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Senza la persona, la filosofia si scioglie in psicologia

Che cosa è accaduto alla filosofia, se non patire il contraccolpo che ha subito l’immagine che l’uomo moderno ha elaborato di se stesso? Ci siamo persi per strada la persona; pochi se ne sono accorti, e quei pochi non hanno fiatato. Al posto della persona, ci siamo ritrovati fra le mani la personalità: la filosofia si è sciolta in psicologia, l’universale si è sbriciolato nei cento, mille casi individuali. Non c’è più una verità generale sull’uomo, ci sono tante verità parziali, contingenti, finite; tante piccole verità di corto respiro, corrispondenti a ciascun individuo. Ma, inevitabilmente, perché fermarsi a metà strada? Se non c’è più una verità valida per tutti gli uomini, allora perché ipotizzare che ce ne sia una per ciascun uomo? Più logico e consequenziale affermare che per ogni uomo ci sono cento, mille verità: a seconda dell’umore, a seconda delle circostanze. Dal relativismo al soggettivismo, il passo è breve. E così dalla filosofia alla psicologia, e dalla psicologia allo scetticismo. A che serve cercare la verità, se questa cambia ad ogni soffio di vento? Meglio, molto meglio limitarsi a cogliere queste variazioni, questi umori, questo stato d’animo; limitarsi a descrivere l’esistente. Nessuno può imprigionare il flusso vitale; nessuno può costringere in una gabbia ciò che, per sua natura, scorre e muta continuamente.

L’orizzonte filosofico si è rimpicciolito, è divenuto asfittico, perché si è rimpiccolita l’immagine che l’uomo ha di se stesso e del reale. Logico. Questo processo parte dall’umanesimo, culmina con l’illuminismo e col positivismo: sono tutte filosofie che, in apparenza, esaltano l’uomo, le sue facoltà, le sue conquiste, la fiducia che egli ha in se stesso; ma, in effetti, giungono a degli esiti diametralmente opposti alle premesse. Per esaltare veramente l’uomo, bisogna averne un’immagine esatta: e l’immagine esatta dell’uomo è quella di una creatura finita, di una persona che brancola nell’incertezza, cercando a tentoni la strada. Questa è la vera immagine dell’uomo: persona, quindi creatura spirituale, formata dall’unione di corpo e anima; e persona finita, quindi creatura consapevole del proprio limite ontologico, della propria piccolezza e della propria caducità. Solo a queste condizioni, cioè solo sapendosi guardar onestamente allo specchio per ciò che è, l’uomo può arrivare a una giusta celebrazione delle sue possibilità, che sono effettivamente grandi, ma solo se rivolte al proprio completamente soprannaturale, e cioè aperte all’influsso vivificante della Grazia. Altrimenti, l’uomo rimane una creatura sospesa: da un lato vorrebbe balzare oltre il proprio limite, dall’altro va a sbattervi contro ogni volta, inesorabilmente; e, alla lunga, ciò genera in lui un senso di frustrazione, di amarezza e di radicale scetticismo. In tal caso l’uomo cade al di qua del proprio limite, si abbassa, si degrada; invece di sviluppare le sue migliori potenzialità, le isterilisce o le mette al servizio della propria autodistruzione.

Sia la filosofia classica che la filosofia cristiana medievale hanno sempre saputo cosa sia la persona: specialmente la seconda. Da Aristotele a san Tommaso d’Aquino e oltre, fino a Dante Alighieri, fino a Pascal, fino a Kierkegaard, fino a Romano Guardini, la filosofia occidentale ha tenuto fermo alla duplice natura della persona, nell’ordine della natura e nell’ordine della Grazia. Ma poi, a partire appunto dall’umanesimo, e sempre più negli ultimi due secoli, ha messo in soffitta la dimensione soprannaturale e ha limitato la propria attenzione alla dimensione naturale. Tale è stata anche l’opera, essenzialmente negativa, di Kant: eliminare la metafisica, eliminare la teologia, lasciare dell’uomo un’immagine puramente razionale, senza neanche provare ad accedere al nucleo più autentico della persona. Così sono sorti e si son sviluppati due filoni principali dell’antropologia moderna: quello naturalista, che vede nell’uomo un essere biologico, dotato di appetiti e istinti che non può reprimere senza compromettere il proprio equilibrio; e quello esistenzialista, che vede in lui una creatura dotata essenzialmente di volontà, una creatura che dice sì alla vita (Nietzsche), ma senza possedere i mezzi, né la volontà di tendere al fine soprannaturale, e la cui spinta vitale si esaurisce nell’ordine del finito, dunque inevitabilmente nell’infelicità e nell’angoscia.

Scriveva monsignor Giuseppe Nebiolo, scomparso a Roma nel novembre 2003 – figura esemplare di sacerdote e infaticabile animatore dell’Azione Cattolica nella diocesi di Asti, nonché grande pedagogista, oggi ingiustamente ignorato – nel suo libro Pedagogia junioristica (Roma, Gioventù Italiana di Azione Cattolica, 1952, pp. 106-111):

Essere persona importa essere SOSTANZA COMPLETA. Il corpo non è persona. L’anima non è persona. Infatti ognuna delle due sostanze, prese isolatamente in sé, non sono complete. La loro completezza risiede nell’unione sostanziale di esse. Persona esprime quindi un ordinamento all’essere sostanziale. Essere persona importa ESSERE SPIRITUALE. La materia, anche organizzata, anche vivente, non costituisce persona. E nemmeno, col passare dei secoli, può diventare persona. L’essere persona esige l’indipendenza e la libertà dalla materia. Questa è prerogativa dello spirito. (…) Essere persona importa essere INDIVIDUO. Essere individuo significa avere esistenza propria, essere distinto dagli altri; essere incomunicabile agli altri. (…) Essere persona importa ESSERE DI NATURA UMANA. La persona possiede in se stessa, immanente, il principio di tutta l’attività umana. (…) La persona si determina da sé all’azione, spontaneamente, senza cause dirette esterne di ordine naturale. (…) Essere persona importa quindi ESSERE SOGGETTO RESPONSABILE delle proprie azioni. Al concetto di persona siamo giunti seguendo il metodo della filosofia classica e cristiana. è certo una visione completa e profonda della persona umana, sotto l’aspetto dell’essere e sotto l’aspetto dell’azione. Al tempo d’oggi invece la visione filosofica della persona è troppo trascurata forse per una certa pigrizia mentale, o forse anche per quel subdolo disprezzo della ragione e quell’intolleranza delle definizioni che caratterizza il pensiero moderno. Al posto della persona si parla molto di personalità, e poiché nessuno s’incomoda a spiegare il significato del termine, ne avviene che usandolo, ognuno intende dire quello che vuole, e sentendolo, ognuno cerca di capire quello che può.(…) Sia quelli che rinnegano e sia quelli che semplicemente dimenticano il concetto filosofico classico di persona sono portati a sostituirlo con un concetto, o con concetti, di natura PSICOLOGICA. Si tende insomma a definire la persona NON PER QUELLO CHE ESSA È, MA PER QUELLO CHE ESSA APPARE. Il concetto psicologico di personalità può assumere nel pensiero moderno due aspetti principali. Per alcuni la personalità è l’insieme del COMPORTAMENTO CARATTERISTICO individuale di un uomo. Per altri invece è l’AUTOCOSCIENZA APPOFONDITA di se stesso. (…) Ammettiamo per vero il concetto di personalità nel primo senso. In questo caso la personalità è il complesso delle doti umane che costutuiscono l’uomo nella sua individualità. Rileviamo da questo concetto le conseguenze educative. L’educazione della personalità dovrebbe consistere nello sviluppo e nell’affermazione dei valori fisici, sentimentali, intellettuali, voltivi in tutti i campi che praticamente sono raggiungibili dall’individuo. Ecco quindi la valorizzazione , dell’amore, della forza, della cultura, dell’azione, dell’impresa coraggiosa, del senso estetico, della riuscita in società, della potenza, della ricchezza, della gloria. Ora cercate di leggere il "My Pedagogoc Creed" di Dewey e ci troverete esattamente queste idee. (…) Tante volte gli stessi cattolici meno vigili sul significato di quello che dicono e di quello che fanno, non pensano che la loro educazione positiva, costruttiva, integralistica, dinamica, umanistica, attivistica viene stranamente a coincidere con queste visioni che non sono cattoliche, ma che TUTTAVIA CONSERVANO UN FASCINO PER QUEL TANTO DI CATTOLICO CHE SEMBRANO CONTENERE. Sono pedagogie apparentemente slide perché tenacemente radicate nell’umano, nel concreto, nell’esperimentabile; ma che rivelano la loro intima indigenza per un motivo che quelle pedagogie non possono o non vogliono valutare: la disarmonia e il disorientamento delle facoltà. I simpatizzanti per queste forme di educazione si trovano frequentemente di fronte a punti critici, da cui cercano di svincolarsi con più o meno fortunata abilità. Sono i punto critici del rapporto tra atletismo e moralità; tra intelligenza e sentimento; tra individuo e società; tra uomo e donna. Ogni facoltà infatti, se violentemente sollecitata e sviluppata, acquista delle DISPOSIZIONI PERMANENTI CHE TENDONO A STRARIPARE trascinando con sé tutte le energie spirituali della persona. (…)

Ammettiamo ora per vero l’altro concetto di personalità. In questo caso la personalità sarebbe la progressiva autocoscienza di se stessi. Ed ecco le conseguenze educative. Conseguenze meno notevoli della prima perché riservate ancora ad una élite di uomini di oggi, ma ugualmente preoccupanti. Nel prendere coscienza di se stesso il giovane scopre la propria inquietudine profonda. Scopre la sua esistenza limitata. Scopre la sua finitezza. La tragica contraddizione del suo "nulla" che si protende verso l’essere gli si rivela appunto nel senso di angoscia. L’angoscia è smarrimento, rivelazione a se stesso del nulla originario. Il nulla appare l’orizzonte della vita: la vita è un tendere al nulla, è un ESSERE PER LA MORTE. Tutto il nulla di cui siamo fatti è redento nell’istante in cui si accetta con un atto di volontà. Non la ragione dunque insegna la via, ma la volontà, atto irrazionale con cui si accetta l’esistenza.(…)

In conclusione possiamo dire che i due concetti di personalità da cui siamo partiti conducono, il primo, ad un PRAGMATISMO NATURALISTICO, il secondo ad un NATURALISMO VOLONTARISTICO IRRAZIONALE. In parole più semplici, il primo ad una PEDAGOGIA FONDATA SULL’AZIONE SVINCOLATA DA UN FINE CHE TRASCENDE L’UOMO, il secondo ad una PEDAGOGIA FONDATA SUL SENTIMENTO SVINCOLATO DALLA RAGIONE.

Proprio così. Nelle visioni moderne dell’uomo manca l’elemento equilibratore fra le diverse facoltà, perché manca l’elemento finalistico: l’uomo è come sospeso nel vuoto, non si capisce dove voglia andare e, soprattutto, non si comprende su che cosa intenda poggiare i piedi. Sulla terra? Ma la terra è il regno del finito, del precario, del contingente: base instabile, ondeggiante, quanto mai precaria. Su se stesso? Ma egli non può essere sia il viandante sia il cammino da percorrere: altrimenti il suo viaggio non sarebbe che un circolo vizioso, una illusione di movimento, un dinamismo senza senso, proprio come lo è quello delle macchine da lui create per rendersi la vita più comoda e per esercitare un più stretto dominio sulla natura. Dominio illusorio, peraltro: la natura è indomabile, perché egli stesso è un elemento della natura — per ciò che riguarda la sua parte finita. E la parte non potrà mai dominare il tutto, per quanto sofisticate siamo le macchine che è capace di costruire. Inoltre, per dominare qualcosa bisogna prima aver piena coscienza di sé: ma è appunto ciò che l’uomo moderno ha smarrito. L’uomo moderno non sa più chi è; se l’è scordato per strada, mentre era impegnato a scoprire e "conquistare" continenti, oceani, malattie, molecole, codici genetici, corpi celesti; e ciò dal momento in cui ha smarrito il concetto di persona e lo ha sostituito, via, via, con quello di personalità. Ma la personalità non è la persona, qualunque cosa egli intenda con quest’ultimo vocabolo, il che non è affatto chiaro, come osserva giustamente il Nebiolo. In ogni caso, né dieci, né mille personalità faranno mai la persona: la persona è l’elemento stabile, essenziale, sostanziale in cui consiste la natura umana; la personalità non è che la maschera, o la serie di maschere che egli indossa. Ma come arrivare alla persona, come recuperare il concetto di persona, una volta che, sulle orme di Kant, la cultura moderna ha rinunciato all’idea di poter mai conoscere la cosa in sé? Senza contare che l’uomo moderno è diventato l’uomo-massa, l’uomo della Folla, l’uomo atomo nel mare dei tanti: anche da questo lato egli ha smarrito non solo il concetto, ma la pratica dell’essere persona. Per essere persona, e per pensarsi come persona, l’uomo deve conservare la propria individualità, unica, irriducibile: non deve assomigliare a tutti gli altri, non deve scolorire nel gran mare dell’umanità. O l’uomo è se stesso, e perciò Singolo, oppure non è più persona, ma una ex persona, cioè, in ultima analisi, un ex essere umano. L’essere umano, infatti, è tale e si può realizzare come tale — può, si badi, ma a determinate condizioni — solo finché rimane Singolo; se abdica dalla propria singolarità, se si lascia trasportare dal gran flusso del gregge, non è più lui, non è più uomo. È solo bestiame in attesa di un pastore che lo conduca dove vorrà lui, verso una (falsa) terra promessa o verso l’abisso: non c’è differenza fra le due cose. Se l’uomo vuole ritrovare il proprio equilibrio interiore, gravemente compromesso da due o tre secoli almeno di sistematico auto-inganno, di sistematica mistificazione del reale, deve ripercorrere al contrario il cammino iniziato con l’umanesimo, che si è rivelato un tragico vicolo cieco; deve tornare a vedersi per ciò che è, sostanza e persona finita, ma con un fine soprannaturale. Deve riscoprire la bellezza della ragione rettamente intesa e utilizzata: la ragione che conduce al fine della vita, che è Dio, creatore e ordinatore dell’universo, nell’ordine delle cose visibili e in quello delle cose invisibili. Perché solo in Dio la sua ragione si appaga, la sua perfezione si realizza: in Lui solo è la felicità. Come dice Aristotele, l’uomo è fatto per giungere alla felicità, non per macerarsi negli sterili dubbi.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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