
Il loro vantaggio, e come annullarlo
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Che cosa è essenziale?
12 Febbraio 2019Per chi scrivono le loro poesie, i poeti? Le scrivono solo per se stessi, o per gli altri uomini? E per quali esattamente: per gli amici, o per gli spiriti affini, o anche per l’intera umanità? E si rivolgono solo ai contemporanei oppure alle generazioni future, come Francesco Petrarca che scriveva lettere indirizzate ai posteri?
Per alcuni aspetti, la domanda che si vorrebbe porre ai poeti è simile a quella che si può rivolgere anche ai musicisti, agli scrittori, ai pittori, ai registi di cinema o di teatro, eccetera; e non è neanche troppo diversa da quella che si potrebbe porre ai filosofi e ai teologi. Per altri versi, in vece, la dimensione specifica della poesia non è equiparabile né alle altre arti, né, meno ancora, all’esercizio del pensiero. Ci basta, per adesso, aver accennato al più ampio contesto in cui si colloca la domanda sul senso della poesia: un contesto che abbraccia idealmente la multiforme ed elusiva figura nota come "intellettuale", e il cui rapporto con la società moderna è, a dir poco, complesso ed ambiguo. Quanto al poeta, è ormai perfino un luogo comune dire che egli si sente emarginato, incompreso e alienato, in un mondo dominato da ben altri miti, quelli della scienza e della tecnica; ma questa prospettiva, fatta la tara a quel tanto di lamentoso e di vittimistico che contraddistingue tanti poeti moderni, da Baudelaire ai crepuscolari e oltre, può essere facilmente capovolta osservando che sono i poeti che devono avere qualcosa da dire, non la società che deve tenersi pronta ad ascoltare le loro parole come se fossero degli oracoli. La società, ogni società, è quella che è: la compongono persone affaccendate nella dimensione pratica della vita, e solo una piccola minoranza possiede la dote, o ha la fortuna, di potersi dedicare alla riflessione spassionata e al culto del bello. Forse, comunque, se ci fossero meno falsi poeti e se i poeti avessero qualcosa di profondo e di vero da dire, una parte almeno dei loro concittadini si fermerebbe ad ascoltarli, anche solo per un poco. E tuttavia, resta la domanda essenziale: a chi si rivolge il poeta, quando scrive le sue poesie? E diciamo quando scrive, non quando pubblica, perché è evidente che, nel momento in cui le pubblica, o le pubblicano i suoi eredi, dopo la sua morte e d’accordo con un editore, quelle poesie rivestono, per ciò stesso, una funzione squisitamente economica: devono produrre un guadagno, e pertanto si rivolgono ad un pubblico in vista di un interesse economico. Ma quando scrive le sue poesie, per chi le scrive, il poeta?
Prima di rispondere, chiediamoci che cos’è una poesia. Una poesia è l’espressione d’un sentimento; nel caso della poesia lirica, di un sentimento individuale. Ora, l’espressione è di per sé volontà di comunicazione: non si scrive se non per comunicare. D’altra parte, il primo, e in fondo il vero interlocutore del poeta, è il proprio io: nessun vero poeta scrive le sue poesie pensando al pubblico e all’effetto che faranno su di esso, se piaceranno o no. Il vero poeta ha bisogno di effondere a se stesso un sentimento, e quindi scrive per sé. Ma entro di sé, il poeta ha tutto un mondo: un mondo pressoché illimitato, popolato d’innumerevoli presenze, di voci, di volti, di ricordi, di presentimenti. Allora, il fatto di scrivere per sé non esclude che egli scriva anche per altri: a nessuno in particolare, ma, perciò stesso, a tutti. In altre parole, il sentimento che il poeta esprime è individuale ma, nello stesso tempo, universale. E la poesia è viva se è universale; se no, è come se fosse morta.
Un caso molto significativo è quello della poetessa americana Emily Dickinson, che trascorse tutta la sua vita in una modesta cittadina del Massachusetts, Amherst, ove nacque il 10 dicembre 1830 e in cui morì, il 15 maggio 1886, giungendo al punto di confinarsi nella propria camera e non uscir più di casa, neppure per il funerale dei suoi genitori. In vita aveva pubblicato solamente sette poesie, passate pressoché inosservate. Ma dopo la sua morte, i familiari trovarono in una cassetta, mescolate ad altre carte insignificanti, 1775 poesie inedite, che vennero pubblicate solo un po’ alla volta e che rivelarono in lei una qualità poetica stupefacente, tale da rappresentare ancora oggi una specie di enigma per i critici letterari e gli storici della letteratura.
A proposito della poesia di Emily Dickinson, ha osservato il critico letterario americano Archibald MacLeish (The Private World: Poems of Emily Dickinson, in Poetry and Experience, Houghton Miffin Co., Boston, 1961; cit. in E. Dickinson, Poesie, a cura di Margherita Guidacci, Milano, Rizzoli, 1979, pp. 110-113):
… In cosa dunque consiste questo tono? In quale modo ci parla questa voce indimenticabile? Prima di tutto, e con assoluta evidenza, il tono è perfettamente spontaneo. Nessun atteggiamento o posa preliminare, letterariamente preconcetta. Non si ha mai l’impressione dell’argomento scelto a freddo, del "tema" da svolgere. Qualche volta, nelle poesie sulla natura, i tramonti, per esempio, così numerosi tra i componimenti giovanili, si avverte la presenza del blocco di carta per acquarelli e della tavolozza per stemperare i colori, ma quando la Dickinson cominciò a scrivere poesia matura, come fece, miracolosamente, dopo appena pochi mesi di apprendistato, quell’impaccio scomparve. Si trattiene il respiro, e vi sono parole che non ci lasciano il tempo di osservare la poetessa mentre viene verso di noi. Una poesia dopo l’altra (in più di centocinquanta casi) comincia con la parola "Io", la parola della voce parlante. La Dickinson è già nella poesia prima d’incominciare, come un bambino è già in un’avventura prima che trovi parole per parlarne. O per dirla in altri termini, solo pochi poeti, e tra i più grandi (viene in mente Donne) hanno scritto in maniera più DRAMMATICA di Emily Dickinson, con un maggior uso di locuzioni vive del discorso drammatico, parole nate vive sulla lingua e scritte come se venissero pronunciate. Pochi si sono esposti in maniera più viva, come attori sulla scena. È quasi impossibile cominciare a leggere una delle sue poesie migliori e non finirla. La punteggiatura può apparire sconcertante. L’estrema condensazione della cosa detta può sconfiggere la nostra capacità di penetrazione. Ma si continua ugualmente a leggere perché non si riesce a smettere. "Qualcosa" ci viene comunicato e non vi è altra scelta che ascoltare. Ed ecco una seconda caratteristica di quella voce: non solo PARLA, ma parla proprio a NOI. Oggi siamo abituati — infelicemente abituati, direi — alla poesia del monologo udito di soppiatto, alla poesia che il poeta scrive per sé o per un piccolo gruppo congeniale sulla cui comprensione può contare in anticipo. Una poesia di questo tipo può rivelare dei mondi, quando il poeta è Rilke, ma anche nel caso di Rilke c’è qualcosa di chiuso e sigillato, in questa scoperta, e prima o poi si avverte una mancanza di aria. L’argomento di ogni poesia è l’esperienza umana, perciò il fine deve essere sempre l’umanità, perfino in un tempo come il nostro, in cui l’umanità sembra voler limitare la sua conoscenza di un’esperienza di vita soltanto a quella che le viene offerta dalla pubblicità. Per un poeta non è una scusa il fatto che l’umanità non voglia ascoltare. Non ha mai ascoltato, se non vi era costretta.
Emily Dickinson lo sapeva bene come noi. Forse il materialismo e la volgarità di quegli anni, subito dopo la guerra civile, in cui ella raggiunse la sua maturità artistica, non erano così sfacciati come il materialismo e la volgarità in cui siamo immersi noi, ma il provincialismo era ancora più grande di oggi. L’America erra immensamente più lontana dall’Europa, dove c’era almeno una certa familiarità con le arti; e Amherst] era più lontana dal resto dell’America e in Amherst e dintorni non c’era nessuno disponibile a cui la Dickinson potesse mostrare le poesie che veniva componendo, se si eccettuano i versi inviati qualche volta oltre il prato alla moglie di suo fratello o spediti per posta al Colonnello Higginson, a Boston, o al direttore dello "Springfield Republican", che era un amico di suo padre, o mostrati alla sorella Lavinia.
Ma nonostante tutto questo, la Dickinson non scrisse mai le sue poesie solo per sé. La voce che vi si ode non è mai udita ABUSIVAMENTE. Al contrario è una voce che parla proprio a noi, a degli estranei (e che razza di estranei saremmo sembrati ad Emily Dickinson!), in maniera così intensa così immediata, così INDIVIDUALE, che quasi tutti un po’ c’innamoriamo di questa ragazza morta, tutti la chiamiamo per nome e ci indigniamo leggendo il Colonnello Higginson quando la descrive come "una personcina incolore e timida… senza neppure un lineamento bello".
È la vitalità di questa vice che rende ancora più strana la strana storia delle poesie di Emily Dickinson. In tutta la paradossale vicenda della conservazione dei manoscritti, il paradosso più grande sta nel fatto che Emily affidasse la sua viva voce ad una cassettina privata, piena di pezzettini di carta — vecchi conti, inviti all’Inaugurazione dell’Anno Accademico, ritagli di giornale legati insieme con un po’ di filo. Altri poeti hanno strombazzato a tutti il mondo versi che a nostro parere avrebbero fatto meglio a spedire privatamente a quei tre o quattro che fossero in grado di decifrare il timbro postale. Emily chiuse a chiave in una cassetta una voce che parla ad ogni creatura di cose che ogni creatura vivente conosce…
Ecco: Emily Dickinson è il caso sorprendente di una grande poetessa che forse non sapeva di esserlo, che scriveva quasi solo per sé e della quale gli altri neppure si accorsero. Eppure le sue poesie ci sorprendono e ci commuovo per la loro caratteristica essenzialità e naturalezza: sgorgano come acqua di fonte, con la millimetriche precisione di qualcosa che va dritto là dove deve andare, senza una sola sbavatura, né una sola incertezza. Abbiamo detto, poc’anzi, che la poesia è l’espressione di un sentimento: definizione essenziale, ma ne resta fuori qualcosa. Aggiungiamo allora che essa è anche una forma di conoscenza del reale. Perciò, in definitiva, si può dire che il poeta è colui che offre una forma di conoscenza del reale attraverso l’espressione di un sentimento individuale che si fa universale. Leggendo le poesie di Emily Dickinson, si prova la meravigliosa sensazione che tutto sia come deve essere; che ogni parola, ogni verso, scorrano secondo il loro giusto ritmo, che poi è il ritmo stesso della vita; e che tutto ciò equivalga a una conoscenza del mondo, che ci porta con sicurezza infallibile verso il centro delle cose, molto più di quanto non possa fare la conoscenza logico-matematica. Solo pochi poeti possiedono questo dono; oppure, se lo possiedono – è molta giusta l’osservazione di Archibald MacLeish — si tratta di poeti che solo pochi riescono a comprendere, come Rainer Maria Rilke: mentre Emily Dickinson rappresenta il miracolo di una poesia vera, profonda, essenziale, comprensibile a tutti. Proprio questa apparente semplicità ha fatto sì che a lungo le venisse contestato il posto che merita nel panorama della poesia lirica moderna: molti critici pensano che un vero poeta deve essere per forza arduo e difficile. E qui subentra un ulteriore problema.
Il vero poeta non scrive per il pubblico, non scrive per piacere: scrive perché è stato investito dall’alto di tale missione. Non si chiede mai se ne valga la pena, pur sapendo che la maggioranza del pubblico non lo apprezzerà, e che la sola strada sicura per piacere al pubblico è quella di piacere ai critici, o almeno a quelli che contano: i quali sono sovente dei poeti mancati i quali compensano la loro frustrazione imponendo assurdi criteri di giudizio, quasi a volersi rifare di ciò che non sono riusciti a dire loro stessi come poeti. La vera poesia è come una luce, e la luce non si pone sotto la tavola, ma sulla tavola, perché illumini la stanza; in altre parole, la poesia esiste a dispetto della critica e a dispetto del pubblico, non in grazia loro. In ultima analisi, i poeti scrivono le loro poesie per Dio: sono una offerta d’amore alla Verità, una offerta che riconosce il debito essenziale nei confronti di essa, che loda e magnifica la Sorgente da cui essa stessa scaturisce. Ma allora è sempre buona, la poesia? Quella vera, sì. Eppure, sappiamo che c’è anche una poesia cattiva, così come vi sono un’arte cattiva e una filosofia cattiva. È cattiva la poesia che non riconosce il proprio debito nei confronti della Verità e che, pertanto, non diffonde intorno a sé la luce del vero, che è anche il bello; ma si propone di celebrare il fango e la sporcizia delle passioni disordinate, ed esaltare una libertà mal concepita, volta a sfidare il Vero e il Bene. Questa poesia deteriore nasce da una ignoranza della reale natura umana e dal deliberato rifiuto del suo destino eterno: fa leva su istinti e appetiti vergognosi e celebra quanto di più basso alberga nelle buie profondità dell’anima. La poesia moderna si è specializzata in questo turpe ruolo, come del resto la letteratura in prosa, le arti figurative, il cinema, la musica leggera, la danza e perfino lo sport. Dai fiori del male e le donne dannate di Baudelaire, ai battelli ebbri di Rimbaud, ai cupi languori di Verlaine, la poesia moderna celebra il vizio e svolge un ruolo attivo nel processo di autodistruzione della natura spirituale dell’uomo. Questi poeti infernali sono paragonabili a dei virus che disseminano ovunque una pestilenza ma che, invece di essere respinti con sdegno e disgusto, vengono acclamati come maestri e i veri interpreti del nostro tempo. Frattanto, autentici poeti come Emily Dickinson chiudono a chiave i loro manoscritti in un cassetto e probabilmente la maggior parte dei loro capolavori finisce dispersa, senza mai giungere al pubblico. Quale immenso spreco. Ma il pubblico, poi, li capirebbe?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels