
Mesti, dolenti, al capezzale della cara estinta
20 Maggio 2019
Guido De Ruggiero e la povertà dell’idealismo
21 Maggio 2019Una serie di circostanze particolarissime, ma tutt’alto che causali, anzi assolutamente coerenti con l’indirizzo preso dalla finanza, dall’economia, dalla cultura e dalla società nel corso degli ultimi secoli, ci hanno condotti all’appuntamento con uno dei momenti più difficili, forse il più difficile di tutti, per quel che riguarda il discorso sulla verità. I primi che avrebbero dovuto lanciare l’allarme, i filosofi – perché, fino a prova contraria, la ricerca della verità è anzitutto una cosa di loro competenza — non lo hanno fatto per niente: si vede che erano in tutt’altre faccende affaccendati, e del resto la cosa si spiega abbastanza facilmente se si tiene presente che la filosofia da molto tempo si è disinteressata alla questione o l’ha dichiarata irrisolvibile, abbracciando, di fatto, lo scetticismo, l’agnosticismo e il relativismo: testimonianza di per sé eloquente di quale sia il degrado in cui versa, nel mondo moderno, il discorso sulla verità. Se, poi, si considera in quale direzione hanno lavorato i filosofi per gran parte del XX secolo, senza nulla aver imparato né dalle guerre mondiali, né dai totalitarismi, né dalle crisi finanziarie, né dalla bomba atomica, e cioè esercitandosi, in tutte le declinazioni possibili e immaginabili, intorno alle meraviglie salvifiche di una ideologia di morte, nata già morta e perennemente fomentatrice di odio e distruzione, come il marxismo-leninismo, da Trotzkij a Gramsci, da Lukacs a Marcuse, da Adorno a Horkheimer, da Benjamin a Cohn-Bendit (avete notato di che origine sono, al 95%?), per non parlare degli scrittori, dei poeti, dei Brecht e degli Aragon, dei registi teatrali e cinematografici, dei Pasolini e dei Bertolucci, dei pittori, dei Guttuso e dei Picasso, dei musicisti, dei cantanti, dei giornalisti, dei tuttologi e di uno stuolo di professori che hanno diffuso la pestilenza, dalle cattedre di scuola, con tenace perseveranza, e non si sono fermati neppure dopo il crollo del loro idolo, ma semplicemente hanno cambiato casacca e si sono intruppati nel cattolicesimo di sinistra, sotto l’alto patrocinio dei Dossetti, dei La Pira, dei don Milani, dei teologi della liberazione e, da ultimo, dei neopreti della contro-chiesa bergogliana: ebbene, non si può non restar basiti di fronte a tanta insipienza, tanta banalità e tanto accecamento. Ma è pur vero che la colpa non può essere addossata principalmente ai filosofi, perché ciò significherebbe sopravvalutare il loro ruolo, nel bene e nel male; e neppure sugli intellettuali in generale, perché, pur avendo brillato, e continuando ostinatamente a brillare, per un ferreo conformismo che ormai è degenerato nel servilismo e nella feroce omologazione del politically correct, anche costoro, in fondo, non sono che una cinghia di trasmissione fra il potere vero, che è pur sempre quello finanziario, concentrato in pochissime mani – quelle di persone che non amano neanche farsi nominare, né comparire sulle pagine di cronaca – e le masse della gente comune (non osiamo dire: delle persone, perché persona è un concetto troppo impegnativo e troppo sofisticato per definire la situazione attuale), sempre più avvilite e brutalizzate da un appiattimento consumistico che ormai ha intaccato non solo i gusti, le inclinazioni, i modi di pensare e di sentire, ma le stesse facoltà cerebrali, preparando la formazione di un nuovo tipo antropologico, post-umano, al quale l’esistenza di una mente pensante è ormai decisamente di peso e che cerca ansiosamente qualcuno che lo liberi da un simile, fastidiosissimo fardello.
Attenzione: non stiamo delineando un quadro che è sconfortante solo per ragioni di tipo estrinseco e, diciamo pure, intimidatorio. Non stiamo parlando del fatto che chi parla o scrive con libertà, oggi, anche sulla rete informatica, rischia continuamente una denuncia, un processo, una salatissima multa, o qualche anno di prigione, per non parlare della cacciata dal proprio ordine professionale: per cui un medico, ad esempio, se solo osa esprimere qualche perplessità sull’obbligo delle vaccinazioni polivalenti, non diciamo la sua contrarietà, ma solo qualche dubbio, rischia la cacciata immediata dall’ordine dei medici. Non stiamo parlando di questo, o solamente di questo: perché a un tale rischio si può rispondere col coraggio, e chi non ha coraggio, in fondo, dimostra da se stesso di non esser degno della libertà – perché è degno della libertà solo chi è disposto a lottare e ad esporsi -, quindi di non aver titoli per fare un discorso sulla verità. No: stiamo parlando del fatto che parlare di verità, oggi, e parlarne con verità, oltre alle eventuali conseguenze professionali e penali, e oltre alla gogna mediatica cui inevitabilmente conduce, per la gioia di miserabili giornalisti che si gettano come avvoltoi su chi lo fa, per darlo in pasto a un pubblico ansioso di sentirsi buono, giusto e pio, e perciò severo contro i destabilizzatori dell’ordine, o meglio del disordine, costituito; oltre a questo, implica quasi fatalmente lo scontro con un muro di gomma e la quasi certezza di non essere capiti da nessuno o quasi, anzi, di esser totalmente fraintesi, spesso perfino da quei (pochi) che, in teoria, stanno anch’essi cercando la verità, ma che, non avendo maturato neppure gli elementi più basilari di una simile ricerca, e non possedendone gli strumenti intellettuali, fraintenderanno e deformeranno ogni discorso di verità, lo abbasseranno al livello della loro inconsapevolezza e lo trasmetteranno, a loro volta, completamente sfigurato, sulla misura della loro grossolana ignoranza e della loro mancanza di umiltà, di pazienza e di capacità di ascolto. Perché, diciamolo subito, senza queste tre virtù, l’umiltà, la pazienza e la capacità di ascoltare, nessuno può avvicinarsi alla verità anche solo d’un millimetro, ma si può solo fraintenderla e rendersi, di fatto, i suoi nemici più subdoli, appunto perché sciaguratamente "bene intenzionati". Ed è noto che un imbecille pieno di ottime intenzioni è capace di provocare più danni di un malvagio intelligente: perché quest’ultimo, almeno, sa cosa vuole e sa dove colpire, mentre l’altro, nella sua maldestra sollecitudine, non ha la minima idea di quel che sta realmente facendo e quindi può produrre danni involontari davvero giganteschi. Per fare un esempio: un esperto rapinatore sa come usare la dinamite per far saltare la cassaforte, sa quale orario scegliere, sa come sfruttare i minuti a sua disposizione prima del probabile intervento della polizia, e bada ad aprirsi una via di fuga nel modo più veloce e silenzioso possibile; mentre un cittadino onesto e benintenzionato, ma stupido, che si preoccupa del bene in maniera astratta e velleitaria, sarà capace di spargere a piene mani ogni sorta di maldicenze, sospetti, animosità, fino a rendere invivibile un certo ambiente sociale, e questo per difendere, così lui crede, il buon diritto del più debole, mentre starà incoraggiando, di fatto, il più pigro, infingardo e disonesto, a danno di tutti gli altri.
In altre parole, la domanda che si deve fare chi, oggi, voglia fare un discorso di verità e sulla verità, innanzitutto sul piano filosofico, ma anche in ogni altro ambito e versante, dalla storia alle scienze, dalla teologia all’arte, dalla musica al cinema, è più o meno questa: come condurre un simile discorso, avendo la certezza che non solo verrà ostacolato, o ignorato, o calunniato, o travisato, o perseguitato, ma che le sue parole verranno quasi certamente fraintese dagli altri, da quelli ai quali si rivolge, le persone di buona volontà che, non per colpa loro, sono state indottrinate e manipolate dall’oscuro potere oggi imperante; e che perciò vi sono, umanamente parlando, pochissime speranze d’essere capiti? Possiamo facilmente prevedere l’obiezione preliminare che ci verrà mossa: in base a quali elementi riteniamo che il nostro discorso di verità sia realmente tale, a differenza di altri discorsi che si dicono egualmente veritieri, ma che, secondo il nostro giudizio, non lo sono affatto? A questa legittima obiezione rispondiamo non con argomenti teorici, ma pratici: la differenza fra verità e menzogna si riconosce dai frutti. Un autentico discorso di verità genera un atteggiamento di apertura, di curiosità, di stupore, di ricerca, di fiducia nelle possibilità umane; mentre un discorso che è veritiero solo a parole, ma non nei fatti, genera ignoranza, intolleranza, chiusura, fanatismo e pregiudizio. Ma siccome la dittatura del politicamente corretto ha falsificato anche il significato delle parole, diciamo subito che "pregiudizio" non è, ai nostri giorni, quasi mai quello dei più verso i pochi, ma quello dei pochi verso i più: laddove i pochi sono i registi del potere finanziario e quindi quelli che hanno interesse a capovolgere il paradigma culturale in cui viviamo, fino a far proclamare vero ciò che è falso, giusto ciò che è ingiusto, malvagio ciò che è buono e brutto ciò che è bello — e viceversa. Come si vede, ci troviamo veramente in una palude e ovunque dirigiamo i nostri passi, rischiamo di affondare: ormai la menzogna è andata al potere, e dal potere si è diramata ovunque, è stata distribuita in dosi industriali, è stata innaffiata sulle menti come gli anticrittogamici vengono innaffiati copiosamente sui vigneti e sulle colture, avvelenando tutto l’ambiente e generando una catena di effetti perversi. Un’altra parola cui bisogna fare attenzione è "intolleranza". Chi l’adopera ne ha ancora una visione superata e non s’accorge, nove volte su dieci, che bisogna usarla con estrema cautela, per non farsi risucchiare dalla menzogna ovunque imperante: perché la tolleranza intesa alla maniera d’un tempo, cioè come risposta civile e ragionevole alla superstizione e alla barbarie, oggi è stata sostituita da un’altra idea di tolleranza, da una "tolleranza" a senso unico, che serve a tutelare solo alcune minoranze estremamente piccole, ma anche estremamente aggressive e, loro sì, intolleranti: per cui l’intera società rischia di essere sottomessa e ricattata da una minuscola percentuale dei suoi membri, i quali si sono impadroniti del marchio di fabbrica della tolleranza, e la usano come una spada per ridurre al silenzio qualsiasi opposizione al loro disegno totalitario. Così, la difficoltà di fare un discorso di verità parte dal linguaggio e dai riflessi condizionati che scattano nel pubblico, per cui è impossibile evocare alcuni concetti, ricordare alcuni fatti, senza attirarsi non solo l’ostilità, ma, quel che è peggio, l’incomprensione del pubblico. Impossibile, ad esempio, dire a una folla che il femminismo non ha portato all’emancipazione della donna, ma alla sua oppressione; che l’antifascismo è stato il mantello sotto il quale si sono raccolti, per decenni, tutti i mascalzoni e i cretini del mondo; che contestare la Religione dei Sei Milioni non equivale ad approvare le politiche criminali del Terzo Reich; che smascherare l’ipocrisia di un falso concetto di bontà non significa esaltare la morale del superuomo; che, per fare un esempio pratico, denunciare il ruolo nefasto, antinazionale e anticristiano che svolgono le ONG nel Mediterraneo, oggi, non significa essere né insensibili, né xenofobi e tanto meno razzisti. Basta vedere quel che dice dei migranti e dell’accoglienza scriteriata dell’Europa il cardinale Robert Sarah, che è un africano: forse che il cardinale Sarah è un uomo insensibile, xenofobo e razzista? Ma qui, appunto, entrano in gioco l’ignoranza, l’impazienza e la totale mancanza di umiltà che caratterizzano la società moderna: chi non sa nulla, chi non s’informa, chi non ragiona, o chi si crede informato e raziocinante solo perché legge ogni mattina la sua brava copia de La Repubblica, o magari de L’Avvenire, non sa cosa dice il cardinale Sarah, sa solo che opporsi agli sbarchi dei cosiddetti migranti è un crimine contro l’umanità, e chi lo attua, o chi lo sostiene, non può che essere un barbaro e un nemico del sentimento umanitario. La folla procede così, per semplificazioni grossolane per sentito dire, per slogan preconfezionati.
Come uscire da questo vicolo cieco? Sembrerebbe che parlare di verità, e con verità, sia peggio di una fatica inutile: sia offrire nuove armi ai nemici della verità. Perché chi è ignorante e presuntuoso non cerca la verità, ma qualcosa che le assomigli, che si possa avere con poca o nessuna fatica e che si possa tirar fuori a piacere, per far bella mostra di sé, di quanto si è buoni, altruisti e umanitari. Qui ci sarebbe un ulteriore discorso da fare, quanto mai impopolare, che peraltro abbiamo già fatto numerosissime volte: un discorso rude, franco, più che mai antidemagogico: e cioè che la folla, di per se stessa, non è che un gregge di bestiame addomesticato, e che fino a quando una persona non decide di ridiventare tale, cioè di uscire dalla folla, non capirà mai nulla, quand’anche avesse i migliori maestri del mondo o le circostanze le offrissero più e più volte la chiave per comprendere quel che realmente accade intorno a lei e soprattutto dentro di lei. Ora, il problema è proprio questo; che uscire dalla folla, una volta che si sia perso, gradualmente e inavvertitamente, lo status di persone, è difficile, anche perché assai faticoso; e nella folla, paradossalmente, quando ci si è fatta l’abitudine, si sta bene, nel senso che si è al caldo, si è protetti, si è nutriti (sia pure con alimenti di pessima qualità, e non solo metaforicamente): chi sarà tanto pazzo da aver voglia di uscirne? È dura la vita dell’animale selvatico, che deve guadagnarsi da sé il cibo, rispetto all’animale domestico, che non ha un pensiero al mondo, perché dipende in tutto e per tutto dal padrone che si prende cura di lui. E anche noi, ora, non stiamo facendo proprio questo errore: di voler parlare alla folla, pur sapendo che la folla non capisce, fraintende e perfino si adira contro chi parla della verità? No, non lo stiamo facendo perché non stiamo parlando, né mai lo abbiamo fatto, alla folla: parliamo sempre e solo al Singolo, come lo chiamava Kierkegaard, cercando di far leva su quel tanto d’individualità, di dignità e di autonomia che son rimasti nelle persone, pur dopo l’avvento della società di massa. Gettiamo il seme, confidando che cada anche su qualche zolla fertile. Non è un problema moderno, è sempre esistito e Platone, ad esempio, lo risolveva affidando un insegnamento speciale, segreto, ai discepoli più fidati. A noi però l’esoterismo non piace: in questo confessiamo di essere moderni. L’esoterismo porta a formare delle sette di "perfetti" e noi non lo siamo, perché Uno solo è perfetto.
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