garantito che saremo pagati fino all’ultimo centesimo. E dunque, che importanza fa? Io sono disposto a portare la mia barca dove dice lui. –
– Ma si tratta di una zona di mare estremamente pericolosa! -, esclamai.
– Di questo non mi preoccupo più di tanto – replicò, con stolida sicurezza. – L’importante è che non vi siano scogli pericolosi, come al Capo Horn; quanto alle onde, so io come affrontarle, prendendole di prua. E poi, superati i "quaranta ruggenti" e i "cinquanta urlanti", dicono che il mare non sia poi tanto burrascoso. Bisognerà stare attenti alle nebbie e agli icebergs, piuttosto. Ma io e i miei uomini abbiano buoni occhi. Dopotutto, è possibile che fra otto o nove settimane si sia già di ritorno sul continente, dove riscuoteremo la somma pattuita e io potrò comperarmi quella casetta dalle parti di Concepciòn, e piantare una buona volta questa vitaccia da marinaio.
Cercammo ai farlo ragionare, ma era inutile. Il miraggio del grosso guadagno spegne . in lui le facoltà critiche. Mi chiedo se, oltre alla naturale avidità del suo carattere, non vi sia qualche cosa d’altro; se egli non subisca una specie di dominio psicologico da parte di quell’uomo tanto più istruito e intelligente, tanto più determinato e capace di esercitare una sorta di magnetismo quando parla con voce convincente e guarda l’interlocutore con la luce fredda dei suoi occhi penetranti.
Abbiamo tentato anche di sondare, con estrema cautela, le opinioni dell’equipaggio circa questa misteriosa crociera. I marinai sono otto, di età compresa fra i venti e i cinquant’anni, alcuni imparentati fra loro; sono tutti cileni, molto ignoranti di tutto ciò che non riguarda il loro mestiere, e ciecamente devoti al loro capitano, solo nel più giovane, un ragazzo di nome Domingo, è passato un lampo d’inquietudine quando gli abbiamo domandato se conosce la meta del nostro viaggio; ma poi ha scrollato le spalle, dicendo: Lucio sa quel che fa. Es un hombre muy capaz, un hombre experto. Saprebbe portare una barca in qualunque mare, seguro.-
Dovemmo così renderci conto che non è possibile, almeno per il momento, instillare un salutare dubbio in questi uomini. A quanto pere, a bordo noi due siamo gli unici a veder chiaramente l’assurdità e la pericolosità di questa crociera: posizione alquanto scomoda, resa anche più acuta dal fatto che, disoccupati come siamo, non abbiamo neanche il lavoro fisico per distrarre le mente e dimenticare almeno temporaneamente le nostre validissime preoccupazioni.
Mi sono chiesto se gli ultimi, straordinari avvenimenti che ci hanno investiti abbiano potuto distogliere almeno un poco il mio amico dalle sue dolorose riflessioni, dal pensiero di colei che abbiamo lasciato per sempre sull’isola. A sera, vedendolo immerso nel suo Virgilio, seduto sulla branda sotto la mia, per un attimo l’ho creduto. Ma poi mi sono accorto che non stava leggendo, guardava in silenzio la fotografia di dona Alexandra, che conserva tra le pagine del libro.
Dal diario di Alexandra, 15 gennaio.
Oggi Ricardo mi ha chiesto: – Mamma, dov’è andato don Mariano? -.
Deve averne sentito parlare dalla domestica, poiché io e mio marito abbiamo sempre evitato questo argomento davanti ai bambini. Colta alla sprovvista, ho risposto, trasalendo: – E’… è partito, caro. –
Mi ha guardato a lungo, poi ha ripreso: – Vuoi dire che è fuggito? Sai, io non posso credere che abbia commesso delle azioni cattive. È buono. Ma allora perché se n’è andato? –
– A volte, caro – gli dissi – siamo costretti ad agire in un modo che non vorremmo, che è diverso da ciò che vorrebbe il nostro cuore. Io so che lui ci voleva bene. Se è partito, doveva avere le sue ragioni, che noi non conosciamo o che non possiamo capire, ma che dobbiamo rispettare. Se tu hai fiducia in una persona, non hai fretta di giudicarla male se si comporta in modo strano: cerchi di capirne il perché, e, se anche non ci riesci, conservi la fiducia in lei e nei motivi che l’hanno spinta ad agire. –
Questo ragionamento lo ha rasserenato sul piano logico, ma. nei suoi occhi restava la tristezza per quella partenza improvvisa. Guardava i libri posati sul tavolino, l’ultimo ricordo di Mariano. Improvvisamente mi ha guardato intensamente e mi ha domandato: – Mamma, credi che lo rivedremo, un giorno? – E nei suoi occhi c’era un tale desiderio, che non ho osato spezzare quella ingenua speranza.
– Chi lo sa? -, gli ho risposto, distogliendo la sguardo, perché non è facile guardare negli occhi qualcuno che crede nelle nostre parole, mentre sappiamo di mentire. Ma poi un’idea improvvisa ha sedotto anche me, e ho proseguito, guardandolo di nuovo: – Le persone che si vogliono bene, prima o poi, si ritrovano sempre. Io credo che sia così, anzi ne sono convinta. Non so spiegarti come. Ma prima o dopo, accade che si ritrovano, magari quando meno ce lo aspettiamo, anzi quando non ci contiamo più.
16 gennaio.
L’aria comincia a farsi fresca, e da ovest il vento rinforza. Il colore dei mare tende ad un verde sempre più cupo, segno che queste acque meridionali sono ricchissime di vita: organismo microscopici che amano le temperature fredde, specialmente plancton. Le onde sono più imponenti, si rovesciano maestose e il vento che soffia sulle loro creste solleva alti baffi di schiuma. La goletta sale e scende negli avvallamenti, prodigiosamente agile, tenendo la prua nel vento, sotto un cielo sempre più grigio, e nuvoloso. E’ una fortuna che né io né Mariano soffriamo il mal di mare, altrimenti sarebbe una brutta situazione, su una nave così piccola che pare un guscio di noce. Stando in coperta, si ha veramente la sensazione dell’immensità della natura e della minuscola piccolezza dell’uomo. Dovunque si volga lo sguardo, solo mare e cielo, entrambi di una tonalità torbida e ostile; e la sferza del vento sulla faccia.
I marinai sono sempre occupati alla velatura, e il capitano rimane quasi costantemente al timone; ogni tanto si fa sostituire da Celestino, il marinaio più anziano ed esperto, dopo di lui. Quanto al marchese, non si fa vedere molto: consuma i suoi pasti in cabina, dove si trattiene a lungo a consultare, sembra, certe sue carte che nessuno ha mai visto da vicino. Noi due ci sentiamo un po’ fuori posto, non è escluso che qualcuno ci consideri in qualche modo responsabili della morte di Diego. Sta di fatto che nessuno dell’equipaggio ci rivolge mai la parola, e anche il capitano lo fs solo quando è indispensabile.
Non si può dire, comunque, che gli uomini della Santa Inés ci siano ostili, ma piuttosto indifferenti.
CAPITOLO QUINTO
17 gennaio.
È piovuto tutto il giorno e sta continuando a piovere: una pioggia fina e ghiacciata che, mista agli spruzzi dei cavalloni, frusta dolorosamente le mani e il viso. Il mare è sempre più grosso, il vento soffia con rabbia e continua a crescere di forza. Stiamo attraversando i "quaranta ruggenti", ossia la fascia del quarantesimo parallelo, ben nota ai marinai di tutto il mondo per la sua tempestosità. Pochissimi, tuttavia, l’hanno affrontata in questo lembo sudorientale del Pacifico, perché siamo non soltanto lontanissimi da qualsiasi terra, anche disabitata (la costa dell’Antartide), ma anche fuori da qualunque rotta normale di navigazione. I venti, in questa fascia del quarantesimo parallelo sud, soffiano costantemente da ovest, e quindi noi ci apriamo faticosamente la via di traverso, tagliando diagonalmente la direzione del vento. A bordo si balla parecchio, e in coperta le condizioni atmosferiche sono così avverse, che io e Mariano siamo ben lieti di non avere mansioni specifiche a bordo, almeno per il momento, e di starcene in cabina, all’asciutto se non proprio al caldo.
Ho chiesto al mio amico di parlarmi ancora della favolosa scoperta fatta da Juan Fernandez nel 1576; non so perché, è un racconto che mi affascina in modo strano, come se ridestasse un’eco misteriosa nei miei ricordi.
– Non c’è da meravigliarsi – osservò Mariano – il mistero non è fuori di noi, m dentro. Il desiderio del meraviglioso ha radici profonde nel nostro animo, che la vita troppo sicura e ordinata della società moderna ha solo apparentemente assopito; esso si ridesta non appena capita l’occasio-ne. E’ l’eterno sogno di un mondo migliore, diverso, ove regnino la mitezza e la ragionevolezza, dove la natura sia amica ma non soggiogata, dove insomma noi possiamo proiettare la parte migliore di noi stessi, quella nostalgia d’infinito che, secondo Piatene, ha origine dal confuso ricordo di un’esistenza anteriore, più pura e perfetta.
– E tu credi – domandai – che anche Juan Fernandez abbia ceduto a tale inconscio desiderio, lasciandosi trasportare dalla fantasia e vedendo cose che, in realtà, non esistevano? –
Mariano si strinse nelle spalle. Era in uno dei suoi momenti "buoni", cioè comunicativi e relativamente sereni, quando i cupi pensieri lo abbandonavano per un poco ed egli mostrava il lato aperto, simpatico del suo carattere.
– E chi potrebbe dirlo con certezza? Certo, la leggenda della Terra Australe nasce praticamente con lui. Ma non mancarono neanche allora quelli che lo accusarono più o meno apertamente di essersi inventato un paradiso immaginario, e oggi il loro numero, fra gli studiosi di storia delle esplorazioni, non si può dire che sia diminuito.
– Il suo racconto non era credibile, vero?
-Be’, a quei tempi i confini di ciò che è credibile erano molto più generosi di quanto siamo disposti ad ammettere oggi. Meridiana de Neira, qualche anno dopo, cercava in tutta serietà le miniere d’oro del re Salomone nel Pacifico occidentale. Serpenti di mare e altri mostri del mare della lunghezza di trenta metri e più, erano considerati sacrosanta verità da qualunque marinaio, e non pochi giuravano di averli visti. Nelle foreste dell’Amazzonia si cercava la favolosa città dell’Eldorado, e la cosa non appariva poi tanto incredibile, dato che Cortés e Pizarro, coi loro conquistadores, avevano visto realmente templi straripanti d’oro e d’argento nei regni degli Aztechi e degli Incas. Si credeva comunemente ai lupi mannari, alle streghe, alle apparizioni del demonio, e l’Inquisizione bruciava allegramente un buon numero di persone ritenute in combutta con Satana. Per non parlare dell’Olandese volante, ella Fontana dell’eterna giovinezza, delle case stregate, e via dicendo… La gente era, credula, la scienza era ancora bambina. Non che oggi siamo riusciti a spiegare tutto, tutt’altro. Il mistero arretra, ma non scompare. Comunque, tornando a Juan Fernandez, quel che non gli perdonarono, suppongo, non fu la scarsa verosimiglianza del suo racconto, ma il fatto che non avesse prodotto la benché minima prova di quanto affermava. E1 per questo che volle organizzare una nuova spedizione, immagino, ma non ebbe il tempo di guidarla, perché morì nel frattempo. E nessun navigatore vide mai, nella zona da lui indicata, la più piccola traccia di terra: altro che continente! –
– Un continente abitato, per giunta… –
– Non solo: abitato da una razza d’uomini bianchi o quasi bianchi, civili, gestiti con abiti di tela e molto socievoli. –
– Un momento. A quale distanza dalla costa del Sud America disse di essersi spinto, Fernandez? O non lo disse?
– Disse di aver navigato verso ovest per quaranta gradi di longitudine.-
– Cioè? Potrebbe aver raggiunto, come dicevi, la Nuova Zelanda?
– Assolutamente no. Partendo dal Cile, o anche dal Perù, non dovrebbe essere giunto oltre il 110° meridiano, vale a dire all’altezza dell’Isola di Pasqua. Che è una terra piccolissima, senza fiumi e senza foreste. –
– E allora? –
– Niente. Qualcuno pensò perfino a un continente poi sprofondato, come se una cosa del genere potesse verificarsi nell’arco di pochi anni. –
– Insomma, il suo racconto era un puro e semplice frutto di fantasia, o magari un imbroglio deliberato? –
– Un imbroglio, non saprei. Se stava allestendo una nuova spedizione, qualche cosa credeva realmente di aver visto. Tutti noi abbiamo la tendenza a voler far coincidere la realtà con i nostri desideri. Il navigatore Kerguélen, per esempio, dopo aver riferito di aver scoperto una fertilissima terra nella parte sud dell’Oceano Indiano, fu rimandato dal governo francese con una grande spedizione, allo scopo di colonizzarla. Ma, pur avendola ritrovata (è l’arcipelago che oggi porta il suo nome) e avendola bordeggiata per parecchi giorni, non volle neppure sbarcare e tornò dietro, subendo un processo, una condanna e il carcere. Perché? Io credo perché si era reso conto che quella terra non era affatto il paradiso intravisto nel primo viaggio, ma une landa brulla, nebbiosa, spazzata dai venti, senza un albero, senza nulla di attraente per l’uomo; e non volle distruggere il suo stesso sogno. Insomma, credo che, spesso, i navigatori del passato fossero vittime delle loro stesse illusioni.
– E il pubblico, a casa, doveva essere ancora più disposto a farsi portare, con la fantasia, sulle ali del meraviglioso -, osservai.
– Certo. Quando Schouten e Le Maire scoprirono e doppiarono, per la prima volta, il Capo Horn, il 29 gennaio 1616, nel mondo civile i dotti compresero che un altro colpo era stato inferto alla teoria della Terra Australis Incognita, perché la Terra del Fuoco era solo un arcipelago e non la punta avanzata del supposto continente meridionale. Ma la stampa e l’opinione pubblica recepirono la notizia a loro modo. Ho visto, in una biblioteca di Santiago, la riproduzione di una stampa del 1616, che rappresentava gli indigeni dell’isola di Horn: atletici, ben fatti, in un paesaggio tropicale di palme e grandi alberi. In effetti, l’isola di Horn è uno scoglio assolutamente inabitabile, spazzato da venti furiosi, nudo, senz’alberi,dove piove più di 300 giorni l’anno, quando non grandina; ma tant’è: la notizia della scoperta non era quasi arrivata in Europa, e già gli artisti vedevano quelle nuove terre con le lenti deformanti della loro fervida immaginazione e delle loro aspettative.
Credo che a Juan Fernandez sia capita-to qualcosa di simile. Non penso che abbia interamente inventato la sua scoperta; qualche cosa, Dio sa cosa, dovette realmente vedere. Ma l’abbellì con quel che avrebbe voluto vedere, come avrebbe fatto, più tardi, Ker-guelen; come fece l’incisore che ebbe notizia della nuova rotta scoperta da Schouten e Le Maire. –
– Se è così, – dissi – avevi ragione quando dicevi che il più grande mistero è dentro la mente dell’uomo, e non fuori…
– Già. Ma sai che ti dico? Qualche anno fa un medico austriaco, un certo Freud, ha pubblicato uno strano libro, "L’interpretazione dei sogni", dando vita a una specie di nuova scienza, la psicanalisi. In esso sostiene che il sogno altro non è, se non la soddisfazione inconscia di desideri profondi, che vivono allo stato latente in ciascuno di noi. Soddisfazione che avviene per mezzo di simboli, o per meglio dire di mascheramenti: cioè, il sogno va decifrato, va, per così dire, smascherato, perché una sorta di autocensura ci impedisce di sognare apertamente i nostri desideri profondi e, a maggior ragione, di sognare che li soddisfiamo. –
– Una teoria originale, ma affascinante. Come hai detto che si chiama
questo medico austriaco?
– Freud. Sigmund Freud. Dev’essere ebreo, se non sbaglio.
– E tu pensi che per i nostri sogni a occhi aperti, peri i nostri desideri consapevoli e nello stato di veglia, avvenga qualche cosa di simile, se ho ben capito? Cioè, che noi tendiamo comunque a soddisfarli, magari mascherando a noi stessi il nostro reale desiderio, quello pro-fondo, che dev’essere interpretato?
– Esatto. Nel caso degli esploratori, bisognerebbe vedere che cosa li spinge verso le zone bianche delle carte geografiche. Penetrare una foresta vergine, per esempio, potrebbe avere un significato recondito di natura inconscia; magari, secondo la teoria di Freud, di tipo sessuale.-
– E scoprire una nuova isola, una terra sconosciuta persa in mezzo al mare? Poter dire: "ecco, qui non è mai sbarcato alcuno, prima di me?
– Anche questo, suppongo che abbia a che fare con un desiderio profondo di purezza, e anche di assoluto. Più in generale affrontare e vincere le difficoltà, le incomprensioni, gli ostacoli naturali, puntare dritti verso una meta difficile ma gloriosa, potrebbe indicare, oltre al fascino universale dell’ignoto, il desiderio di mettersi alla prova, di mostrare a sé stessi quanto si vale; prendersi una rivincita, sulla vita, magari. Insomma, ‘una maniera creativa di convogliare le proprie frustrazioni, trasformando l’angoscia e l’insicurezza in stimoli costruttivi, slancio verso traguardi sempre più audaci… A cosa stai pensando?
– Sto pensando, Mariano, che anche noi abbiamo avuto questo privilegio, abbiamo provato questa sensazione strana un po’ inebriante, quando abbiamo raggiunto l’altopiano prospicente le costa occidentale della nostra isola. Sapevamo che nessun piede umano era mai salito lassù, prima di noi; che eravamo i primi uomini a lasciare le nostre impronte in quel luogo selvaggio e misterioso, battuto dai liberi venti…
– Sì, è vero, anch’io ho avuto questa impressione. E mi chiedo se il marchese di Villemer sia mosso da un simile impulso di scoperta. Eppure non mi sembra un sognatore, come doveva esserlo Juan Fernandez.
-A proposito. Riflettevo che la sua Terra Australe, se anche si fosse trovata dove lui diceva, non avrebbe potuto avere l’aspetto lussureggiante da lui descritto. Se le sue coste più settentrionali arrivavano alla latitudine del Tropico del Capricorno, o anche di quaranta gradi sud, la sua massa continentale doveva annullare l’effetto positivo del mare sul clima. I venti provenienti dal Polo Sud lo avrebbero percorso in tutta la sua larghezza, portando gelo e neve.
– E’ probabile. Ma come si può dubitare che i sogni dell’uomo dureranno più a lungo di qualunque ragionamento, poiché è in lui stesso che vivono. Ognuno insegue la sua Terra Australe, il suo Paradiso Terrestre; per un rivoluzionario, sarà la società comunista; per un pescatore stanco di una vita faticosa sempre in lotta con il mare, sarà una casetta e un pezzo di terra dalle parti di Concepciòn. E per un uomo o una donna assetati di verità, di bontà, di giustizia, potrà anche essere l’idea di dio.
– Il fatto che tanti esseri umani sentano con forza il bisogno di credere che in qualche modo la giustizia, la verità e la bontà trionferanno sui loro mille nemici, non è una prova del fatto che si tratti di una semplice autoillusione, come la sete non dimostra affatto l’inesistenza dell’acqua, ma anzi, la presuppone.
Mariano mi guardò fuggevolmente, poi tornò a fissare innanzi a sé: – Tu credi in Dio, Federico?
– Un pochino, credo di avere questa debolezza.
– Comunque, quel che dicevi è giusto. Non è una prova. Non esistono prove dell’inesistenza di dio, ovviamente. Esistono parecchi indizi, ma nessuna prova. Del resto, è ai suoi credenti che tocca l’onere della dimostrazione. Io riconosco che l’idea di dio poteva rappresentare, e forse ha rappresentato, in una certa fase storica, qualche cosa di nobile e grande, addirittura qualche cosa di necessario. Ha spiritualizzato gli appetiti dell’uopo, essere naturalmente egoista; gli ha indicato delle mete morali, che altrimenti non avrebbe neanche sospettato. Ma ora, quel tempo è finito. Ora abbiamo la scienza, e l’uomo deve assumersi la responsabilità di se stesso, nel bene o nel male. Deve farsi lui stesso Dio, e uccidere il vecchio Dio che ne ritarda l’emancipazione, che mina la sua fiducia in sé stesso. L’uomo non ha più bisogno di Dio, come l’adulto non ha più bisogno dei giocattoli con cui giocava da bimbo…
Improvvisamente divenne pensieroso, come gli era capitato altre volte in momenti simili, e non disse altro. Anch’io ero impegnato a riflettere. Soli, lontanissimi dalla civiltà, da ogni luogo abitato, sballottati nell’immensità dell’oceano, incerti del nostro futuro, facevamo questi ed altri discorsi sull’uomo, su Dio, sull’immortalità. Ero profondamente grato a Mariano di questa tensione intellettuale e morale, che mi consentiva di dimenticare le angosce del presente, m’impediva di abbrutirmi nelle esigenze puramente animalesche dell’istinto di sopravvivenza. Sentivo che lui stesso non aveva definitivamente risolto tali problemi, ma intanto ricevevo Qualche cosa dalla sua ansia di capire, di sapere, e mi sentivo stimolato a farmi mille ulteriori domande, a non accontentarmi mai della soluzione più facile, più evidente. Questo è un aspetto che mi ha sempre affascinato della personalità di Mariano: la sua sete di conoscenza si propaga come un fuoco, mi solleva al di sopra delle miserie di questa, esistenza raminga e pericolosa, prima come deportato, oggi come passeggero forzato di una crociera impossibile. E mi fa sentire la bellezza di uno sforzo per trascendere le angustie del limitato e del contingente.
CAPITOLO SESTO
17 gennaio.
Il mare è sempre più grosso, il vento sempre più forte, il freddo sempre più tagliente. La Santa Inés avanza faticosamente, scende nel cavo fra due onde, risale la cresta successiva, scende di nuovo: come un turacciolo, s’inclina ma non affonda mai. Anche oggi molta pioggia, con qualche ore di schiarita e poi di nuovo cielo chiuso e pioggia. La rotta è sempre sud-ovest, dovremmo aver superato il 40° parallelo: stiamo quindi avvicinandoci ai "cinquanta urlanti".
18 gennaio.
Oggi, insperatamente, il tempo è migliorato. Il cielo è sempre grigio, ma niente pioggia; anche il mare e il vento sono più calmi. A pranzo siamo stati invitati dal marchese nella sua cabina.
Dapprima abbiamo parlato di cose indifferenti. Il marchese era cordiale, anche se il mio sesto senso ha continuato a tenermi all’erta per tutto il tempo. Poi, improvvisamente, guardandoci dritti negli occhi – avevamo terminato di pranzare, e ci aveva offerto un sigaro – ha detto con la massima calma: – Signori, so che mi ritenete o un pazzo o un malintenzionato. Sia nel primo che nel secondo caso, vi sentite inquieti, forse minacciati. -E poiché stavamo per protestare, ci ha fermati con un gesto deciso della mano; poi ha proseguito, sempre con molta calma, ma deciso: – Ebbene, voglio sappiate come stanno le cose. In fondo, ne avete il diritto; anche se io vi ho tolti da una situazione spiacevole; ma ora avete la sensazione che vi stia trascinando verso l’ignoto.
Io e Mariano ci scambiammo un’occhiata, poi restammo silenziosi in attesa. – Bull, il marinaio che mi ha ceduto i suoi diritti sull’isola (non è il suo vero nome, naturalmente; ma fa poca importanza) possedeva delle informazioni che non ho esitato a giudicare del massimo valore; informazioni, d’altra parte, così strane e insolite, che difficilmente potrebbero essere credute da una persona ragionevole. Egli, però, è stato in grado di fornirmi delle prove convincenti di quanto sosteneva. In breve, si tratta di questo. Egli giunse in vista, dell’isola nel dicembre del 1904, trascinatovi casualmente da una formidabile tempesta che lo aveva sorpreso nella traversata de Tahiti verso il Capo Horn. Aveva sentito parlare vagamente dell’isola Dougherty, ma non prestava fede alla sua esistenza. Quando la vide, però, si ricordò di quei racconti, e la riconobbe immediatamente, anche per il numero stragrande di foche da pelliccia che popolavano le sue scogliere, forse un milione d’individui; e per le lunghe alghe brune che coprono le sue rive. La tempesta si era alquanto calmata e il nostro uomo decise di accostare per dare un’occhiata più da vicino.
Mentre bordeggiava lungo il perimetro dell’isola, alla ricerca di una rada ove poter gettare l’ancora, capitò davanti a una grotta marina che si apriva nel fianco delle rocce e che sembrava addentrarsi profondamente nel seno dell’isola. L’ingresso era angusto e fiancheggiato da scogli formidabili, ove, col mare :mosso, avrebbe rischiato di naufragare con la sua baleniera. Perciò proseguì a navigare sotto costa, finché trovò una piccola insenatura con una spiaggia di ciottoli ove poté accostare ed ancorarsi. Poi mise in mare la scialuppa e, con quattro marinai, tornò indietro fino all’ingresso della caverna, penetrandovi abilmente rasente gli scogli. Percorsero un lungo corridoio naturale scavato dalla forza del mare nella viva roccia, provocando la fuga di alcune foche che tuttavia s’immersero in acqua piuttosto lentamente, come se non avessero vasto mai un essere umano prima d’allora. Intanto, fin dall’ingresso nella grotta, avevano notato che una forte corrente marina li aveva ali errati e li spingeva avanti, tanto che non occorreva neppure che remassero; bastava tenere dritto il timone per evitare di avvicinarsi troppo alle ripide pareti rocciose.
Il corridoio, chiamiamolo così, era lungo un cinquecento metri, e riceveva luce, nel primo tratto, dall’ingresso rivolto all’esterno; nel secondo tratto regnava una densa oscurità, non totale, però, perché un debole chiarore sembrava provenire da una sorgente posta più avanti. Al termine del "corridoio", infatti, la scialuppa penetrò in un vasto specchio d’acqua interamente circondato da rocce precipiti alte alcune decine di metri, mentre la volta terminava (forse era crollata nel corso delle epoche) e il cielo si apriva al disopra di quell’impressionante anfiteatro. Ma Bull e gli altri non ebbero quasi occhi per quello spettacolo naturale, pur così affascinante da superare molti luoghi celebri del mondo a motivo di formazioni analoghe: quel che videro in fondo alla laguna superava qualunque altra cosa in stranezza e imponenza. –
Confesso che io e Mariano, a questo punto, avevamo quasi dimenticato la nostra situazione, le incognite del futuro, la stessa diffidenza nei confronti del marchese. Il suo racconto ci aveva completamente presi: sembrava una favola, eppure esercitava una curiosità e una meraviglia indescrivibili nei nostri animi. Egli raccontava con tono calmo e quasi distaccato, con parole asciutte, pure (o proprio per questo) tutta la storia, in un certo senso così incredibile, assumeva un sapere di verità che non saprei spiegare razionalmente. In quel momento noi "sapevamo" che il racconto di Bull, il vecchio baleniere, era veritiero; ne avevamo l’intuitiva certezza, e non avremmo saputo dire perché.
– Allineate una accanto all’altra, anzi poggiate l’una contro l’altra, videro, con stupore assai vicino allo sgomento, sei o sette navi in più o meno avanzato stato di disfacimento. Tutte navi a. vela, tutte piuttosto vecchie, e due di esse addirittura con la tipica struttura dei vascelli di due secoli fa! Dalle meno corrose pendevano ancora, tutte stracciate e ammuffite, le velature; i cordami gemevano nel rollio dei vecchi scafi tarlati e mezzi imputriditi. L’insieme offriva uno spettacolo così irreale e vagamente sinistro, che i marinai si segnarono con religioso spavento, non riuscendo quasi a credere ai propri occhi. Avrebbero anzi voluto tornare indietro immediatamente.
– Porta male restare in un luogo simile -, disse uno di loro, a nome anche degli altri. Ma Bull, il vecchio intrepido capitano, raccolse tutto il suo coraggio e, bestemmiando, ordinò loro di accostare a quelle vecchie navi. Anche all’interno della laguna", si faceva sentire la corrente già notata nel fiordo, sicché in pochi minuti furono sotto bordo. Sfilarono lungo la poppa dei velieri, che giacevano tutti con la prua semi incastrata sugli scogli della riva; il sartiame scendeva in acqua come una vegetazione verdastra, marcia per l’antica umidità. Alcune navi scricchiolavano, urtandosi piano secondo il movimento delle onde; ma il mare, all’interno della laguna, era quasi calmo; notarono inoltre che laggiù non c’era nemmeno una foca. Le navi erano sette, e ciascuna di esse recava, corroso dal tempo e dalla pioggia, il proprio nome in caratteri ancora leggibili; nomi scritti in tutte le lingue, inglese, francese, spagnolo, tedesco. Quei velieri, dunque, erano partiti da diversi porti dell’America, dell’Asia e dell’Europa, ed erano venute a morire, in tempi assai diversi l’una dall’altra, in fondo a quella laguna sconosciuta e quasi inaccessibile, per un curioso e stranissimo destino, come se una gigantesca mano misteriosa le avesse raccolte insieme. Bene – disse il marchese a questo punto – devo continuare, o state già pensando che non vale la pena di prestar fede a una simile storia?
Fu Mariano a rispondere: – In verità, marchese, avevo già sentito parlare di simili cimiteri di navi. So che anni fa ne venne scoperto uno sulle coste della Georgia Australe. Ma quello descritto dal vostro Bull sembrerebbe un caso pressoché unico, anche per le caratteristiche della grotta e della laguna interna… Comunque, vi prego, continuate.
– I marinai erano sempre presi da superstizioso timore, ma Bull li schernì dicendo loro che i fantasmi sono invenzioni da donnicciole, e che non v’era proprio niente di soprannaturale in quanto stavano osservando. E, alla domanda di chi o cosa avesse condotto quelle vecchie navi ad arenarsi in quel luogo fantastico, egli rispose: "Ma il mare, naturalmente, stupidi! Non avete notato quella corrente che ci ha afferrati sin da quando abbiamo infilato il passaggio della grotta? Esiste un gioco di correnti, evidentemente, che ha afferrato questi velieri, già alla deriva dopo qualche tempesta, e li ha trascinati fin qui, in fondo alla laguna. Guardate le fiancate, come sono ammaccate, con il fasciame qua e là squarciato: non sono affondate solo perché toccano già il fondo. Devono avere sbattuto ripetutamente nel percorrere il fiordo, contro le due pareti rocciose, prima di sboccare qua in fondo e andare a incagliarsi sulla riva. Scommetto che, se saliamo a bordo, troveremo i resti degli equipaggi, o meglio, degli scheletri; e anche il giornale di bordo; e il carico, quantunque ammuffito." A questo punto, un pensiero gli attraversò la mente: se ogni cosa, a bordo, era rimasta intatta, anche il denaro doveva essere rimasto lì. Infatti, nessuno era mai sbarcato sull’isola Dougherty, a quel che si sapeva, neanche Quei pochi che l’avevano avvistata, a cominciare dal suo scopritore. Bull era, dunque, impaziente di verificare le sue supposizioni; ma gli altri marinai non ne vollero sapere. Erano giunti al limite della tensione nervosa; per i loro animi semplici e rozzi, quello era un luogo maledetto, e salire a bordo dei vascelli voleva dire attirarsi qualche inimmaginabile ma sicuro castigo. Insistettero, anzi, per partire immediatamente, e il capitano, che pure era certo dell’origine perfettamente naturale di tutto quello scenario, pure, sotto le insistenze sempre più spaventate dei compagni, cominciava a sentir vacillare la sua forza di volontà. Il luogo era veramente sinistro; l’ora, già tarda, non lasciava più che poco tempo al calare delle tenebre; e attardarsi nella laguna con 1’oscurità, per poi affrontare al buio il viaggio di ritorno, era realmente pericoloso. Anche lui, suo malgrado, cominciava a sentirsi a disagio; un brivido che forse non era soltanto di freddo gli percorreva la, schiena.
"Abbiamo sfidato già anche troppo la buona fortuna", dicevano i marinai, "ora che la burrasca si è placata, dobbiamo approfittarne per lasciare subito questo posto del demonio. Anche le scogliere dell’isola rappresentano un pericolo, se il mare si gonfia di nuovo, e l’ancoraggio non è sicuro. Dobbiamo partire al più presto, questa sera stessa, e portarci al largo prima di notte!". Questo continuavano a dire, e il capitano, travolto dalle loro insistenze e un po’, anche, dal loro spavento, dovette finire per cedere. Tornarono indietro, ripercorrendo a forza di remi il buio fiordo scavato nella roccia; raggiunsero la costa e riguadagnarono, circa un’ora dopo, il bastimento. Prima di notte avevano levato l’ancora e si allontanavano, tanto più che non avevano visto alcun segno di acqua dolce sull’isola, e le stive erano già cariche. Nessuno voleva dedicarsi alla caccia alle foche, in quelle condizioni; ma Bull, che aveva rilevato l’esatta posizione dell’isola, era ben deciso a tornarvi. Intanto fece giurare ai quattro marinai della scialuppa di non dir niente a nessuno, neanche ai loro compagni; e, per quel che gli risultava quando parlò con me, dovevano aver mantenuto la promessa, perché nessuno dell’equipaggio fece mai il più piccolo accenno a quel che vi era nella laguna.
A questo punto il marchese fece una pausa, cercando di valutare l’impressione prodotta in noi da quel racconto. Ma noi non facemmo alcuna domanda, desiderosi di sapere il seguito della storia.
– Il capitano aveva letto e memorizzato i nomi di quelle navi, e, tornato a bordo della sua baleniera, se li era scritti, per timore di poterli dimenticare. Tornato in Europa, fece delle ricerche negli archivi delle compagnie di navigazione. Riuscì a trovare la registrazione di sei delle sette navi: a quanto risultava, nessuna trasportava un carico prezioso, e anzi quattro erano andate perdute nel viaggio di andata. Di una, la più antica, un brigantino inglese di nome Newcastle, che aveva l’apparenza di esser stato varato verso la fine del ‘700, non trovò nulla. Mi misi io, allora, a cercare con pazienza nelle biblioteche e nei registri navali di Londra e, alla fine, riuscii a trovare quel che volevo. Il "Newcastle’1, varato nei. cantieri di Bristol nel 1792, era giunto nei mari della Cina tre anni dopo, adibito al commercio del tè e della seta fra l’India e Hong-Kong. Poi era stato trasferito nella nascente colonia britannica dell’Australia, allora colonia penale, e per le sue doti di velocità e manovrabilità aveva svolto funzioni amministrative di collegamento fra Sydney (fondata nel 1788) e Singapore. Nella primavera del 1799 era salpato da Botany Bay diretto in Nuova Zelanda, dove pure gl’Inglesi stavano prendendo piede, non senza incontrare una dura resistenza da parte dei Maori. Doveva trasportare un rappresentante del governo britannico, denaro e fucili per una piccola guarnigione stabilita sullo Stretto di Cook, poiché a Londra era trapelata la notizia di un’analoga intenzione da parte dei Francesi e le due nazioni, allora, erano impegnate in pieno nelle guerre napoleoniche. Ma in Nuova Zelanda la nave non arrivò mai. Sparì nel nulla, semplicemente, con tutto l’equipaggio, e fu data per dispersa, cosa a quei tempi abbastanza frequente. Evidentemente, era stata sorpresa da una violenta tempesta nel Mare di Tasman, e trascinata dai venti dell’ovest fra l’isola Stewart e l’isola Campbell, giù giù lungo i "cinquanta urlanti". Un veliero che venga disalberato può essere trasportato per centinaia di miglia dalla Corrente Antartica, che corre nel Pacifico meridionale in direzione del Capo Horn, prima di risalire lungo le coste del Sud America. E questo, evidentemente, è quanto accadde al Newcastle. Solo che il brigantino, nella sua deriva tempestosa, dovette passare all’altezza dell’isola Dougherty, di cui certamente ignorava l’esistenza, poiché Swain la vide e ne diede notizia al mondo giusto un anno dopo. La prua dovette urtare gli scogli all’imboccatura della grotta, e il gioco delle correnti la spinse avanti lungo il fiordo, fino all’estremità della laguna, dove si adagiò incagliandosi a riva. –
Qui il marchese fece una pausa; spense il suo sigaro e tornò a guardarci con aria interrogativa. I suoi occhi chiari e freddi mandavano lampi.- Capite, ora, perché voglio a ogni costo raggiungere l’isola Dougherty? –
– A bordo di quel brigantino – dissi – dev’esservi una piccola fortuna.-
– In sterline del 1799. Sì, una piccola fortuna; e neanche tanto piccola, forse -, confermò il marchese.-
– Tuttavia, vi sono ancora diversi punti de chiarire – disse Mariano. Primo: come mai Bull vi vendette i diritti sull’isola? Secondo: quali prove egli addusse a conferma del suo straordinario raccolto? Terzo: che cose sa di tutto questo il capitano Lopez, e per quale ragione, scusate, ci avete messo a parte di un segreto così… prezioso? Quarto: come contate di portare via il tesoro, anche ammesso che lo troviate; anzi, anche ammesso, scusate la franchezza, che riusciate a ritrovare l’isola, visto che spedizioni ben attrezzate hanno fallito nella sua ricerca? –
II marchese lo fissava senza batter ciglio e, quando il mio amico ebbe finito di parlare, pareva quasi divertito. – Questo si chiama parlar chiaro, signore; e la franchezza è una virtù che ho sempre apprezzato moltissimo. Ebbene, cercherò di soddisfare, nei limiti del possibile, la vostra comprensibile curiosità.
Punto primo: Bull mi che ceduto i suoi diritti perché, quando l’ho conosciuto, aveva appreso di avere un male incurabile, un male che non gli avrebbe mai permesso di organizzare una nuova crociera fin quaggiù. A quel punto, per lui, meglio accontentarsi di un uovo oggi che di una gallina in un domani che non sarebbe mai arrivato. Tenete presente che, se anche poteva sospettare di trovare del denaro sui velieri naufragati nell’isola, non sapeva la. cosa più importante: che l’unica, nave da lui non identificata, era proprio quella che trasportava una considerevole somma per conto del governo inglese. Questo lo so solo io, e naturalmente non glie l’ho detto.
Punto secondo: le prove che mi addusse furono più che convincenti. I nomi delle navi da lui scoperte, per esempio: ho controllato, corrispondono tutti; e il fatto che non sapesse nulla del Newcastle, tranne il nome, è una conferma della sua veridicità. Altrimenti, come avrebbe potuto inventare proprio il nome di una nave che si perse realmente nell’Oceano Pacifico, più di un secolo fa?
Punto terzo: il capitano di questa goletta non sa nulla anche ignorante, come tutti i suoi marinai, quindi posso fargli credere, fino a un certo punto, quel che ritengo giusto. In ogni modo, per fare dei piani con un certo margine di preveggenza, non si può escludere che sorgano delle difficoltà, al momento di trasportare il denaro. E’ per questo che ho bisogno della vostra collaborazione, ed è per questo che ho deciso di mettervi a parte .Con il che, ritengo di aver soddisfatto anche la vostra domanda in proposito. Permettetemi solo di conservare, per adesso, un certo riserbo sul quarto punto. Del resto, prima che raggiungiamo il relitto del Newcastle, state sicuri che dovremo discutere anche di ciò: ossia di come organizzare materialmente la ricerca e il trasporto della parte più preziosa del carico. Ho già qualche idea al riguardo, ma devo riflettervi ancora. Ritenete sufficiente, per ora, signori, quel che vi ho rivelato? C’è qualcos’altro che desiderate sapere?
Vi fu un silenzio, poi: – Una cose sola -, dissi.- Che cosa vi dà la sicurezza che noi vi aiuteremo, e che cosa pensate che ci aspetteremo in cambio di essa, se e quando l’impresa sarà stata condotta a buon fine?-
Di nuovo il marchese sorrise, ma di un sorriso che metteva i brividi. In quell’attimo ebbi la sensazione che la sua vera natura, abilmente mascherata dietro un velo di urbanità, fosse spietata come la lama di un coltello; che quello, insomma, fosse un uomo pericoloso, e che sarebbe stato un grevissimo errore quello di sottovalutarlo solo perché era solo (ma non, probabilmente, disarmato). Molto bene -,disse – anche questo è un parlar chiaro, e per me è senz’altro preferibile. Non sarò così indelicato ricordandovi che voi siete già in debito con me. D’altra parte, ho motivo di ritenere che voi non siate avidi come il capitano Lopez. Ritengo di essere un buon conoscitore uomini; ma mi piace anche scommettere. Ho scommesso, con un buon grado di probabilità, sul racconto del baleniere Bull; ora sto scommettendo su di voi. Secondo me, siete due idealisti. E non lo dico con una punta di superiorità: io apprezzo gli idealisti, anche perché ritengo di appartenere io stesso a tale categoria. Il denaro del Newcastle, infatti, non mi serve per scopi egoistici e volgari, ma per servire una grande causa. Forse un giorno ve ne parlerò; per ora, non lo giudico necessario. Voi potete credermi o no; anche voi, in un certo senso, siete davanti a una scommessa. Da che cosa desumo che siete degli idealisti? Dal fatto che avete affrontato il carcere e il confino per le vostre idee. Immagino che siate dei socialisti: credete in una società migliore, dove non esista lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Uomini così sono scarsamente interessati al denaro. In ogni modo, non mi aspetto che collaboriate con me senza trovarvi alcun utile. Diciamo che con quel denaro potrete tornare sul continente, aiutare le vostre famiglie, procurarvi documenti falsi per espatriare, e anche finanziare, in una certa misura, la vostra causa e i vostri ideali. Sono certo che non ci scontreremo e non ci tratteremo da nemici per la questione del danaro: so che il vostro senso dell’onore non vi consente di mercanteggiare con l’uomo che vi ha restituito alla libertà. –
Io e Mariano restammo in silenzio, pensierosi.
– Comunque, – concluse il marchese – vi lascio tutto il tempo per riflettere. Voi potete decidere di aiutarmi, e in questo caso mi darete la vostra parola d’onore che farete quanto vi chiederò, senza discutere i miei ordini. Oppure potete rifiutare; e allora io vi chiederò soltanto di restare neutrali, di non immischiarvi delle mie faccende, e di promettermi che non farete parola con nessuno dell’equipaggio di Quanto è stato detto oggi in questa cabina. – E ci guardò significativamente, come a dire che era tutto.
Mariano si alzò per primo: – Avrete la nostra risposta entro domani -, disse, avviandosi alla porta. Lo ringraziammo della cena, ed uscimmo.
– Cosa c’è che non ti convince? -, gli chiesi, quando fummo rientrati nel nostro alloggio, notando la sua aria assorta.
– Il fatto che possiamo scegliere solo in apparenza -, rispose.
CAPITOLO SETTIMO
Dal diario di Al ex andrà, 19 gennaio.
Ed ecco, fedeli compagni della mia angoscia solitaria, i sensi di colpa. Mi dico e mi ripeto cento volte al giorno che non dovevo lasciarlo partire, che l’ho mandato incontro a chissà quali pericoli. Dove può essere andato? Si nasconde in qualche parte remota dell’isola, o ha trovato il modo d’imbarcarsi, di andarsene lontano? Quando venne da me per mettermi a parte della progettata fuga, aspettava un mio cenno e lui avrebbe obbedito, qualunque cosa gli avessi detto o anche solo fatto capire che desideravo.
So che avrebbe fatto qualunque cosa per me: tremenda responsabilità che ora, retrospettivamente, mi schiaccia sotto il suo peso. Gli ho lasciato intendere che faceva bene ad annidarsene, e ho agito così perché, in base alle informazioni di cui disponevo, ritenevo che avrebbe corso maggiori pericoli rimanendo. Ma è stata la decisione più saggia, più giusta? Oppure ho commesso un terribile sbaglio?
Ed è partito con tutto il suo pessimismo, senza aver avuto da me le parole che, forse, ero in dovere di dirgli. Ma quali? Che l’amo? Se io stessa non riesco a veder chiaro dentro di me, come avrei potuto comunicare qualcosa che non capisco? E a che scopo? Per turba-e ulteriormente la sua vita, e la mia?
Non ho pensato nemmeno di fargli il segno di croce, quando ci siamo detti addio. Forse si sarebbe irritato, perché non crede in Dio. Ma no, da me lo avrebbe accettato con gratitudine. Lui crede di essere lontano da Dio; e non sa quanto gli sia, in realtà, vicino. Non sa che Dio è tutto in tutti, e specialmente in coloro che s’interrogano, pur senza trovare una risposta. Deus tecum est: ho trovato questa frese di Seneca nel quaderno degli esercizi di Romualdo. Perché Mariano gli avrà dettato proprio questa frase? O forse sono io, adesso, che lavoro di fantasia? Tuttavia, mi piace pensare che questo pensiero lo abbia sfiorato; che non troveremo mai Dio, finché lo cerchiamo fuori di noi; ma che non possiamo non trovarlo, e avvertirne la meravigliose presenza, non appena rivolgiamo seriamente lo sguardo nelle profondità del nostro spirito. Sì, Mariano: Dio è con noi, sempre, anche quando non lo sappiamo, e lo crediamo lontano, o assente. Che Egli ti benedica, che vegli su di te. Che ti dia la pace del cuore.
19 gennaio.
Io e Mariano ci siamo consultati a lungo sulla risposta da dare al marchese. – Perché pensi che noi gessiamo scegliere solo in apparenza?-, gli ho chiesto, ricordando le sue parole di ieri sera.
– Perché siamo nelle sue mani. Ci ha salvati dal bagno penale, ma ci porta dove vuole, in base ai suoi piani. Possiamo veramente rifiutarci di aiutarlo? Una sua parola, e il capitano potrebbe buttarci in fondo al mare. Chi sa della nostra presenza a bordo del Santa Inés? Nessuno. E se dovessimo sparire, chi ci cercherebbe? –
– Nessuno -, riconobbi. – Ma… pensi veramente che il marchese sia uomo da ordinare un omicidio a mente fredda? Non mi sembra un assassino… –
Mariano sorrise, anzi ridacchiò, in un modo strano, come sinceramente divertito. Gliene chiesi la ragione, e lui, a sua volta, mi domandò: – Tu saresti capace di uccidere? –
Sgradevoli ricordi mi tornarono alla mente. – Io ho ucciso, anche se non a mente fredda. È accaduto molti anni fa. Ora ho quarant’arnai-, allora ne avevo ventotto e vivevo ancora in Europa. Tu lo sai che io sono uno dei tanti immigrati di origine europea, vero?
– No, non lo sapevo. Racconta…
– Da tanto tempo non mi accadeva di rievocare questa vecchia storia… Confesso che l’avevo in buona parte rimossa. Sono nato a Cilli, in slavo Celje, da padre austriaco e madre slovena: ero, quindi, un suddito dell’imperialregio governo austro-ungarico. Fin da giovane provavo simpatia per le idee socialiste, ma fu quel che mi capitò sotto le armi a darmi la spinta decisiva per lasciare l’Europa e cercare una nuova esistenza il più lontano possibile… In breve, ebbi la sfortuna di prestare servizio militare al tempo della rivolta dei Boxer in Cina. Ricorderai quella storia, nell’estate del 1900 i Cinesi ammazzarono l’ambasciatore tedesco a Pechino e assediarono il quartiere delle ambasciate europee. I governi occidentali organizzarono in fretta e furia una spedizione di soccorso, che sbarcò a Tientsin e conquistò Pechino ai rombo del cannone, massacrando i ribelli e liberando gli ambasciatori da una situazione quasi disperata. Ricordo che fu presentata come una crociata della, civiltà <p«tela barbarie: benché i Cinesi, in fin dei conti, non avessero fatto altro che un tentativo per liberarsi dal nodo scorsoio con cui le rapaci potenze coloniali li stavano strangolando, loro e il loro sfortunato Paese… La spedizione di soccorso, sotto comando tedesco, comprendeva reparti di tutte le potenze interessate: Gran Bretagna, Francia, Russia, Giappone, Stati Uniti, Italia… e Austria- Ungheria. Sì, perché anche il vecchio Francesco Giuseppe, per ragioni di prestigio, decise di inviare a Tientsin un piccolo reparto militare, sebbene il suo Stato fosse l’unico a non avere nemmeno una colonia, né in Asia né altrove… E io, come ti stavo dicendo, ebbi l’incredibile sfortuna di essere uno dei pochi soldati dell’unico contingente austro-ungarico che avesse mai lasciato l’Europa per andare a combattere oltremare: pensa che coincidenza! Be’, quel che vidi laggiù, quando arrivammo, finì di aprirmi completamente gli occhi. Noi, i rappresentanti della "superiore" razza bianca, i vendicatori della civiltà, ci macchiammo di violenze inaudite.
Comunque, io fui presente al momento dell’assalto contro Pechino, per liberare le ambasciate: e mi trovai, come si dice, nel folto della mischia. Un vero corpo a corpo, un assalto all’arma bianca… Ci avevano ben bene indottrinati: non abbiate pietà, non fate prigionieri, eccetera… Ma in quei momenti, io non pensavo alle parole dei Rostri ufficiali; pensavo, semplicemente, a non farmi uccidere, a salvarmi la vita… Nell’inferno di spari e grida, in mezzo al fumo e al sangue, un’ira cieca mi aveva invaso, un furore inspiegabile: il mio istinto mi diceva soltanto che quelli mi volevano uccidere, e che io dovevo uccidere per primo, ad ogni costo… Così, non ebbi il tempo di formulare alcun pensiero quando immersi a tutta forza la baionetta inastata in quei miseri stracci che avvolgevano un corpo mingherlino, forse denutrito… Sentii lo scricchiolio delle ossa, vidi lo schizzo del sangue, la smorfia indimenticabile di quegli occhi… E tutto ciò meccanicamente, ciecamente; come se non fossi più io. Ritrassi la baionetta per liberare l’arma, ed esser pronto a vibrare altri colpi, per difendermi, prima che altri colpissero me… Mi scrollai dalla punta del fucile quel mucchietto d’ossa e di stracci, e corsi avanti, trascinato dalle grida dei compagni, dal crepitio delle raffiche di mitragliatrice…
E più tardi, ma solo più tardi… quando la barricata fu presa, quando non si mossero più che i feriti e i moribondi… ,io mi allontanai dagli hurrà dei compagni, e corsi in disparte a vomitare. Certo, avevo ucciso per difendermi: ma era quella la mia terra? Era la mia casa, la mia famiglia che stavo difendendo, a diecimila chilometri dalla p atri a?_ Non era forse vero il contrario? Non erano i Cinesi che stavano tentando disperatamente di difendere le loro case e le loro famiglie dalla nostra aggressione? Quanto all’ambasciatore di Germania, von Ketteler, il suo destino non mi commuoveva: più tardi ebbe occasione di parlare con alcuni soldati tedeschi che l’avevano conosciuto. E seppi che era il classico tipo del nobile prussiano arrogante e razzista, che quella fine se l’era cercata in tutti i modi. In ogni modo, era chiaro che la sua uccisione, per le potenze europee, non era stata che un opportuno pretesto per far sentire il pugno di ferro sulla nuca dei Cinesi, per ricordare loro chi comandava veramente, a casa loro… Be’, come ti dicevo, è una vecchia storia.
Tornato in Austria e terminato il servizio militare, espatriai in Sud America, deciso a rifarmi una vita e a dedicarmi anima e corpo al socialismo, all’ideale di una società giusta, di uomini liberi e uguali, senza differenze di sorta. Ma forse, è solo un sogno. Certo, le vicende della colonia penale mi hanno spinto a riflettere. –
Mariano mi aveva ascoltato attentamente, senza guardarmi, credo per non accrescere il mio imbarazzo: perché ero realmente a disagio. Da anni non avevo più disseppellito quei ricordi dalla coscienza. Restò in silenzio molto a lungo, riflettendo; poi, quando quasi non credevo più che avrebbe aggiunto altro, come altre volte aveva fatto disse inaspettatamente: – Capisco. Ma tu, non devi sentirti colpevole. Hai ucciso per difendere la tua vita, questa è la verità. Io, invece, ho ucciso scientemente, a freddo, in tutta calma e ponderatezza. Ho ucciso guardando negli occhi la mia vittima, e non ho avuto pietà, non ho avuto esitazioni; la mano mi tremava appena un poco, quasi impercettibilmente. E non è tutto: lo farei di nuovo. Sento che sarei capace ai farlo ancora. Meravigliato, eh? –
Effettivamente, credo che un moto di sorpresa sia apparso, mio malgrado, nel mio viso. Non avevo potuto trattenerlo.
– Vuoi sapere come è andata? Premetto che non è per quell’assassinio che sono finito al confino… No, quello non l’hanno scoperto, altrimenti non me la sarei certo cavata così a buon mercato. –
– Sì, vorrei saperlo, ma solo se ti va di parlarne -, ammisi.
– Ma sì. Ricordi il grande sciopero dei minatori di Antofagasta, nel 1908 che tanto scalpore destò nel paese? Il governo mandò l’esercito, e i soldati spararono sui. minatori, sulle loro donne e sui loro figli, uccidendo ottantotto persone. I giornali dissero ventiquattro, mentendo. Altri duecento rimasero feriti, più o meno gravemente. Quelli che non riuscirono a scappare vennero finiti a colpi’ di baionetta. Ricordi? –
– Certo, lo ricordo molto bene. Anch’io sapevo che il numero delle vittime doveva essere molto superiore a quel che diceva la versione ufficiale. –
– Ebbene, ingenerale che ordinò quel massacro ebbe poi un’alta decorazione direttamente dalle mani del capo di stato maggiore. –
– Sì, ricordo anche questo. Era il generale Ignacio Muñoz-Gamero. Ma… non vorrai dirmi che tu… che fosti tu, a… –
– Già, io. Qualcuno doveva farlo, no? E così, mentre voi socialisti v’indignavate, noi anarchici formammo un tribunale rivoluzionario e, dopo un regolare processo, lo condannammo a morte. Tirammo a sorte fra quelli di noi che sapevano usare una rivoltella: e la sorte cadde su di me. Mi trasferii a Talcahuano, dove allora era in servizio il generale. Presi visione della sua casa (per fortuna, non abitava in caserma) , dei suoi movimenti, delle sue abitudini. Ogni mattina, alle sette precise, usciva di casa con passo marziale, e si dirigeva a piedi verso la sua caserma. Abitava in un quartiere periferico, molto tranquillo, e a quell’ora, d’inverno, non c’erano praticamente passanti. Così, il terzo giorno dei miei appostamenti, lo aspettai all’angolo della strada. Lui uscì di casa, come al solito, preciso come un cronometro, e venne dritto verso di me. Io gli andai incontro.
Quando fummo a non più di dieci passi, estrassi la pistola e gliela puntai contro rapidamente. Solo allora lui intuì il pericolo e, freneticamente, cercò di sbottonare l’astuccio del revolver che portava appeso alla cintura. Ma io gli sparai a bruciapelo un colpo, due colpi, tre, quattro: tutto il caricatore. Continuai a sparargli, con calma e regolarità, anche mentre si abbatteva sul marciapiede: era riuscito a estrarre la sua arma e me la puntava contro a sua volta. Sparò due volte, e mi colpì a una spalla; io lo finii da due metri di distanza, forse meno. Non sentivo il dolore, sul momento: solo, come una lieve scottatura. L’ultimo colpo glielo sparai dritto in testa, e fu il colpo di grazia. Ebbi il tempo di allontanarmi prima che la gente cominciasse a uscire dalle case, e questa fu la mia salvezza. Due isolati più avanti trovai il calesse di un compagno che mi stava aspettando, secondo i piani. Lui mi portò al sicuro e, un mese dopo, guarito dalle ferita e sfuggito alle ricerche della polizia, salii sul treno e tornai nella capitale. Avevo eseguito la missione.
Ora, forse, vorrai sapere che cosa provai in quegli istanti, mentre speravo addosso a quell’uomo, mentre gli stavo togliendo le vita. Vero? Te lo dirò, Federico: assolutamente nulla. Era una cosa da fare, già vagliata, già decisa; e andava fatta. Basta, tutto qui. –
– Tu, però – osservai – hai detto, dopo la morte di Diego, che il problema del valore della vita umana, di qualunque umana; anzi: del valore sacrale della vita umana… Ricordi?… –
Mariano accennò un sorriso: – E come no? Solo che il generale Muñoz-Gamero, per noi, per me, non ere un essere umano, ma una bestia.
-E… adesso? Sei ancora di una tale opinione? Hai detto che lo faresti di nuovo, senza alcun pentimento…
– Ma sì, l’ho detto, ed è veramente quello che penso. Solo che, a volte, altro è quel che ti dice la mente, altro il cuore, per così dire… Con la mente, sento di aver agito in modo giusto, e sarei pronto a cacciare una palla in fronte a venti generali di quello stampo. Ma, al tempo stesso, quando penso ai mille condizionamenti che fanno di noi quello che siamo; quando penso che anche quell’uomo aveva una donna, dei figli, qualcuno che, forse, gli voleva bene… Be’, non lo so. Sono in contraddizione con me stesso, certo. Forse, certi problemi semplicemente non hanno soluzione. Non tutto è chiaro, nella vita; non tutto è razionale. –
II suo racconto, lo confesso, mi aveva profondamente colpito. Non che avesse modificato la mia opinione su Mariano: non era diminuita la mia stima nei suoi confronti. Me scoprivo, questo è certo, un lato nuovo della sua complessa personalità. Per alcuni minuti restammo così, in silenzio: non c’era niente da dire. Alla fine mi riscossi, e domandai: – Tornando ai marchese, secondo te potrebbe arrivare a farci uccidere?
– E perché no? Vedi bene che chiunque, in fondo, ne è capace: basta che abbia un buon motivo. Il tuo, era quello di salvare le pelle. Il mio, quello di vendicare i minatori di Antofagasta. Il suo… per rispondere a questa domanda, occorrerebbe sapere quale sia la grande causa che dice di voler servire. E non ne ho la minima idea. Comunque, può darsi che il denaro non lo interessi fine a sé stesso. Ma appunto quello degli idealisti, è il tipo d’uomo più capace di uccidere… Credo di saperne qualcosa. –
– Anche io mi sono chiesto cosa avrà voluto dire, quando parlava della sua grande causa. Ma finché non deciderà di parlarcene lui, non abbiamo alcuna possibilità di saperne qualcosa di più. Comunque, che dobbiamo fare? Dobbiamo decidere di aiutarlo e, dunque, dargli la nostra parola d’onore
Mariano tagliò corto la questione, molto più di quel che avrei immaginato. – Direi di sì – disse -, non abbiamo alternative. Primo, perché non possiamo permetterci di inimicarcelo. Secondo, perché abbiamo un debito di gratitudine nei suoi confronti… Anche se… – e qui sembrò preso da un’idea strana, che lo fece sorridere.
– Anche se…?-
– Anche se resta tutto da vedere. Che esista l’isola Dougherty, in primo luogo. Che esista la grotta, che esista il fiordo, che esista la laguna interna. Che esistano i relitti dei velieri. Che esista il relitto del Newcastle. Che esista il denaro, soprattutto. Tutte cose piuttosto improbabili: se fosse proprio come dice lui, sarebbe un vero romanzo.
– Ma… se l’isola non esiste, che cosa succederà? Quando penso che siamo nella zona più deserta e inospitale del più vasto oceano della Terra; che la terraferma più vicina è a migliaia di chilometri da qui, e un abisso d’acqua ci circonda da ogni parte; che nessuno sa che noi siamo qui, e nessuno manderà dei soccorsi, se dovessimo tardare…
Mariano si strinse nelle spalle: – Staremo a vedere. , concluse seccamente.
Poco dopo ci recammo dal marchese e gli demmo la nostra parola d’onore di aiutarlo e di non far parola di quanto ci aveva rivelato.
Non parve sorpreso. Disse soltanto, stringendoci la mano e fissandoci intensamente, in quella sua maniera caratteristica: – Avete fatto la scelta migliore. –
Parole che si possono interpretare in più d’un senso.
CAPITOLO OTTAVO
20 gennaio.
Il mare è nuovamente molto mosso.
Stamattina, nella rada nebbiolina, abbiamo visto il primo iceberg alla deriva. Non è stata una sorpresa, benché siamo ancora nel pieno della stagione estiva; tuttavia, lo spettacolo grandioso e affascinante ci ha lasciati senza parole.
Era un iceberg di medie dimensioni, alto forse (per la parte emersa9 venti metri, e lungo non meno di cinquanta. Aveva una forma abbastanza regolare, con angoli appuntiti, e il suo biancore mandava nella luce incerta dei deboli riflessi azzurrini. Ci è sfilato di poppa, lento e maestoso, simile a una cattedrale smarrita chissà come nelle gelide acque dell’Antartico, e trasformata in ghiaccio. Dalla sua sommità cadevano alcune cascatelle d’acqua di fusione, producendo un effetto strano e malioso. Poi si è allontanato, bianco fantasma nella nebbia, avanguardia smarrita di un mondo pietrificato e silenzioso da secoli e secoli.
D’ora in poi dovremo prestare molta attenzione ai suoi fratellini, specialmente di notte.
21 gennaio.
Questa notte la nature ci ha regalato uno degli spettacoli più impressionanti e sublimi che siano dati ammirare nel corso di una vita umana: 1’aurora polare. Credo che non dimenticherò le sensazioni fortissime, paurose, incantevoli che essa ha acceso nel mio animo.
Il cielo, che durante il giorno ere tornato in gran parte limpido, fiammeggiava letteralmente di luci multicolori: rose, giallo, verde, azzurro. No, dire che fiammeggiava forse non è esatto: era solcato da fantastici cortinaggi che mutavano continuamente, cortinaggi che si snodavano da un’estremità all’altra dell’orizzonte e che si accendevano di colori d’incomparabile bellezza. Le forme elegantissime, mutevoli di teli cortinaggi disegnavano un caleidoscopio continuamente rinnovato: non avevo mai visto niente di simile in vita mia, niente di più affascinante; e credo che non lo vedrò più. Perfino i rozzi marinai della goletta sono corsi fuori, sottraendo ore al riposo e sfidando il vento freddo del sud, per ammirare in silenzio lo spettacolo incomparabile. Non c’erano, infatti, parole adeguate per descriverlo o per commentarlo: lo si poteva solo ammirare e tacere. Ci sentivamo, credo, tutti molto piccoli, addirittura minuscoli; spettatori fortuiti di una cerimonia cosmica per la quale la natura ha messo in campo tutta la sua potenza, la sua eleganza, la sua inesauribile ricchezza di forme e di colori.
Più tardi, Mariano mi ha detto che il fenomeno è ancora, in parte, misterioso, ma che certamente deve aver a che fare col sopraggiungere, nelle zone più alte dell’atmosfera, di una qualche forma di radiazione solare in corrispondenza del campo magnetico terrestre: ecco perché si verificano nelle zone polari. La loro altezza varia da 250 a 1.700 chilometri e altre. Vicino ai Poli, esse appaiono quasi ogni notte, ma fino alla latitudine di 50° si vedono solo una volta ogni ventisette giorni, che è il periodo di rotazione del Sole; noi, perciò, non potremo vederle che tra un mese, beninteso se saremo ancora in questi mari.
Un giorno, forse, si arriverà a spiegare interamente questo fenomeno mirabile, così come altri, parimenti misteriosi. Ma potrà mai spiegare tutto? Siamo proprio sicuri che la scienza, così come la intendiamo in Occidente dopo Galilei – la scienza induttiva e sperimentale – sia l’unica o comunque la più corretta forma di conoscenza del reale? Me lo sono chiesto spesso, e ho i miei dubbi in proposito. Vi sono delle realtà certe d’una certezza intuitiva, e tuttavia non misurabili con i criteri delle scienza galileana. Ma non sono ancora giunto a une conclusione definitiva in proposito. Forse non esiste un’ultima parola, in questo campo.
All’alba, mentre l’aurora polare cominciava a dileguare, sono apparsi, uno a dritta, più vicino, e un altro lontano sulla sinistra, due icebergs imponenti, pinnacolari. Era un colpo d’occhio superbo, i due giganti di ghiaccio che avanzavano lenti e grandiosi, solenni come spiriti antichi o come velieri irreali, in controluce; e, altissimi su di loro, gli ultimi bagliori guizzanti dell’aurora che si andava lentamente spegnendo.
Dal diario di Alexandra, 22 gennaio.
Ammiro, Mariano, la tua sincerità, la tua capacità di guardarti dentro, la lealtà con cui mi hai comunicato i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti. E1 una dote molto rara. Quanto a me, trovo che non sia facile guardarsi dentro, riconoscere fino in fondo i propri desideri, le proprie paure, e meno ancora dirli a un altro essere umano. Vi sono contraddizioni, nella vita, che forse nemmeno la persona più coraggiosa e più equilibrata potrei sciogliere; fanno parte della realtà. E allora? E allora, non resta che accettarle, semplicemente, e spostarle su un piano più alto, in una regione ove tutto ciò che noi sismo e che proviamo diventa puro, perché non cerca più una contropartita, non si aspetta di ricevere qualche cosa in cambio. Una regione dove non ci sono più sensi di colpa, non rimorsi, non vergogne, perché si è di nuovo innocenti, come lo erano i nostri antichissimi progenitori prima della fatele disobbedienza.
Certo, in questa vita, una tale regione noi possiamo solo intravederla, se siamo fortunati: proprio come l’aurora polare, che solo pochi uomini fortunati hanno la ventura di contemplare, e dicono sia uno spettacolo semplicemente da mozzare il fiato. Quaggiù, una tale purezza, un tale disinteresse, una tale innocenza difficilmente possono essere raggiunte e conquistate, ed è ancora più difficile, per non dire impossibile, che siano conservate stabilmente. Noi non siamo così. Anche i migliori, si portano dietro il triste bagaglio di Adamo: l’egoismo, l’avidità, i secondi fini, che riescono a infiltrarsi anche nei sentimenti più puri e disinteressati. Ma Dio non può averci ispirato nell’anima tanta sete di assoluto, tanto desiderio di amore, di gioia, di bene, se non avesse anche la capacità e la volontà di soddisfarla, appagandoci. Se non avessi questa fede, sento che la mia vita perderebbe ogni significato. Ed è questa fede che mi da il coraggio nei momenti difficili, quando le mie risorse tendono ad esaurirsi. Da sola, non ce la farei. Ma io non sono sola, nessuno è veramente solo, anche se spesso non lo sappiamo, o ce lo dimentichiamo. Come adesso, per esempio. Il pensiero di Mariano mi fa soffrire. Ma sento che ogni cosa, .alla fine, troverà un senso; ogni domanda, una risposta. Non è possibile che Dio si diverta a giocare con noi.
Sento che, in un modo a noi sconosciuto, le contraddizioni si ricomporranno, le ferite si chiuderanno, i dubbi cadranno. Sento che nulla di ciò che abbiamo amato andrà perduto. In qualche modo, noi lo ritroveremo. E capiremo, e sorrideremo delle nostre passate paure, dei nostri errori, della nostra poca fede. "Maestro, non t’importa che la barca affondi, e che noi anneghiamo?" chiesero gli apostoli, quella notte, sul lago. Così, qualche volta, il nostro grido di angoscia e di paura si leva nella buia notte, quando ci sentiamo abbandonati, traditi, scoraggiati: Dio, dove sei? Non t’importa che noi affondiamo? Non vedi la tempesta ci travolge? E lui ci sente, e sorride, come dovette sorridere, quella notte, Gesù sul lago di Tiberiade; come sorride la mamma quando la sua bambina fa i capriccetti e piange e dice: "Non t’importa di me, mamma? Non vedi che piango?". Ma sì che lo vede; è lì; non è affatto lontana, non è distratta, non è andata via. E anche Dio è lì, vicino a noi, anzi dentro di noi: così vicino che non riusciamo a vederlo. E sorride dei nostri ingenui rimproveri, delle nostre invocazioni un po’ piagnucolose: ma sì, ma sì, sono qui. Sono sempre, sempre stato qui. Stavo in silenzio: ma non era il silenzio dell’assenza o dell’indifferenza; era il silenzio dell’ascolto. Ho sentito tutto, tutto, fin l’ultimo sospiro, fin l’ultima preghiera, fin l’ultima bestemmia. Ho sentito tutto, non mi è sfuggito nulla, neanche il più piccolo bisbiglio.
Ma come avete potuto credere, sciocchini, che vi avrei lasciati soli, se ho promesso di restare con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo?
Da un appunto di Mariano, 22 gennaio.
Dopo lo spettacolo indimenticabile dell’aurora polare, all’alba, stanchi, infreddoliti, ma. incredibilmente felici, sì, felici, come dopo aver ascoltato una musica d’organo dèi divino Bach, siamo rientrati in cabina per dormire almeno un paio d’ore. E ho fatto un sogno. Ho sognato, di nuovo, di Alexandra.
Stavo guardando, su un grande globo terracqueo, l’immensa distesa azzurra dell’Oceano Pacifico. Ero chino e cercavo qualcosa, cercavo un punto del globo che non riuscivo a trovare. D’un tratto, lieve come una carezza, fresca come un alito di venticello primaverile, una mano si è posata sulla mia spalla. Mi sono voltato ed era lei, lei in tutto il suo splendore, in tutta la sua dolcezza, con un dolcissimo sorriso sulle labbra. Rimasi abbagliato da quel sorriso, i suoi capelli formavano un’aureola dorata intorno al viso, in quel momento pareva realmente un angelo più che una creatura mortale; eppure al tempo stesso, non so spiegarlo, era una donna, una donna incantevole, piena di grazia e di femminilità. Era lei.
– Che cosa stai cercando? -, mi ha chiesto, con la sua voce calda, un po’ profonda. – Forse ti posso aiutare. –
Allora ho aperto la bocca per dire, per spiegare, ma mi sono reso conto che era impossibile, che non potevo, che non ci sarei riuscito mai e poi mai. Sapevo di stare cercando qualcosa, ma cosa, cosa? Annaspavo, non ero in gradi di dire, di spiegare: io stesso non ricordavo più che cosa. Eppure, prodigio!, questa confusione non si accompagnava a uno stato di disagio, di frustrazione o di vergogna. La sua sola presenza, la sua vicinanza mi davano serenità e gioia; solo che non ero in grado di rispondere, di dire…
Poi, mi sono svegliato.
CAPITOLO NONO
23 gennaio.
Ormai dovremmo essere vicini all’isola Doughery, se essa esiste veramente e se si trova nella posizione indicata nel 1842; ma non si avverte il minimo indizio di terra. Nè uccelli marini, né un diverso colore del mare, né il caratteristico odore della terraferma: niente di niente. Intanto continuano a sfilare sempre nuovi icebergs sul mare quasi calmo; il tempo si mantiene abbastanza bello, coperto, ma con poca nebbia.
Questa mattina abbiamo visto l’iceberg più grande di tutti: un gigante a struttura tabulare, distaccatosi dalla banchisa in un sol blocco lungo almeno tre chilometri e alto non meno di settanta. Era come costeggiare una montagna; la Dougherty, se c’è, non credo sia molto più grande. Ci sentivamo ammirati e al tempo stesso profondamente intimiditi, mentre la nostra piccola imbarcazione scivolava sotto le sue bianchissime pareti sgocciolanti, che emanavano un debole chiarore giallastro.
I marinai mi sembrano un po’ inquieti. Nessuno di loro si era mai spinto tanto a sud, nessuno aveva mai visto l’aurora polare né gli icebergs, tranne il capitano Lopez, che dice di aver navigato per un paio d’anni fra le isole della Terra del Fuoco. Quanto al marchese, non si fa vedere spesso. Quando parla col capitano, comunque, appare evidente che esercita una forza di suggestione potente: i suoi ordini non vengono mai discussi, l’atteggiamento dell’equipaggio è quanto mai umile e deferente. Non si tratta solo del lauto compenso, che essi aspettano di ricevere: è proprio qualche cosa che emana dalla sua persona. Come se la forza superiore della sua volontà di imponesse tacitamente a tutti gli altri.
24 gennaio.
Il marchese è comparso sul ponte e rimane lunghe ore a scrutare l’orizzonte, mostrando, per la prima volta, segni di impazienza. Spesso rimane accanto al timone e discute col capitano, poi entrambi tornano a guardare attentamente tutto intorno, segno che l’isola, secondo i loro calcoli, non deve ormai essere lontana.
Si avverte come una nuova atmosfera a bordo. Gli uomini si muovono più raccolti, più silenziosi, paiono in attesa. Su tutti incombe una sensazione di attesa.
25 gennaio.
Di nuovo mare grosso, cielo coperto, nebbia. Gli icebergs scorrono innumerevoli sulle grandi onde verdastre. Il marchese è quasi sempre in coperta, infaticabile: consulta la sua mappe e poi torna a scrutare tutto intorno l’orizzonte. Ma la visibilità è ridotta, banchi di nebbia scendono improvvisi e poi si aprono, continuamente. I marinai sembrano parlare più piano, un silenzio irreale grava su noi. Pare che una misteriosa magia sia caduta sulla Santa Inés: si aspetta qualcosa che deve accadere, da un momento all’altro.
Dal diario di Alexandra, 25 gennaio.
Da quando mio marito ha scritto e consegnato al comandante della nave la sua lettera di dimissioni, è come se si fosse tolto un peso delle spalle. "In coscienza – mi ha detto – non potevo a nessun patto continuare a servire questo governo, e prima manderanno qualcuno a sostituirmi, meglio sarà. Mi sentivo… sporco. Ma ora va meglio. Tu, invece… -, e qui stava per dire qualcosa, guardandomi intensamente; ma la parola gli si è interrotta, ha rinunciato. Con la mano ha fatto come il gesto di farmi una carezza, sfiorandomi appena.
Più tardi, in salotto, ho trovato un magnifico mazzo dei miei fiori preferiti, che spandevano un dolce profumo per tutta la casa, lo gli ho sorriso con gratitudine, e lui: – Questo è niente, mia cara, rispetto a tutto quello che fai per noi. Davvero, il soggiorno in quest’isola mi sarebbe stato intollerabile, senza la tua compagnia e il tuo squisito tocco di femminilità. –
Queste parole mi hanno commossa, ma noi ho potuto fare a meno di ricordare quelle altre parole, così simili, che a suo tempo Mariano mi aveva dette. Per nascondere il turbamento improvviso, mi sono chinata ad annusare i fiori.
E’ già da qualche tempo che ho la sensazione che Alvaro abbia notato qualcosa d’insolito in me, ma, con la sua abituale discrezione, non me ne ha mai detto nulla. Forse pensa che, se c’è qualcosa che mi tiene in ansia, prima o poi sarò io a parlargliene, quando vorrò. Forse pensa semplicemente che io sia stanca, stanca di questa vita sull’isola, praticamente senza amici, senza svaghi, senza comodità. Sono certa che anche questo ha pesato nella sue decisione di chiedere di essere rimosso dall’incarico, oltre al suo disgusto per l’attuale classe dirigente. E io, che sono sempre stata abituata a dirgli tutto, tutti i miei pensieri, le mie emozioni, questa volta non posso, e sono pensierosa all’idea che Alvaro si preoccupi per me senza poter immaginare la causa del mio disagio.
– Io vorrei solo che tu fossi ben sicuro del passo che hai compiuto -, gli avevo detto l’altro giorno, – che tu non abbia pensato ai miei supposti sacrifici. Ma, se tu pensi di aver fatto la cosa giusta, per me va bene. –
Lui è rimasto un po’ soprappensiero, poi, improvvisamente, mi ha detto:- È già da un pezzo che sono in conflitto con la mia coscienza, cara. Ricordi i fatti di Antofagasta? Quell’eccidio di minatori? E’ almeno da allora, se non da prima, che mi sento, come dire, dalla parte sbaglists della barricata. Certo, sono un uomo d’ordine. Non capisco il socialismo e non lo capirò mai. Come possono pretendere, quei signori, che gli uomini siano tutti uguali? Ma a parte questo, mi ripugnano certi sistemi, li trovo indegni di un paese civile.
Quel generale Muñoz-Gamero…, ricordi? Quello che diresse il massacro dei minatori in sciopero e delle loro famiglie? Delle famiglie! Ed ebbe anche una medaglia! Ti rendi conto? -, e mi guardava con occhi lampeggianti di sdegno. – Perciò, che Dio mi perdoni, quando giunse la notizia che era stato ucciso, io, come dire?, non ho provato quel naturale senso di pietà cristiana.. Ma che cosa sto dicendo? Ho pensato che quella fine se l’era cercata con le sue mani, insomma che se l’era meritata.. Per un attimo, ho pensato questo. Così, sul momento, non appena lessi la notizia sul giornale. Da allora, ho compreso che non c’era più nulla in comune tra me e quella gente del governo, che un abisso ci separava, nonostante la comunanza degli interessi…
Lo guardavo con stupore. Dissi: – Non mi avevi mai confidalo queste cose… Te le sei tenute dentro cosi a lungo, senza dirmi nulla? –
– Ero confuso, non volevo turbarti inutilmente. Ma adesso, dopo aver preso la mia decisione, mi sento molto meglio. Posso di nuovo guardarmi allo specchio senza arrossire. E questa, è l’unica cosa che conta, nella vita d’un uomo. –
L’ho abbracciato, a lungo, senza dire altro.
26 gennaio.
Il mare è quasi calmo, ma la nebbia continua ad aumentare. Oggi la visibilità media non è stata superiore ai sessanta metri. Dobbiamo procedere con la velatura ridotta, per mantenere una velocità tale da poter scorgere in tempo gli icebergs, specialmente di notte. Il capitano ha fatto collocare un lume a petrolio sulla crocetta dell’albero maestro, ma esso non arriva a rischiarare che una ventina di metri oltre la prua. L’inquietudine a bordo è quasi palpabile, ho udito anche, un paio di volte, brontolare gli uomini dell’equipaggio. Non capiscono che scopo abbia questo vagare in un mare sempre più ostile, anche se il pensiero del grosso guadagno è ancora abbastanza forte da tacitare i loro dubbi e le loro apprensioni.
Quanto al capitano, si sta rivelando di una stoffa ben robusta: la sua fiducia nel marchese non è affatto diminuita, la sua energia nel reggere il timone e nel dirigere i suoi uomini sembra inesauribile. Bestemmia, ma è sempre vigile a ogni cambio di vento, con tutti i sensi all’erta, come se volesse domare un cavallo indocile, ma gagliardo e generoso.
27 gennaio.
Oggi la Santa Ines ha virato di bordo ed è tornata apparentemente sui suoi passi, poggiando più a ovest; dopo un paio d’ora, nuova inversione di rotta; e via così di séguito per tutto il giorno. Secondo i calcoli del marchese, dunque, dovremmo essere nei pressi della meta, anzi pare che l’abbiamo oltrepassata, senza rendercene conto. Stiamo bordeggiando tutto intorno come segugi sulle peste della selvaggina: ma l’odore è incerto, la direzione da seguire tutt’altro che chiara. Il marchese ha promesso un premio speciale al marinaio che per primo avvisterà terra, e tutti stanno con gli occhi ben spalancati, specialmente l’uomo di vedetta sulla coffa.
Confesso che anch’io avverto una certa agitazione: da giorni ho come la sensazione di essere perduto in un viaggio senza fine tra cielo e mare, e la vista di una terra emersa mi sarebbe quanto mai gradita.
CAPITOLO TERZO
28 gennaio.
Questa notte, nel giro di pochi minuti, l’irreparabile è accaduto. Scrivo questi appunti, precariamente, a bordi della scialuppa. La Santa Inés giace in fondo al mare: siamo soli sull’oceano infinito.
Stavamo dormendo, quando un urto violentissimo ci ha destati. Io sono letteralmente volato giù dalla mia cuccetta, posta al di sopra di quella di Mariano. Subito ci siamo resi conto che la goletta era paurosamente inclinata e non riacquistava la posizione normale. A bordo si udivano grida e bestemmie; e, su tutto, uno scricchiolio impressionante, come di legno vivo che si aprisse sotto la lama di un immane coltello.
Senza dir parola, barcollando in mezzo agli oggetti che ingombravano la piccola cabina, siamo usciti fuori, in coperta, dove i marinai stavano correndo disordinatamente e si lanciavano concitati richiami. Quasi subito abbiamo visto la mostruosa parete di un iceberg incombere su di noi coi suoi riflessi bianchissimi, a dritta, contro la fiancata della nave, che era stata aperta a metà come una scatola di sardine.
– Abbiamo urtato un iceberg, la goletta sta affondando – ci gridò il capitano, che stava correndo verso il boccaporto. – Prendete in fretta i vostri sacchi, dobbiamo abbandonare la nave!
Allora abbiamo notato tre o quattro marinai che stavano armeggiando intorno alla scialuppa per calarla in mare. Il ponte continuava a inclinarsi, mentre il pauroso scricchiolio cresceva sempre più. Io e Mariano ci siamo guardati un attimo in faccia, poi, sempre in silenzio, ci siamo precipitati di nuovo giù in cabina, sorreggendoci alle pareti inclinate di almeno trenta gradi.L’acqua aveva già invaso ilcorridoio, oggetti d’ogni sorta galleggiavano quasi all’altezza delle nostre ginocchia. Per fortuna eravamo andati a dormire vestiti, a causa del gran freddo; afferrammo i nostri sacchi e tornammo di sopra il più in fretta possibile.
La scialuppa era già stata calata in mare e dondolava sulle onde lunghe e scure, ancora legata alla goletta. Gli uomini vi stavano saltando dentro uno dopo l’altro, portando soltanto poche cose che erano riusciti ad afferrare.
Ordini e richiami si incrociavano in una grande confusione. Chiamavano un marinaio di nome Ramon, pareva che non si trovasse.
Io e Mariano scendemmo nella scialuppa, subito dopo ci raggiunse il marchese. Era pallido ma non spaventato, anzi sembrava perfettamente padrone di sé e aveva un’aria più decisa che mai. Il capitano esitava: Ramon mancava all’appello.
– Si sbrighi – gli disse il marchese, con voce calma ma autoritaria -, altrimenti non faremo a tempo ad allontanarci. È questione di secondi. –
Era vero. Con un ultimo, supremo cigolio, la chiglia della Santa Inés si schiantò sotto l’enorme pressione del ghiaccio e subito dopo si udì il rombo cupo di un torrente d’acqua che irrompeva nella sentina. Allora il capitano si fece rapidamente il segno di croce e scese a bordo; subito gli uomini ai remi vogarono per allontanarsi il più in fretta possibile dal risucchio. Era una notte buia, senza Luna e molto nebbiose: per questo avevamo urtato l’iceberg. L’uomo sulle coffa, però, avrebbe dovuto dare l’allarme in tempo; e siccome era proprio quel Ramon che mancava all’appello, 1’unica spiegazione era che Tosse stato vittima di un colpo di sonno e che, al momento dell’urto, fosse precipitato fuori bordo. Nella confusione e nel fracasso dei primi minuti, nessuno doveva aver sentito le sue grida, se pure c’erano state. L’acqua era molto fredda e nessuno avrebbe potuto sopravvivervi più di un paio di minuti al massimo.
Meno di cinque minuti dopo, la goletta si era inabissata: ultimo a scomparire era stato l’albero maestro. Il mare nebbioso era vuoto, completamente vuoto.
A bordo abbiamo acqua e viveri per tre o quattro giorni, qualche coperta, qualche indumento pesante; e inoltre un sestante, una bussola, delle carte nautiche, un lume a petrolio e poche altre cose. Il problema più immediato è il freddo, l’impossibilità di preparare del cibo caldo; per scaldarci, abbiamo solo due o tre bottiglie di tequila. Scrivo con la mano semi-intirizzita, stretto nel pochissimo spazio a disposizione. Siamo undici persone a bordo di un’imbarcazione lunga quattro metri e mezzo e larga un metro e settanta. Le prospettive di salvezza sono quasi inesistenti, il morale di tutti è molto basso. In questa zona, fuori da tutte le rotte di navigazione, non vi è alcuna speranza di ricevere soccorsi; incontrare una baleniera impegnata in una campagna di caccia è una possibilità remotissima, praticamente nulla. Così come è assolutamente impensabile che noi si possa raggiungere, con le nostre forze, una qualche terra.
A meno che…
29 gennaio.
Il marchese ha saldamente preso in pugno la situazione. Stroncando sul nascere qualche pusillanime inizio di recriminazione, si è imposto ai marinai come il solo capace di non lasciarsi travolgere dallo smarrimento. Ha tenuto un discorso breve, conciso, autorevole. L’unica possibilità di salvezza, ha detto, dipende dalla cieca obbedienza ai suoi ordini. Egli è certo che dobbiamo trovarci in prossimità dell’isola Dougherthy e che, con l’aiuto della sua carta e del sestante, la troveremo. Ha poi zittito le proteste piagnucolose di chi affermava che, se anche così fosse, la nostra situazione non migliorerebbe di molto.
– Se qualcuno ha delle proposte migliori da fare, lo dica; altrimenti taccia e lasci a me il comando. Per il momento, la cosa importante è rimanere in vita e trovare la terraferma sotto i piedi. Poi cercheremo una soluzione agli altri problemi.- E ha guardato tutti negli occhi, uno dopo l’altro.
Mariano gli ha dato una mano, solo col dire: – II marchese ha ragione.-
Il capitano, dopo essersi consultato rapidamente coi suoi uomini, ha concluso: – Va bene, adesso il capo è lei. Faremo quello che dice.-
Poco dopo, abbiamo fatto l’inventario dei viveri e dell’acqua, e il marchese ha fissato le razioni quotidiane. Gli uomini erano ancora molto abbattuti, ma obbedivano. Sentivano che l’unica cosa da fare era abbandonarsi alla volontà di quell’uomo di ferro.
Poche gallette e un bicchiere d’acqua sono stati tutto il nostro pasto. Poi il marchese e il capitano hanno fatto il punto col sestante: per fortuna un pallidissimo sole era emerso, per qualche ora, tra la nuvolaglia.
La notte è stata il momento più duro. Il freddo era tale che non ho potuto chiudere occhio, pur avvolgendomi stretto nella coperta,. Vedevo il mio fiato condensarsi in una nuvoletta di vapore ed ero consapevole che nessuno, a bordo, stava meglio di me.
A mezzanotte il marchese ha fatto passare una bottiglia di liquore, un bicchierino a testa. Il sollievo è stato temporaneo, ma delizioso.
30 gennaio.
All’alba, alta sulle onde proprio davanti a noi, è apparsa l’isola.
Dapprima, quasi non potevamo crederci. Poi sono esplose le grida di gioia, ci siamo abbracciati, farneticando. Sembrava quasi troppo bello per essere vero. Avevamo gli occhi lucidi per l’emozione.
Si tratta di una scura massa di basalto, dalle cose alte e dirupate, molto piccola e non più elevata di quattrocento metri, a occhio e croce. Avvicinandoci, abbiamo potuto osservare le nude pareti di roccia, le alghe, i frangenti che orlano i suoi scogli di spruzzi bianchissimi.
Scivolando sulle grandi onde del Pacifico, la scialuppa si è accostata a quelle imponenti pareti di roccia bruna, senz’ombra di vegetazione, simili al nudo scheletro abbandonato di un gigante smisurato.
(fine della seconda parte)
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by NastyaSensei from Pexels