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Pagine dimenticate: Vittorio Emanuele Bravetta

Abbiamo ricordato, nel precedente articolo: Indottrinamento: ma è vero che ce ne siamo liberati? (sempre sul sito dell’Accademia Nuova Italia, il 08/05/19), fra le altre cose, lo scrittore Vittorio Emanuele Bravetta, autore del testo della canzone patriottica e guerresca Adesso viene il bello, musicata dal suo amico Giuseppe Blanc. Esso ha infiammato, ahimè per una breve stagione, i cuori dei nostri genitori e dei nostri nonni, sui banchi di scuola, nei primi mesi della Seconda guerra mondiale, quando, dopo la rapida e ingloriosa caduta della Francia, anche la Gran Bretagna pareva sul punto di arrendersi sotto le bombe della Luftwaffe, e i nostri eserciti coglievano in Africa Orientale e Settentrionale una serie d’ingannevoli e facili vittorie: Cassala, Moyale, Sidi el Barrani, la Somalia Britannica, sì che la vittoria pareva non solo ormai certa, ma anche imminente. Fu allora che i bambini e i ragazzi cantarono, ma solo per poco, Percossa e sconvolta / dal basso e dall’alto, / tu non resisti non resisti / al nostro assalto. / Malvagia Inghilterra, tu perdi la guerra, / la nostra vittoria sul tuo capo fiera sta. (…) Falsa Inghilterra per ogni naviglio / perdi una zanna, perdi un artiglio, / non c’è rimedio sei stretta d’assedio / è l’Aprile d’Italia che morte ti dà. / Dovrai per giustizia, / malvagia Inghilterra lasciare Malta, / abbandonare Gibilterra. / Dal cuor delle genti / i tre continenti il nome d’Italia / benedetto salirà. Certo, oggi è facile sorridere, specialmente sapendo la piega che presero, poco dopo, gli eventi bellici, a partire dall’autunno del 1940, e con la conoscenza retrospettiva della nostra impreparazione, non solo tecnica e  militare, ma finanziaria, industriale, nonché psicologica e culturale. E tuttavia, proviamo a fare uno sforzo di serenità e obiettività: quanto di quel sorrisetto, che ora viene dalle parole della canzone Adesso viene il bello, dipende dal fatto che, col senno di poi, sappiamo che l’Italia è uscita stritolata da quella guerra, e quindi quelle speranze, quelle illusioni, quel tono trionfalistico, erano destinati a naufragare miseramente, rivelando in modo impietoso la sproporzione fra le aspirazioni da grande potenza e la cruda realtà delle cose? E quindi che chi allora credeva nella vittoria imminente, e soprattutto chi ci credeva perché quella guerra la sentiva (si sorvola troppo disinvoltamente sul fatto che i volontari, nel 1940, furono più numerosi che nel 1915), non meritava che la derisione, oltre che la sconfitta, dato che doveva essere per forza un fascista? Che si possa credere nella guerra in cui sono in gioco i destini della propria nazione, pur non approvando, o pur non approvando interamente, il governo esistente in quel momento (ma i governi passano, le nazioni restano), evidentemente è un pensiero che non sfiora neppure la mente dei nostri benpensanti della cultura politicamente corretta: tutti debitamente progressisti, democratici, repubblicani e antifascisti. Non fa parte del loro costume ragionare come ragionavano e ragionano, appunto, gli anglosassoni: Right r wrong, it’s my country, cioè: che sia giusta o sbagliata questa guerra, io sto dalla parte del mio Paese. La maggioranza degli italiani non ragiona così e non ha mai ragionato così, purtroppo; al contrario, ha sempre pensato che è meglio la vittoria di un nemico esterno piuttosto che quella del proprio vicino: in passato, gli italiani degli altri Stati regionali; dopo l’Unità, il governo di turno e le classi dirigenti in generale. Solo in Italia poteva succedere che, dopo un evento infausto come la battaglia di Adua, in cui morirono più soldati italiani che in tutte le guerre del Risorgimento, la folla corresse per le strade gridando: Viva Menelik! Solo in Italia un giovane poteva essere linciato dalla folla per aver gridato, all’indomani della vittoria nella Prima guerra mondiale, Viva l’Italia!, come accadde a Torino, nel 1919, a Pierino Delpiano, un ragazzo che la guerra l’aveva fatta, benché giovanissimo, a differenza degli imboscati che lo aggredirono per la strada. E nulla è cambiato nei cento anni trascorsi da allora. Solo in un Paese come il nostro poteva succedere, alla notizia dell’attentato terroristico di Nassiriya del 12 novembre 2003, che provocò 28 morti, fra i quali 19 uomini delle nostre truppe inviate in Iraq, i giovani dei centri sociali potevano gridare per la strada: Dieci, cento, mille Nassiriya! Sia detto fra parentesi, è verissimo che l’intervento militare in Iraq, deciso dal nostro governo di allora, fu un errore e anche qualcosa di peggio: ma da ciò non dovrebbe discendere che sia cosa normale rallegrarsi pubblicamente per la morte di tanti giovani del proprio esercito. È in momenti come quello che si vede se esiste una coscienza nazionale oppure no, un minimo di spirito patriottico oppure no. Inneggiando festanti alla strage di Nassiriya, quei giovani dei centri sociali mostravano apertamente che l’oggetto del loro odio non era Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, al quale spettò la decisione di quella operazione militare (denominata in codice Antica Babilonia), o comunque non lui soltanto, ma proprio l’Italia, intesa come Stato, come governo (qualsiasi governo), come forze armate, come ordine pubblico, come fierezza e senso del dovere, come tradizione e civiltà. Il loro odio era rivolto proprio a quei caduti, a quei militari, a quei ragazzi della loro stessa età che indossavano l’uniforme dell’esercito: li odiavano così come, negli anni ’60 e ’70, i giovani di sinistra avevano odiato i giovani "fascisti", ma anche i poliziotti e i carabinieri, visti come servitori della borghesia, dell’imperialismo e di chi sa che altra entità astratta, ma che nella loro rozza psicologia era necessaria per fungere da testa di turco, da oggetto di odio, senza la quale non avrebbero potuto vivere, non avrebbero potuto essere "contro" qualcosa o qualcuno, ma coi soldi di papà e con la benedizione dei cattivi maestri, tipo Adriano Sofri o Toni Negri. Perciò, ripetiamo la scomoda domanda: se la Seconda guerra mondiale fosse finita nell’estate del 1940 con la vittoria schiacciante dell’Asse, e l’Italia fosse assurta al rango di potenza mondiale, oggi ci sarebbe qualcuno che avrebbe voglia di fare dell’ironia sui canti bellicosi di allora? Il sorrisetto di compatimento non sarebbe riservato, invece, a Churchill, e magari anche a quegli italiani che, fin dal 10 giugno del ’40, anzi da prima ancora, diciamo almeno fin dal 1936 (Oggi in Spagna, domani in Italia) auspicavano la vittoria dei nemici e la sconfitta dell’Italia, affinché il fascismo cadesse e loro potessero sputarci sopra, e deridere le manie di grandezza imperiale di Benito Mussolini?

E adesso torniamo al nostro Vittorio Emanuele Bravetta, l’autore del testo di Adesso viene il bello (Livorno, 1° dicembre 1889-Roma, 24 dicembre 1965). Anche e è passato agli o ori delle cronache (fasciste) per la composizione dei testi di alcune canzoni dello stesso genere (il Canto dei fanciulli fascisti, l”Inno degli universitari fascisti, l’Inno dei Giovani Fascisti", l’Inno della Somalia Italiana (1927), della Marcia delle LegioniIl DecennaleEtiopia, Inno dell’Italia imperiale, Inno Mediterraneo), tutti musicati da Giuseppe Blanc, è stato anche e soprattutto un valido giornalista e uno scrittore. Come giornalista, lavorò al Il Tirreno di Livorno, alla Gazzetta del Popolo di Torino, al Secolo XIX di Genova e a La Tribuna di Roma e fu caporedattore del Radiocorriere. Come scrittore, prima del ’15 aveva già steso la sceneggiatura di alcuni film di tema risorgimentale, come I Mille, del 1912, e pubblicato ben tre raccolte di poesie, cui se ne aggiunse una quarta, nel 1918, Ali e bandiere, ispirata all’esperienza della guerra; indi si era segnalato come autore di romanzi per la gioventù del genere avventuroso, come La crociera della nave eterna, del 1928, La signorina d’Artagnan, del 1929, Il bimbo che si svegliò gigante, del 1930; inoltre, per la Casa editrice Paravia di Torino diresse, nel corso degli anni ’30, la collana I condottieri. Altri romanzi, destinati a un pubblico patriottico, non solo giovanile, furono Giovanni dalle Bande Nere, del 1932; Il barbaro sulla colonna, del 1937, La bestia rossa, del 1938 (dedicato ai disordini del biennio rosso, 1919-20); e ancora, nel 1947, dava alle stampe un libro che ebbe una certa rinomanza, Il "Cuore" non invecchia, che riprendeva, sempre in chiave patriottica e tradizionalista, i temi e le situazioni del capolavoro di Edmondo De Amicis: bell’esempio di uno scrittore che volle restar fedele a se stesso e ai suoi ideai e che non si piegò, come fecero tanti, tantissimi altri, a fare il salto della quaglia e a ricominciare, dopo il 1945, scrivendo libri di segno diametralmente opposto a quelli coi quali aveva esordito e si era fatto conoscere negli anni anteriori alla guerra. Questo senso di lealtà e onore gli veniva anche dalle tradizioni familiari: figlio di un ammiraglio, studi in giurisprudenza, Bravetta aveva respirato il patriottismo nell’atmosfera di casa sin dall’infanzia: impossibile per lui darsi alla politica dei voltagabbana, come un Malaparte o uno Zangrandi qualsiasi.

Per dare un’idea del suo stile, ci piace riportare qui una pagina di un suo libro che continuò a essere riproposto al pubblico ancora all’inizio degli anni ’70, a testimonianza della vitalità della sua maniera di scrivere, capace di rapire e affascinare giovani e adulti: Il barbaro sulla colonna (Milano, Sonzogno, 1970, pp. 354-358), una storia sanguigna di amore, guerra e morte, sullo sfondo di un momento storico assai originale e poco conosciuto, la Roma del X secolo, al tempo della rivolta del patrizio Crescenzio Nomentano contro l’imperatore Ottone III, nel 997-98, rivolta di tipo feudale che l’Autore, con molta buona volontà, interpreta come una insurrezione patriottica italiana contro il potere dell’imperatore tedesco e, perciò, come lontano preannuncio della nascita di un sentimento nazionale e quasi pre-risorgimentale. Nella pagina che abbiamo scelto, la rivolta è stata domata e Crescenzio è stato condannato a morte e giustiziato; della vedova di lui, Stefania, è innamorato il giovane sovrano sassone, ma i due non osano rivelarsi i reciproci sentimenti, anzi, la donna spinge l’imperatore a visitare i lazzaretti sperando di farlo ammalare, per vendicare la morte del marito; intanto però il suo cuore è attratto dal giovane impetuoso e idealista, e proprio per questo fa di tutto per non dover confessare i propri sentimenti più profondi, dei quali si vergogna. Non sono loro i protagonisti del romanzo, ma la loro vicenda occupa uno spazio abbastanza importante; un po’ come nel caso degli "amori impossibili" della Gerusalemme liberata, che solo la morte riesce a sciogliere (si pensi solo a quello di Tancredi per Clorinda), anche qui il binomio Eros-Thanatos appare risolutivo di un dramma che aleggia a lungo, prima di manifestarsi in tutta la sua forza distruttrice:

I contagiati giacevano in lunghe corsie, su comodi letti, l’uno a fianco dell’altro.

Grandi fuochi erano accesi nei corridoi e sui roghi i monaci e le suore gettavano manciate di aromi e di zolfo che era ritenuto un efficace disinfettante. Dalle finestre, sempre aperte, uscivano pennacchi di fumo denso e acre, e, da lontano, di notte, i viandanti terrificati scorgevano i bagliori rossigni delle fiamme, come se il lazzaretto fosse il vestibolo dell’inferno.

Tammo però [il più fedele guerriero dell’imperatore, colpito dalla pestilenza] era stato deposto in una stanzuccia appartata per riguardo al suo grado. (…)

I due restarono soli nella stanzuccia squallida, davanti ad un morente che rantolava.

Ella si pose tra il giovane ed il morente. Teneva tra le mani un incensiere d’argento donde esalava un fumo denso, grave di aromi. Metteva tra la morte e la vita quel velo denso di protezione, quella frontiera di nebbia, dietro la quale, a poco a poco, il corpo di Tammo, già posseduto dalla Morte scompariva quasi fosse già fantasma.

Perché sei venuto? — gli chiese ansiosa, posando l’incensiere.

– Per rivederti, per trarti fuori di qui, da questo luogo abominevole…

– Era più infame la reggia, Ottone. Non potevamo vivere insieme…

– Tarda resipiscenza! Te ne sei accorta in ritardo…

– Ma sempre a tempo. Per salvarmi e per salvarti…

– Non temo il peccato, non volevo compierlo… Avrei fatto di te l’Imperatrice…

– Un progetto assurdo, mostruoso… Come il mio progetto, Ottone!

– Il tuo progetto?

– Mi hai rimproverato, dianzi, di essermi accorta troppo tardi che la mia presenza alla tua reggia era una infamia… Me ne sono accorta invece a tempo… E ti ho fuggito per non perderti, per resistere alla tentazione di…

Nella stanza di morte, quasi avvolta nella nube come una Sibilla che farnetica, ella finalmente si rivelava, si confessava, trovando così sfogo alla sua disperata angoscia.

– Non dire, non dire — la supplicò Ottone. — Credi che io non abbia intuito? La tua insistenza nell’indurmi a compiere opere di pietà… La tua insistenza nel condurmi con te nei lazzaretti, tra gli appestati… Sei stata cauta, Stefania…

– Sono stata vile… Non osavo ricorrere al veleno, non osavo ricorrere al pugnale, non osavo assumere, come hanno fatto Ferruccio e mio figlio, la tremenda responsabilità di un regicidio… Ho sperato nell’aiuto del caso; ho cercato di provocare questo aiuto attirandoti nei luoghi del contagio…

– Ed io ti ho seguita, Stefania, perché ti amavo, perché ero sicuro che, nella tua generosità, avresti finito per ammirarmi, per amarmi…

– Ottone!

– Ed ho anche compreso il motivo vero per cui ti sei ritirata in questo inferno penoso… Quando ti sei accorta, da te stessa, che il tuo animo era mutato, hai voluto cercare uno scampo…No, Stefania, nel tuo colloquio con Ferruccio, lo Squassa Casata non ti ha imposto, fra le condizioni della resa, di ritirarti in un lazzaretto… Sei tu che ti sei inflitta la clausura per lottare contro il tuo amore… Ed io ero tanto sicuro di me e di codesto amore il quale, lo vedi, si afferma anche davanti ad un letto di morte, che ho rispettato la tua volontà ben sapendo che il tuo esperimento sarebbe stato inutile…

– Non inutile, non inutile…

– Ora menti!

– Affermo una verità… Io non posso, Ottone, non potrò mai ammettere che l’amore mi abbia contagiata l’anima…

– Atroci parole!

– Io sono la vedova di Crescenzio. Se non lo posso più vendicare, non lo devo almeno tradire… La mia rinuncia alla vendetta, o caro, è già per te un premio, un trionfo… Ma non sperare di più… Lo vedo qual fantasma insanguinato e terribile; lo vedo sorgere dalle fiamme dei roghi che ardono notte e giorno in questo rifugio di miseria… Vivo in un luogo sempre illuminato, senza tenebre, e il fantasma mi perseguita, implacabile… No, no.

Estenuata, si appoggiò al muro per non cadere.

– Ma tu ti vendichi e lo vendichi ugualmente — la scongiurò il giovane straziato. — Tu mi uccidi lentamente con un mezzo più fatale e più sicuro del contagio, mi uccidi a poco a poco con il tuo rifiuto…

– Rifiorirai, mi dimenticherai… Sei giovane, sei ancora quasi un fanciullo! Che vuoi che sia l’amore a vent’anni? Una dolce illusione!

– Si faceva affettuosa, materna, pur di respingerlo e di convincerlo.

– Tu mi ferisci sempre più — proruppe disperato, – Un’illusione! Un’illusione questo male di te che mi avvelena il sangue e la mente! Vivo di questa che tu chiami crudelmente illusione, vivo perché almeno son creduto. Ma ora tu dubiti…

– Ella commise l’errore di insistere.

– È l’esperienza della vita che me lo insegna, fanciullo. Quello che oggi ti sembra un grande dolore, un insopportabile dolore, sarà domani un ricordo infantile, che ti farà arrossire e forse ti pentirai di avermi amata…

Disperata di doverlo respingere e di rinunciare, ella parlava con amarezza, non più materna e carezzevole ma trasfondendo nelle parole una specie di compatimento fatto di incredulità e di ironia sottile…

– Tu non mi credi! Mi ritieni un fanciullo!

– Lo sei.

– E allora giudica!

Fulmineo, travolto da una decisione repentina, si gettò attraverso il fumo aromatico, si accostò al morente, si chinò su la bocca spasimante, covo di miasmi velenosi, e baciò su quelle labbra livide, avidamente, il contagio.

Stefania dette un grido di orrore e cercò, con ogni suo sforzo, di strapparlo dall’abominevole contatto.

– Tu lo uccidi, tu lo soffochi! — gli urlò nelle orecchie cercando di fare appello alla sua pietà.

Ma non valse. Il giovane, disperato e demente, respirava l’agonia, il morbo, come un vampiro succhia il sangue.

Retorica esagerata e decadente? Quel bacio di Ottone sulla bocca del morto per far vedere all’amata che non teme la morte (e infatti poi ne morirr), ha qualcosa di eccessivo, di morboso, di necrofilo? Certamente. E allora? Quello era il tempo, quello era il clima. Forse che nel Pavese di Paesi tuoi, Talino che ama incestuosamente la sorella e poi la ammazza, piantandole un tridente nel collo, perché geloso di Berto, l’amico di città, non recita forse un ruolo dello stesso genere? Ma Pavese è uno scrittore antifascista e neorealista (almeno così si dice; e si sbaglia, almeno quanto al neorealismo), mentre Bravetta è solo un attardato scrittore ottocentesco, metà Salgari e metà D’Annunzio de La città morta. È per questo, allora, che Pavese ha conquistato un posto nei testi di letteratura del liceo, e naturalmente una buona quotazione nella critica ufficiale, mentre Bravetta no, è scivolato nell’oblio e oggi non lo ricorda più nessuno — nessuno che abbia meno di settant’anni? Oppure perché Pavese pubblicava con Giulio Einaudi, capofila delle case editrici progressiste e antifasciste, diciamo pure radical-chic — edizioni di lusso, molto care, però di contenuto marxista a vantiquattro carati – mentre Bravetta pubblicava i suoi libri con la Sonzogno? Oppure perché Pavese ci mostra dei contadini langaroli che paiono dei bruti usciti dai campi di tabacco d’un romanzo di Faulkner, e perciò "moderni", oltretutto descritti nello stile secco alla Hemingway, mentre Bravetta ci mostra dei personaggi idealisti, legatissimi al trinomio Dio, Patria e Famiglia e perciò vecchi e obsoleti, diciamo pure reazionari? Se il motivo vero del differente trattamento riservato a scrittoti fascisti e antifascisti, dopo il ’45, è questo, se ha origine da una somma d’ipocrisie di matrice ideologica, allora che lo dicano, una buona volta, perché siano stanchi d’esser trattati come poveri sciocchi che non si accorgono neanche delle manipolazioni più smaccate.

Ma c’è un’altra cosa da dire, per meglio comprendere l’eccesso di pathos che si può riscontrare nella prosa di scrittori come Bravetta o Mario Appelius, quello della famosa frase alla radio: Dio stramaledica gli inglesi!, la cui vicenda ricorda parecchio quella del primo, e anche in Concetto Pettinato, che scrisse pagine memorabili sullo stesso tema, ossia la "bontà" anglosassone (cfr. i nostri articoli: Una pagina al giorno: L’ultima vergine di Mario Appelius, e Una pagina al giorno; Sono buoni gli Inglesi? di Concetto Pettinato, pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente il 21/03/08 e il 05/01/18, e poi su quello dell’Accademia Nuova Italia il 21/12/08 e il 22/11/17). Ciò che essi cercarono di fare, avendo poco tempo a disposizione, era niente di meno che costruire un epos, un epos imperiale che altre nazioni, come la Francia e la Gran Bretagna, avevano già, e che avevano costruito nel corso dei secoli. Per rinsaldare lo spirito nazionale e compiere finalmente l’opera del Risorgimento, unificando spiritualmente il popolo italiano; per rendere grande l’Italia e porle dei compiti e degli obiettivi, anche di politica estera, che le permettessero di guadagnare il suo "posto al sole" fra le grandi potenze coloniali, era necessario creare in fretta quel che non c’era, o era appena ai primi passi, forgiato dal sangue del Grappa e del Piave: il senso della grandezza dei destini della Patria. Bisognava quindi pescare nella storia e costruire una mitologia imperiale. In fondo, è quel che già avevano fatto Carducci, Oriani, l’ultimo Pascoli, D’Annunzio, e perfino certi teologi e scrittor religiosi. Tanto per ricordarne uno, il padre barnabita Domenico Bassi (1875-1940), stimato sacerdote ed educatore, figura di spicco nel panorama pedagogico italiano della prima metà del Novecento (poi oscurato, e si capisce perché, dalla nuova "pedagogia" del Vaticano II e dalla scuola di sacerdoti di tutt’altra tempra e stile, come don Lorenzo Milani), il quale, nel suo libro Il Maestro e i maestri, del 1939, dedicava un capitolo alla scuola sul piano dell’Impero, senza che alcuno trovasse la cosa scandalosa e senza che i soliti preti di sinistra si stracciassero le vesti, anche se poi lo hanno ricompensato con l’oblio pressoché totale. Dunque: creare un epos imperiale, abituare gli italiani a pensare in grande; a sentirsi qualche volta martello, e non sempre incudine, per parafrasare un’osservazione di Mussolini. Registi cinematografici come Goffredo Alessandrini (Luciano Serra, pilota; Giarabub) o come Augusto Genina (L’assedio dell’Alcazar) e anche disegnatori come quelli che animavano le pagine di giornalini a fumetti come Il Vittorioso (che pure non era affatto fascista, ma edito da una casa editrice che faceva capo all’Azione Cattolica) o L’Avventuroso (edito dalla Nerbini di Firenze) andavano, sia pure con diverse strategie, nella stessa direzione. Lo spirito patriottico si forma negli anni dell’infanzia o non si forma più: per questo era di cruciale importanza far sì che i bambini e i ragazzi italiani (e naturalmente anche gli adulti) preferissero le avventure di eroi italiani come Giovanni de’ Medici, o come i giovanissimi Leoncelli di San Marco che difendono Famagosta contro i turchi nel 1570, a quelle degli eroi americani, come Flash Gordon o Mandrake, perché — come oggi si vede col dominio incontrastato di Hollywood, di Topolino e Superman, chi controlla l’immaginario dei ragazzi, controlla anche le idee di domani…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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