
È più difficile capire o parlare?
7 Maggio 2019
Pagine dimenticate: Vittorio Emanuele Bravetta
8 Maggio 2019Com’è bello vivere in democrazia, specie sui banchi di scuola, per un bambino delle elementari, per uno studente delle medie o del liceo, per un giovane universitario; e come doveva essere brutto, terribile, per tutti costoro vivere ai tempi del fascismo! Figuriamoci: non si può neanche fare un paragone. Oggi i libri di testo dicono la verità, solo la verità, la pura verità; mentre allora era tutta una menzogna, tutta una mistificazione, tutta una manipolazione di quelle giovani menti, di quegli ignari studenti, i quali, senza saperlo, venivano indottrinati, venivano indotti a credere il contrario del vero, in tutti i campi, dalla religione alla filosofia, ma specialmente nello studio della storia recente e contemporanea. E come sono fortunati i giovani dei nostri giorni, i quali ricevono dai loro insegnanti la verità allo stato puro, e che potrebbero perfino giurare sui libri di storia stampati ai nostri dì, tanto sono veritieri, attendibili, obiettivi, spassionati, scrupolosamente esatti, insomma il concentrato del politicamente corretto. C’è solo un problema: che il politicamente corretto c’entra con la verità e con l’obiettività quanto i cavoli a merenda. Inoltre, e senza con ciò voler fare i nostalgici della dittatura, ci siamo presi il disturbo di andar a leggere i libri di scuola del famigerato Ventennio, dalle elementari alle superiori, passando per le medie, e quel che abbiano scoperto ci ha rivelato un lato inedito del fascismo: non vi abbiamo trovato un grado di falsificazione della realtà più grave, o più subdolo, o più malefico, di quello che abbiamo riscontrato, in oltre quarant’anni di insegnamento nella scuola italiana democratica, più un’altra ventina passati sui banchi dall’altro lato della cattedra, sempre dalle elementari all’università. Eh, via: l’abbiamo detta grossa! Ebbene, sì; ma non è una battuta: lo pensiamo sinceramente. Non che sui libri di allora ci fosse tutta la verità e soltanto la verità; tuttavia, la faziosità e le forzature non ci sono sembrate, onestamente, più gravi o più scorrette di quelle che abbiamo riscontrato in poco meno di sessant’anni di esperienza diretta, stando di qua e di là della cattedra, in questa meravigliosa Repubblica di Pulcinella che fu tenuta a battesimo nel 1946, sotto la duplice spinta dei vittoriosi eserciti angloamericani e del vento del Nord di partigiana ispirazione, vale a dire sul sangue di una guerra civile mai riconosciuta come tale e mai chiamata col suo nome, bensì presentata col nome menzognero e fuorviante di Resistenza, per nobilitarla e mitologizzarla.
Sì, è vero: ai nostri genitori e ai nostri nonni, negli anni della Seconda guerra mondiale, veniva insegnato a cantare dalle maestre: Malvagia Inghilterra, tu perdi la guerra, sulle note di Adesso viene il bello, parole di Vittorio Emanuele Bravetta e musica di Giuseppe Blanc: e allora? Si era nel 1940, e le nostre forze armate avevamo riportato le prime, ingannevoli vittorie (facili, troppo facili) di Cassala e Sidi el Barrani, e conquistato la Somalia Britannica; nei cieli d’Inghilterra, l’aviazione tedesca picchiava duro: la vittoria finale sembrava ormai a portata di mano. Che c’era di sbagliato nell’incitare gli scolari a esser consapevoli degli scopi di guerra? Forse oggi non si farebbe la stessa cosa, in circostanze analoghe, e sia pure con strumenti didattici diversi? Del resto, per come sono andate le cose poi, cioè con la guerra civile del 1943-45, che ci ha portato una pretesa "liberazione" (e da cosa, poi? da noi stessi? dalla nostra indipendenza e sovranità nazionali, cedute per sempre nelle mani dei vincitori?), la retorica di regime — democratico, in questo caso — non è stata certo minore; in compenso è stata decisamente più longeva. Se si pensa che ancor oggi, a oltre settanta anni di distanza, ci sono delle maestre che non trovano di meglio che far cantare ai bambini, invece delle canzoni di Natale, Bella ciao, l’inno dei partigiani comunisti, autori d’innumerevoli eccidi, per lo più rimasti impuniti… Un ricordo personale, per chiarire ulteriormente il concetto. Infanzia udinese, scuole elementari a Udine (con la maestra di musica che ci faceva cantare Bella ciao) e i professori delle medie che ci parlavano sempre, in termini epici, della Resistenza contro il "tedesco invasore". Sulle foibe, neanche una parola. Sulla strage di Porzus, neanche una parola. Eppure i vari gradi del processo per quella strage si erano conclusi da pochi anni ed era risultato che il PCI di Udine, in quella strage a tradimento di partigiani osovani da parte dei valorosi partigiani comunisti, fratelli d’armi dei nobili partigiani sloveni (come narra Giovanni Padoan nel suo libro auto-celebrativo Abbiamo lottato insieme) era implicato sino al collo. Sulle stragi dei comunisti, anche italiani, in Unione Sovietica, di quei comunisti che erano andati via dall’Italia per sottrarsi al fascismo e avevano trovato la morte per mano di Stalin, neanche una parola. Sulla crudeltà dei bombardamenti aerei dei "liberatori" contro le città indifese (e infatti Liberator si chiamavano anche i loro apparecchi di morte), nemmeno mezza parola: eppure intere vie di Udine erano state spianate dalle bombe, e Treviso era stata mezzo distrutta. No: per sapere di quei fatti, ci volevano – e meno male che c’erano – i vividi ricordi dei nostri genitori: per esempio, le bravate dei piloti yankees (i loro cugini inglesi bombardavano di notte) i quali, non paghi di sganciare le bombe sulle case, si abbassavano a mitragliare le vie a bassa quota, compresi i bambini che tornavano da scuola col grembiule e la cartella. In compenso, dai nostri insegnanti, debitamente democratici e antifascisti, molti dei quali comunisti, ci venivano fornite, in quantità industriali, notizie sugli orrendi crimini del fascismo, sul delitto Matteotti, sulla fucilazione dei sette fratelli Cervi (ma silenzio sui sette fratelli Govoni), sugli alpini mandati a combattere in Russia con le suole di cartone (altra leggenda dell’antifascismo politically correct).
Ora, ci permettiamo una domanda: dov’è la differenza fra un’istruzione scolastica di regime e una democratica? A noi pare che siano state di regime entrambe, quella del fascismo e quella dell’antifascismo; con la differenza che il fascismo si sapeva che era una dittatura, peraltro assai blanda (qualcuno s’immagina, nell’URSS di Stalin, un Manifesto degli intellettuali anticomunisti, come ci fu in Italia nel 1925, primo firmatario Benedetto Croce, un Manifesto degli intellettuali antifascisti, intellettuali che rimasero del tutto indisturbati?), mentre la democrazia si vanta, e si è sempre vantata, di essere qualitativamente diversa, perché aperta, pluralista, tollerante. Ma dov’è il pluralismo? Il filosofo fascista Giovanni Gentile, per realizzare quel monumento all’intelligenza e alla cultura, di cui tutti gli italiani dovrebbero andar fieri, che è L’Enciclopedia Italiana, chiamò a collaborarvi i migliori specialisti di ciascuna disciplina, senza stare a guardare se fossero fascisti o antifascisti; ma quando mai una cosa del genere sarebbe potuta avvenire dopo il 1945? Quando mai è stata riconosciuto dignità culturale e morale, dopo quella data, a quanti avevano creduto, e combattuto, per un’Italia più grande e più forte, ma soprattutto più unita, durante il Ventennio? E perfino oggi, non vediamo fatti di cronaca quotidiana che attestano come sia sempre valida nell’area culturale e politica della sinistra, la tesi che i fascisti non hanno diritto di parlare, e che chi si oppone al politicamente corretto è senz’altro uno sporco fascista? Non vengono ancor oggi aggrediti esponenti della destra, ad esempio dai ragazzi dei centri sociali, con questa motivazione: che i fascisti non devono aprir bocca, anzi non dovrebbero neppur esistere? E come spiegare a quei ragazzi che il fascismo è morto con Mussolini, a Piazzale Loreto, alla fine di aprile del ’45? Eppure, sappiamo quali frutti ha portato la retorica esasperata dell’antifascismo. Qualcuno si ricorda ancora, o ha mai sentito parlare, di Sergio Ramelli, il giovanissimo di destra che venne aggredito e pestato a morte da un gruppo di giovani di sinistra, a Milano, nel 1975, cioè trent’anni dopo la fine del fascismo, per punirlo di essere fascista? Eppure, i nostri professori quanto ci avevano parlato di don Minzoni, di Piero Gobetti e di Giovanni Amendola, condannati a una morte prematura dal pestaggio dei picchiatori fascisti. Dunque la stessa azione barbara e vile, se fatta da esponenti della sinistra, diveniva lecita o comunque non meritevole di un particolare biasimo? O qualcuno ricorda il rogo di Primavalle, a Roma, dove nel 1973 un’intera famiglia venne condannata a essere arsa viva, perché il padre era un militante del M.S.I.? Negli anni ’70, uccidere un fascista, per la cultura dominante di sinistra, non era moralmente un reato: era un atto di disinfestazione, in un certo senso paragonabile alla derattizzazione di un caseggiato fatiscente.
Tranquilli: non vogliamo ristabilire il fascismo, non abbiamo rimpianti per alcuna dittatura. Ci limitiamo a constatare dei fatti: sulla loro interpretazione, ciascuno è libero di tirare le conclusioni che crede più giuste. E i fatti sono questi: i libri di testo, i programmi scolastici, le maestre e i professori dell’era repubblicana non hanno mai presentato la storia contemporanea (per limitarci a quella, ma il discorso di potrebbe allargare a tutte le discipline) in maniera più obiettiva, più leale, più seria, di quanto non avvenisse, mediamente parlando — stiamo parlando in generale, salvo dunque i casi particolari — durante il Ventennio fascista. E se ciò è paradossale e un po’ umiliante per i corifei della democrazia e dell’antifascismo, tanto peggio per loro: come direbbe Dante, lascia pur grattar dov’è la rogna. Il problema è tutto loro, non nostro. Sta a loro riflettere e giungere a qualche conclusione: perché l’albero, come diceva Qualcuno, si riconosce dai frutti; e se l’albero è buono, com’è possibile che produca dei frutti cattivi?
Ma, si dirà, va bene, anzi va male, per la scuola: dopotutto, è pagata coi soldi di tutti; e si sa che per aver qualcosa di decente bisogna rivolgersi al privato (strano ragionamento da parte dei sinistri, che hanno sempre magnificato la bontà del sociale); però il cinema, l’editoria, la cultura laica in genere, sono effettivamente pluraliste e tolleranti, all’altezza d’un vera società democratica. Infatti: facciamo un giretto in una qualsiasi libreria, oppure sfogliamo, in una biblioteca, i libri che sono stati dei best-seller negli anni passati, sempre all’insegna del politicamente corretto. Sfidiamo chiunque ad allungare un braccio e prendere in mano un libro qualsiasi, anche a occhi chiusi: sarà, novantanove su cento, un libro che esprime la grettezza e la meschinità di una visione del reale che pretende di esser laica e progressista, ma è solo una forma di bigottismo alla rovescia. Che sia un saggio o un romanzo, o addirittura un libro di poesie, la sostanza non cambia. I romanzi di Moravia, di Umberto Eco? Le poesie di Pasolini o di Franco Fortini? I saggi storici di Luciano Canfora o quelli di Giordano Bruno Guerri? Ecco: prendiamo un libro come Gli italiani sotto la Chiesa, di quest’ultimo (Mondadori, 1992): una pietra miliare nella saggistica laica e anticlericale, non è vero? Ma sarebbe difficile immaginare un libro più fazioso (fin dal titolo: che vuol dire sotto?) di questo; un libro che è solamente un pamphlet a tesi, gonfio di pregiudizi, zeppo di luoghi comuni. Un libro che non cerca la verità, perché la verità l’Autore (che non è neanche considerato di sinistra, tutt’altro: e ciò mostra fino a che punto i metodi della sinistra hanno fatto breccia) ce l’ha già in tasca, per scienza infusa, o forse per divina illuminazione: sta di fatto che lui non la cerca, ce la spiega. E questo sarebbe fare storia. E così tutti gli altri. Non parliamo di Luciano Canfora, che paragona Stalingrado alle Termopili; o di Silvio Bertoldi, che sa solo mettere in caricatura gli uomini del fascismo, senza fare i conti con ciò che realmente hanno fatto e rappresentato (dove lo si troverebbe, oggi, un ministro come Pavolini che, ai tempi della R.S.I. e con le bande partigiane operanti dappertutto, se ne va in giro in automobile senza scorta?). Ma lasciamo il fascismo e lasciamo gli autori italiani; che altro ci offre la nostra brava libreria progressista e politicamente corretta? Ecco un grosso saggio di una scrittrice americana, Michelle Green, dedicato a Paul Bowles e all’ambiente cosmopolita di Tangeri, Un sogno ai confini del mondo, prontamente tradotto in italiano (edizione originale 1991; edizione italiana ’92). Logico: nel 1990 era uscito il film di Bernardo Bertolucci Il tè nel deserto, che aveva fatto conoscere al grande pubblico il romanzo di Bowles. E Bertolucci è un grande maestro, non è vero? Un gradissimo regista, giusto? E un regista di sinistra, uno che già negli anni ’60 e ’70 faceva cinema rivoluzionario e antiborghese. Dunque, chissà che capolavoro il romanzo di Bowles; e chissà che figura interessante, quella dello scrittore americano che era di casa a Tangeri. E dunque, tuffiamoci nelle quasi 400 pagine che seguono minutamente la vita africana di Bowles e di sua moglie, scrittrice pure lei, Jane Auer: freschi entrambi dai salotti di Gertrude Stein. E cosa emerge da quelle 400 pagine, peraltro senza un’ombra non diciamo di disapprovazione, ma neppure d’ironia? Che i due sposi andavano nei bassifondi nordafricani a caccia inesausta di ragazzini e di donne, rispettivamente per lui e per lei: che sguazzavano nell’ambiente degli invertiti americani, eroinomani e depravati, ma tutti rigorosamente radical-chic: William S. Burroughs, Tennesse Williams, Allen Ginsberg, Truman Capote. Tangeri era il loro letamaio perché solo lì potevano coltivare in pace i loro vizi (figuriamoci che affare, pagare i ragazzini di piacere in valuta statunitense) e dispensare al mondo, filtrate dalle grosse case editrice progressiste newyorkesi (e, poi, da registi progressisti come Bertoluccci) le loro sublimi perle di saggezza. Lo ripetiamo: c’è solo l’imbarazzo della scelta: case editrici e cinematografiche non servono altra merce che questa. Eppure gli scrittori seri, come un Domenico Giuliotti, e i registi seri, un Alessandro Blasetti, ce li avevamo, eccome: ma la guerra è finita come è finita, e ora questo è quel che passa il convento. Il bello della democrazia è che ti prende per il sedere con tanto garbo…
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