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Dom Pernéty: monaco, massone, illuminato,cabalista

Può essere che vi capiti d’imbattervi in uno strano, massiccio volume dall’aria piuttosto antica, Le favole egizie e greche, ristampato dai Fratelli Melita nel 1987, del quale è autore un misterioso Dom Antonio G. Pernety, che, dall’appellativo spettante ai benedettini, si deduce debba essere stato un frate quanto mai originale, visto che tutto il libro ruota intorno all’idea che i miti degli antichi vanno letti in chiave esoterica e massonica. Allora vi verrà voglia di approfondire la figura di quello strano personaggio, e scoprirete che è stato realmente un frate benedettino, più volte uscito dal convento e che da ultimo ha fondato un gruppo esoterico denominato Illuminati di Avignone, negli stessi anni nei quali, in Germania, Adam Weishaupt fondava i famigerati Illuminati di Baviera, che sono alla radice di altri gruppi ed altre sette puntualmente presenti, nei decenni successivi, in tutti i momenti di svolta della storia moderna, d’Europa e non solo d’Europa, sempre e immancabilmente in senso rivoluzionario e anticattolico.

Nato a Roanne, dipartimento della Loira, nel 1716 e morto ad Avignone nel 1796, questo singolare personaggio potrebbe passare per uno dei tanti irrequieti avventurieri di cui è pieno il XVIII secolo, e tuttavia dalla sua vita, dai suoi scritti, dai suoi viaggi e dalle sue amicizie traspare qualcosa di più: che egli è stato uno degli occulti persuasori della cultura moderna, i quali hanno lavorato nell’ombra e che forse più di personaggi ben noti, come Voltaire o Rousseau, hanno contribuito ad inquinare il cattolicesimo con dottrine che gli sono radicalmente estranee e a preparare l’opinione pubblica alla grande apostasia dalla fede che si è verificata nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, lasciando l’Europa spiritualmente in macerie, ossia nelle condizioni di un continente post-cristiano, che ha preso in odio e rinnegato con forza le proprie dici cristiane, e non perde occasione per sferrare ulteriori colpi al poco, pochissimo che resta dell’autentica presenza cattolica in seno alla società e fin dentro le file del clero.

Per lui, l’intero corpus della mitologia antica, dagli Egiziani ai Greci e ai Romani, altro non è che la traduzione allegorica, in chiave poetica, di un’occulta sapienza alchimistica. Ad esempio le peregrinazioni di Ulisse alludono alla ricerca, da parte dell’iniziato di scienze esoteriche, dell’acqua filosofica, nascosta sotto il nome di Nettuno; mentre Vulcano è il simbolo del fornello alchemico, e Proserpina è la materia imbiancata nel corso della Grande Opera. Anche i poemi omerici devono essere letti in questa chiave: il pianto di Teti per Achille è il simbolo della materia che si scioglie nell’acqua, le frecce scagliate con l’arco dagli eroi sono il simbolo dei principi "volatili", l’assedio di Troia sta a significare la reclusione della materia prima nell’Uovo Filosofico, in attesa che l’iniziato scopra il segreto più importante della Natura, cioè la possibilità di trasmutare i metalli vili in oro purissimo.

La sua biografia, fino al soggiorno a Berlino, viene così riassunta dal poeta e scrittore fiorentino Bruno Nardini (1921-1990) nel suo libro Misteri e dottrine segrete. Dal trapassato remoto ai nostri giorni (Firenze, Centro Internazionale del Libro, 1976, pp. 295-298):

Entrato giovanissimo nella Congregazione Benedettina aveva approfittato della ricca biblioteca del monastero per formarsi una cultura eccezionale, soprattutto ermetica. Dopo aver letto e studiato con entusiasmo Ermete, Avicenna, Democrito, Aristotele, Geber, Alberto Magno, Arnaldo di Villanova, Flamel, Raimodo Lullo, Ruggero Bacone e il Filarete, si convinse che «le favole di Omero e di Orefo, degli Egizi, degli Ebrei, dei Greci e dei Latini altro non sono che allegorie della Grande Arte», cioè dell’alchimia, perché, «come dice Matteo, Dio nasconde i suoi segreti ai superbi e ai falsi sapienti per rivelarli agli umili».

Perciò «i savi dell’era della favola hanno travestito i loro segreti nelle affabulazioni mitologiche per non darli in pasto ai presuntuosi e agli ignoranti».

Convinto di tutto questo, il giovane benedettino si lanciò, da solo, in una straordinaria avventura, più temeraria di quella di Don Chisciotte: spiegare e interpretare tutta la storia antica mediante una prodigiosa analogia ermetica.

Ma il padre Abate del monastero di Saint-Germain de Prés fiutava più odor di zolfo in queste alchimie letterarie che in quelle minerali di don Antonio; e così gl’impose di spegnere i fornelli e soprattutto di abbandonare le perniciose teorie che — secondo lui — gli ammorbavano l’anima.

Don Pernéty, infatti, era iscritto alla Massoneria, il cui gran maestro, S. A. Serenissima Luigi Borbone, conte di Clermont, era anche Abate Superiore della comunità di Saint Germain de Prés. La bolla di scomunica, emessa il 24 aprile 1738 dal papa Clemente XII, non aveva avuto ripercussioni in Francia, dove il cardinale Fleury, ministro di Luigi XV, si era rifiutato di diffonderla; e la stessa sorte era toccata alla Bolla successiva, detta "Providas", firmata il 18 maggio 1751 dal papa Benedetto XIV.

I gesuiti avevano fatto in tempo, prima che il loro Ordine venisse sciolto, a reclutare il fior fiore del clero francese nel 18° grado della Massoneria, quello dei Principi Rosacroce; e don Pernéty, malgrado l’avviso contrario del suo Superiore, provava una profonda commozione ogni volta che udiva ripetere nella sua loggia la definizione della Rosa+Croce tratta dal "Summum Bonum" di Robert Fludd:

«La Rosa dei Rosa+Croce è il Sangue di Cristo, con cui sono state lavate tutte le nostre colpe. È la Rosa di Saròn del Cantico dei Cantici. Quella che adorna il giardino segreto. Alla cui base è stato scavato il pozzo delle Acque Vive. È la Carità del Cristo, per la quale, secondo la parola dell’Apostolo, si arriva a conoscere, con tutti i Santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità. È quello stesso sangue, fino alla cui effusione noi dobbiamo resistere al peccato.»

E come "livre de chevet", il libro per eccellenza, i Rosacroce avevano l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kampis.

Con questi argomenti inoppugnabili, don Pernéty sostenne e ritorse le accuse del padre Abate; finché, esortato fraternamente a sospendere per qualche tempo le sue pratiche alchemiche, chiese ed ottenne di allontanarsi dal chiostro per seguire l’amico navigatore Louis de Bougainville che andava ad esplorare le terre australi del Nuovo Continente.

Il "Giornale satirico di un Viaggio alle isole Malvine [Falkland] nel 1763 e 1764 e di due viaggi allo Stretto di Magellano, con una relazione sui Patagoni" fu il risultato della spedizione; ma un altro risultato, per l’intraprendente benedettino, fu l’assoluta incapacità di reinserirsi nella comunità religiosa. Così, dopo due anni di "crisi", don Antonio Giuseppe Pernéty lasciò Parigi e l’abito per ritirarsi ad Avignone.

Anche in Provenza la Massoneria rosicruciana aveva ben seminato, e don Pernéty si dedicò, col solito entusiasmo, al perfezionamento esoterico della sua nuova loggia assumendo la direzione di una corrente detta "I settari della Virtù", ai cui tre gradi simbolici egli ne aggiunse altri sei [o cinque?]: Vero Massone sulla via maestra; Cavaliere della Chiave d’Oro; Cavaliere degli Argonauti; Cavaliere del Toson d’Oro; Cavaliere del Sole.

Nel mondo massonico si sparse presto la voce di queste ricerche esoteriche, per cui l’ex monaco fu da molti sollecitato a recarsi in Prussia, preso il monarca-massone, dove avrebbe trovato un ambiente più favorevole alle sue innovazioni. Federico il Grande, infatti, lo accolse con simpatia e lo nominò subito direttore della sua biblioteca. Il soggiorno in terra tedesca, che avrebbe dovuto avere breve durata, si protrasse per diciotto anni.

A Berlino dom Pernéty venne a conoscenza dell’opera del mistico luterano Jakob Böhme (1575-1624), assai conosciuto nei Paesi di lingua tedesca, tanto da essere noto ovunque come philosophus teutonicus; e di quella del mistico e pensatore svedese Swedenborg, del quale tradusse in francese il libro Delle divina saggezza; indi, spostatosi temporaneamente in Olanda, fu iniziato ai misteri della Cabala ebraica. Improvvisamente, per motivi non chiariti, ma probabilmente legato all’indole incostante e imprevedibile di Federico II, perse il favore del sovrano di Prussia e così fece ritorno in Provenza, fondando con alcuni amici e discepoli un gruppo di "illuminati", denominato Nuova Gerusalemme. Costruì un vero e proprio laboratorio alchimistico, stabilì dei riti d’iniziazione e di consacrazione da tenersi in un luogo apposito, scelto per la caratteristica di essere molto isolato, e scrisse un regolamento per disciplinare le riunioni del gruppo, che si svolgevano rigorosamente di notte. I membri di questo gruppo cercavano la perfezione mediante l’illuminazione interiore e seguivano la via mistico-alchemica tracciata da dom Pernéty, ossia l’interpretazione allegorica della mitologia egizia, greca e romana in chiave massonica e rosicruciana, nonché utilizzando un particolare sistema di numerologia ispirato ai principi teosofici dell’unità nella molteplicità. Nel tempio di Avignone gli illuminati leggevano, nel corso delle loro cerimonie "sacre", sia testi canonici, come i Salmi, sia le rivelazioni di Swedenborg: il tutto sempre nella prospettiva d’invocare le forze angeliche, che si sarebbero manifestate in base ad un preciso calendario astronomico. Lo stesso dom Pernéty disse di aver avuto, come Swedenborg, la visione di un angelo, il quale gli rivelò (op. cit. p. 300):

Io sono il messaggero dell’Eterno, inviato dal cospetto dell’Agnello, per far risuonare la tromba della montagna di Babilonia e avvertire le nazioni che il Dio del cielo verrà presto alle porta della Terra per cambiare la faccia del Mondo e manifestare la sua potenza e la sua gloria.

Era il 1789 e stava per scoppiare la Rivoluzione francese. Dom Pernéty fece in tempo a vederla tutta fino alla caduta di Robespierre e all’instaurazione del Direttorio, mentre già Napoleone cominciava il suo cauto e inarrestabile cammino di avvicinamento al supremo potere; si spense ad Avignone il 16 ottobre 1796.

Che dire di questo monaco benedettino che prende e si toglie più volte il saio; che aderisce tranquillamente ad una delle tante logge massoniche, e questo dopo che Clemente XII ha formalmente scomunicato i massoni; che s’immerge nei tesi gnostici, esoterici, magici e occultistici, al punto che non deve restargli molto tempo per la preghiera cristiana, la recita dell’uffizio divino e la partecipazione alle sacre funzioni; che lavora spensieratamente col fornello dell’alchimista e si forma una notevole cultura ermetica fra le mura stesse del convento, spulciandone la biblioteca; che può godere dell’alta protezione di un superiore massone lui pure, il quale chiude entrambi gli occhi sulle strane attività e le sospette preferenze culturali di un benedettino; che si prende una licenza per partecipare al viaggio d’esplorazione all’altro capo del mondo organizzato da un nobile che godeva di notevoli entrature a corte, mostrando di avere potenti amicizie politiche, tutt’altro che normali per un oscuro fraticello; che infine si mette a viaggiare per l’Europa, a fondare circoli d’illuminati di qua e di là, e diffonde ovunque confuse e strampalate dottrine in cui si mescolano protestantesimo, magia, misticismo esoterico, Cabala e chissà che altro, insomma tutto, o quasi tutto, tranne che la vera e sola dottrina cattolica?

Ecco dunque cos’era il clero cattolico, in Francia, a pochi anni dalla prima, solenne condanna della massoneria da parte del papa Clemente XII, del 1738. Un cardinale che è ministro del re e che si rifiuta di diffondere la bolla papale nelle diocesi di quel Paese, ossia che rifiuta di prestare obbedienza al vicario di Cristo in una questione che è di disciplina, ma anche di fede; una fitta penetrazione dei massoni in tutti gli ordini religiosi, benedettini compresi, favorita da un’opera massiccia e capillare effettuata sotto la direzione dei gesuiti, poco prima della soppressione (temporanea purtroppo) del loro ordine; un clero regolare che si dedica all’alchimia, all’esoterismo, alla Cabala, a tutto fuorché alla religione cattolica romana, sotto il naso degli abati e dei superiori, e dunque figuriamoci cosa poteva fare il clero secolare; in breve un’armata Brancaleone indisciplinata e deviata, che se ne infischia delle decisioni e degli ammonimenti provenienti dal papa, e non si dedica né alla preghiera, né all’apostolato e alla cura delle anime, ma s’inventa non si quali assurde convergenze fra il Vangelo e la gnosi, fra il Vangelo e l’esoterismo, fra il Vangelo e la magia; che evoca spiriti "angelici" i quali, forse, non sono poi così celestiali come esso ingenuamente crede; che si affilia alle società segrete più lontane dalla vera dottrina cattolica; che pretende di poter riservare a se stesso un sapere "cristiano" di ordine superiore, introducendo l’esiziale opinione che il Vangelo sia un testo che va letto e decifrata "a strati", i più bassi per la gente del popolo, i più alti per i massoni, gli alchimisti e i rosacrociani. Il tutto con l’impudenza di rifarsi al monito di Gesù contro i superbi e i fasi sapienti, e a favore della comprensione delle sue Parole da parte degli umili e dei semplici (cfr. Matteo, 11,25): laddove quei signori, che oltretutto indossano slealmente ed abusivamente l’abito da monaco o da sacerdote secolare, tutto si possono definire fuorché umili e semplici, bensì sono gonfi di superbia intellettuale e convinti di avere, essi soli, le chiavi per una interpretazione nascosta del Vangelo, e perciò di una comprensione diversa e originale della figura stessa di Gesù Cristo.

La conclusione di tutto ciò è che il marcio dell’eresia gnostica e dell’infiltrazione massonica nella Chies acattolica risale a molto, molto addietro: al secolo dei Lumi, se non prima ancora. Ora vediamo l’apologia delle fase religioni, nella Nostra aetate del Concilio Vaticano II; assistiamo all’intronizzazione della Pachamama nella basilica di San Pietro; alla redazione dell’eretico documento di Abu Dhabi da parte di un papa "cattolico", alla faccia di duemila anni di dottrina e di magistero. Ma tutto questo ha origine nel lavorio sotterraneo che personaggi ambigui e sleali, ma dotati di una luciferina intelligenza e un’indubbia abilità, come dom Pernéty, hanno condotto dal 1700, scavando come dei tarli, sino a rendere marcio il tessuto della Chiesa visibile, e provocarne la caduta quasi inavvertita…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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