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Che cosa è essenziale?

Ecco la domanda che ciascun essere umano, anche se non è filosofo e non nutre alcun interesse per le questioni filosofiche, dovrebbe porsi, almeno qualche volta nel corso della propria vicenda terrena: che cosa è veramente importante, che cosa è essenziale, nella vita d’un uomo? O, come dice Seneca: quid est praecipuum?

Ci piace riportare almeno una parte di questo ragionamento del pensatore romano, che non si trova nelle Lettere a Lucilio, né in qualche altra opera specificamente filosofica, ma nel terzo libro delle Naturales queastiones, dove la domanda di senso è ripetuta per ben sette volte, secondo la figura retorica dell’anafora, evidentemente come interrogativo di somma importanza per la vita di un uomo (da: Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, a cura di Dionigi Vottero, UTET, Torino, 1989, e Tea, Milano, 1990, pp. 382-387):

Che cos’è veramente importante nella vita dell’uomo? Non è aver riempito i mari con le proprie flotte, né aver piantato le insegne sul lido del mar Rosso, né venendo a mancare la terra per le nostre oltraggiose conquiste, aver errato sugli oceani alla ricerca dell’ignoto, ma l’aver visto con l’animo ogni cosa e, vittoria maggiore di tutte, aver domato i vizi: non si contano coloro che hanno avuto in loro potere interi popoli e città, ma pochissimi sono riusciti a dominare su se stessi. Che cos’è veramente importante? Ergere l’anima sopra le minacce e le lusinghe della fortuna, non considerare nulla degno di essere atteso con ansia. Cos’ha infatti di appetibile per te la fortuna che, ogniqualvolta dalla frequentazione delle cose divine ricascherai nelle umane, avrai la vista annebbiata non altrimenti che coloro i cui occhi dal sole splendente ritornano nell’ombra profonda? Che cos’è veramente importante? Poter tollerare le avversità con animo sereno; sopportare qualunque cosa accadrà come se tu avessi voluto che ciò ti accadesse (avresti infatti dovuto volere, se avessi saputo che tutto avviene per volontà immutabile di Dio: piangere, lamentarsi e gemere significa ribellarsi). Che cos’è veramente importante? Un animo forte e fermo di fronte alle sventure, non solo lontano ma anche nemico del lusso che non cerchi avidamente i pericoli e non li fugga a precipizio, che sappia non aspettare passivamente la propria sorte ma esserne lui l’artefice e contro la buona e la cattiva ventura sappia avanzare senza paura e senza turbamento, non colpiti né dagli attacchi di questa né dallo splendore di quella. Che cos’è veramente importante? Non accogliere nell’animo propositi malvagi, levare senza macchia le mai al cielo, non aspirare ad alcun bene che, perché passi a te, qualcuno deve dare o qualcuno deve perdere; desiderare invece ciò che si può desiderare senza che nessuno si opponga: il perfezionamento morale; tutto il resto di cui i mortali fanno gran conto, anche se portato in casa da circostanze favorevoli, considerarlo come se dovesse uscire per la stessa porta per la quale è entrato. Che cos’è veramente importante? Sollevare alti gli spiriti sopra gli avvenimento dovuti alla fortuna, ricordarsi della propria condizione di uomo cosicché, se sarai fortunato, tu sappia che ciò non durerà a lungo, se sfortunato, affinché tu sappia che tu non lo sei se non ti ritieni tale. Che cos’è veramente importante? Tenere la propria vita a fior di labbra: questo fatto rende liberi non in forza del diritto positivo ma per diritto di natura. E libero è chi si è sottratto alla schiavitù di se stesso: questa è ininterrotta e ineluttabile e preme giorno e notte ugualmente senza intervallo, senza tregua. Essere schiavi di se stessi è la più opprimente delle schiavitù: ma ti è facile sbarazzartene se smetterai di pretendere molto da te, se smetterai di procurarti guadagni, se non perderai mai di vista sia la tua natura di uomo che l’età, fosse pure giovanile, e dirai a te stesso: «Perché dovrei perdere la testa? Perché affannarmi? Perché sudare? Perché arrabattarmi in attività agricole e politiche? Non ho bisogno di molto e non ne ho bisogno per molto».

La risposta di Seneca alla domanda: quid est praecipuum? presenta degli evidenti punti di contatto con quella che darebbe qualsiasi buon cattolico. La si confronti con i dodici versi iniziali dell’XI canto del Paradiso di Dante, che presentano con la pagina di Seneca — escludendo peraltro, quasi certamente, una filiazione diretta — delle convergenze notevoli nel modo di argomentare, laddove viene fatto l’elenco delle vanità legate alle carriere mondane:

*O insensata cura de’ mortali, / quanto son difettivi silogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali* ! // Chi dietro a iura e chi ad amforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio, / e chi regnar per forza o per sofismi, // e chi rubare e chi civil negozio, / chi nel diletto de la carne involto / s’affaticava e chi si dava a l’ozio, // quando, da tutte queste cose sciolto, / con Bëatrice m’era suso in cielo / cotanto glorïosamente accolto.

La domanda su cosa sia essenziale nella vita è una domanda-termometro: serve a misurare la febbre, sia della singola persona, sia della società. Una società nella quale questa domanda non viene nemmeno più posta, e dove chi la pone viene guardato con un misto di curiosità, compatimento e disprezzo, come un sopravvissuto di lontane epoche ormai dimenticate, denuncia da se stessa il proprio avvilimento e il proprio stato di confusione pressoché totale. Una persona che non se la pone mai, e che si stupisce se qualcuno gliela pone, è una persona che vive alla giornata, senza orizzonti, senza meta, senza scopo. E tanto la società, quanto la persona che si sono scordati cosa è essenziale, anzi, che si sono scordati di chiederselo, sono destinati a fare poca strada: non va lontano chi non sa stabilire una gerarchia di priorità, chi non ha ben chiaro quel che è importante e quel che non lo è. E infatti: lo spettacolo quotidiano che ci viene offerto dalla vita è quello di persone che vagano senza scopo, disordinatamente, come gli ubriachi, e di una società dove tutti quanti si agitano freneticamente, ma senza arrivare a nulla, o peggio, smarrendosi e incespicando nei propri passi.

Ora, questa situazione è in parte il frutto di una civiltà, come quella moderna, che ha distrutto la tradizione e ogni punto di riferimento in nome di un dinamismo fine a se stesso, di un andare avanti senza riflettere, di un fare tanto per fare; ma in parte è dovuta anche a un massiccia opera, lucidamente programmata, per relativizzare ogni cosa ed eliminare qualsiasi residuo di metafisica, di sacralità, di trascendenza, o anche solo di ordinata e matura interiorità. Siamo in presenza di una cultura totalitaria e fintamente tollerante, ben decisa ad imporre il relativismo per legge, perfino multando o mandando in prigione, se necessario, quanti non sono disposti ad arrendersi di fronte al suo progetto di dominio assoluto sulle intelligenze e sulle coscienze. L’obiettivo è quello di mantenere i membri della società immersi nel fiume tumultuoso del relativo, del provvisorio, dell’effimero, facendo però in modo che essi percepiscano e considerino come salde certezze e beni irrinunciabili le convinzioni più estemporanee e le cose più frivole. In altre parole, gli esseri umani vengono condizionati ad auto-condizionarsi: devono crearsi una sorta di gabbia illusionistica dalla quale non osano uscire e nella quale si riducono a vivere di una vita spenta, riflessa, totalmente artificiale, avulsa dalla vita vera, dai sentimenti veri, dai valori autentici; come i prigionieri nella caverna di Platone, essi finiscono per scambiare quel piccolo spazio, popolato d’illusioni e di fantasmi, per il grande spazio della dimensione reale, abbrutendosi nel perseguimento di una "libertà" che consiste nella scelta dei mezzi coi quali suicidarsi. Parliamo di suicidio morale, ma anche di suicidio biologico: perché come il singolo si suicida moralmente allorché perde il contatto con la realtà e diviene dipendente dalle droghe e da quegli stili di vita illusori che causano la sua alienazione, così la società si suicida quando oblia le proprie radici, la propria identità, e si trastulla nell’inseguire vizi e capricci sempre più innaturali, abnormi e mostruosi, presentandoli come grandi conquiste e come emblemi di civiltà dei quali andare orgogliosi. Da quando in qua il fatto di voler cambiare il proprio sesso biologico può essere visto come un vanto? In nessuna società al mondo si è mai verificata una simile aberrazione: oggi vi stiano assistendo. E finché la massima aspirazione di vita viene fatta risiedere nell’esercizio di simili "diritti", la domanda su ciò che è essenziale nella vita rimane, evidentemente, del tutto disattesa.

Ecco allora che tornare a porsi la domanda su cosa è essenziale equivale a lottare per tenere viva la propria umanità e desta la propria coscienza. Finché ci si comporta come se correre dietro a tutte le mode del consumismo, e sottomettersi a tutti i riti del politicamente corretto, fossero l’essenziale, si continuerà a vivere una vita di seconda o terza scelta: una vita nella quale si è schiavi dei propri appetiti disordinati, anche i più bestiali e infamanti, e si trascura la propria parte più nobile, quella spirituale, che aspira alle altezze del vero, del buono, del giusto e del bello. I poteri finanziari ovunque imperanti vorrebbero farci perfino scordare che esistono queste categorie, non parliamo la loro manifestazione concreta: la verità, la bontà, la giustizia e la bellezza. Al loro posto vogliono imporci, a livello privato, la religione dei consumi e del narcisismo; a livello pubblico, la religione del Migrante, uno strano miscuglio di migrazionismo, modernismo, gnosticismo, luteranesimo, ambientalismo, sincretismo post-cristiano, il tutto con minuscole e annacquate componenti di cattolicesimo: Gesù ridotto alle dimensioni di un semplice profeta, la Madonna ridotta a una Mamma, i Santi ridotti a uomini comuni e persino gay, i diavoli e gli Angeli che non esistono addirittura, e la vita eterna non si sa, sì, no, forse, anzi probabilmente no. L’umanità si può pertanto dividere, ai nostri giorni, in due grandi categorie: i vivi, che si chiedono cosa sia essenziale perseguire nella vita, e i non vivi, i morti viventi, che non se lo chiedono perché non si chiedono più nulla di serio, e soprattutto non si fanno più domande autentiche, ma semmai quelle domande che corrispondo ai "bisogni" artificiali in essi instillati dal sistema aberrante della modernità. Tutti quelli che vivono letteralmente attaccati al loro telefonino, o al computer, o al televisore; tutti quelli che si pongono il fatto dell’abbigliamento, della palestra,m dell’abbronzatura come impegni prioritari; tutti quelli che considerano irrinunciabile procurarsi l’ultimo modello di telefonino, o di automobile, o di gioco elettronico; tutti quelli che se ne vanno in giro con l’apparecchio per ascoltare musica attaccato agli orecchi, e frastornano il proprio cervello con musiche ritmiche e sincopate, a volume assordante; tutti quelli che non riescono neanche a immaginare il proprio fine settimana se non in discoteca, a "sballare" e impasticcarsi fino all’alba; tutti quelli che vedono nell’altro sesso, e anche nel proprio, solamente una riserva di caccia per inseguire l’orgasmo; e tutti quelli che vedono il lavoro, la famiglia, la sincerità e la lealtà delle relazioni interpersonali come rimasugli e nostalgie di un passato ormai scomparso, e inseguono solo l’attimo, le emozioni e le sensazioni "travolgenti";: tutti costoro sono dei non vivi, dei morti viventi, che tengono scrupolosamente oliato ed efficiente il meccanismo attraverso il quale subiscono la quotidiana dose di distruzione della loro umanità.

A questo punto è abbastanza chiaro quale sia la strada da percorrere per chi voglia difendere e, se possibile, rafforzare, ampliare e arricchire la propria umanità: quella de-condizionamento. Cosa meno facile di quanto si creda, perché si tratta di sottrarsi all’abbraccio mortale con un mostro che si serve di noi stessi: per cui dobbiamo, in pratica, de-condizionarci da noi stessi e dalle nostre pessime abitudini, tagliando i mille fili che ci tengono legati alla macchina della nostra distruzione, e attraverso i quali introiettiamo i liquami, i veleni e i diabolici influssi che ci espropriano, giorno dopo giorno, ora dopo ora, della nostra parte migliore: la nostra creatività, la nostra intelligenza, la nostra coscienza e il nostro incanto di fronte al mondo. Ed è un sistema assai abile e ramificato, che si impadronisce delle persone quando sono ancora bambini, li trasforma in piccoli drogati che non possono fare a meno delle scarpe firmate, dello zainetto firmato, dell’ultimo modello di telefonino. Capire che si tratta di bisogni artificiali ed eterodiretti, e che far coincidere col possesso di tali cose il proprio benessere è pura follia e odio del proprio bene, è il primo passo, faticoso ma necessario, per spezzare le catene della propria schiavitù. Bisogna imparare e disprezzare il ricatto del consumismo, la paura dell’esclusione, il giudizio che daranno di noi gli altri, cioè gli schiavi ben decisi a rimare tali e quindi nemicissimi degli schiavi che aspirano alla libertà. Infatti il consumismo ci tiene prigionieri non soltanto delle cose, ma anche di false relazioni umane e di una intima disistima di sé, di un vero e proprio auto-disprezzo, sia pure ben dissimulato dietro la apparenze seducenti della cura narcisistica del proprio apparire. Ma chi davvero si vuol bene, non fa dipendere l’idea che ha di se stesso dal possesso di beni inutili e frivoli. Volersi bene davvero significa amare la propria parte spirituale: quella che ha sete di Assoluto e di Eterno, in altri termini ha sete di Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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