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Padroni del discorso: del vero, del bene e del male

I signori della cultura progressista, cioè della Cultura senz’altra specificazione (ciò che non è progressista, infatti, è solamente spazzatura), essendo padroni del Discorso, perché tutti i mezzi d’informazione, le case editrici, la scuola e l’università, sono in loro potere e a loro disposizione, si sono autonominati, come è ovvio, i soli interpreti del Vero; e, di conseguenza, i soli autorizzati a decidere sul bene e sul male. Essi danno la pagella a tutti gli altri, ma non accettano lezioni da nessuno. Qualsiasi cosa accada, se anche il tetto cadesse loro sulla testa (e di fatto è già accaduto, solo che non se ne sono accorti), loro non prendono lezioni e respingono al mittente qualsiasi critica, qualsiasi obiezione, per non parlar di rimproveri. Critiche, a loro? Ma scherziamo? Loro le critiche le fanno, non le prendono. Perché? Perché loro sono nella verità, loro sono la Verità. E chi lo dice? Lo dicono loro. Ma possono farlo? Certo, dal momento che sono padroni del Discorso. Come si fa ad avere torto, quando tutti i giornali, tutte le televisioni, tutti i professori sono dalla loro parte, dicono quel che dicono loro, predicano come predicano loro? È impossibile. Perché avessero torto, bisognerebbe che una rotella dell’ingranaggio s’inceppasse; che qualcuno potesse vedere dove sta il trucco.

Il trucco sta nella totale circolarità del loro essere auto-referenziali: se la dicono e se la cantano da soli; si applaudono da soli, meglio ancora, fanno partire l’applauso registrato; si gridano bis da soli; e sorridono compiaciuti. Si accigliano solo quando qualche tapino impudente osa mettere in dubbio il loro vangelo, oppure, cosa ancor più grave — se mai fosse possibile — fa notare le loro continue contraddizioni e la loro evidente mala fede. Com’è che i progressisti erano tutti antiamericani arrabbiatissimi negli anni ’60 e ’70, e ancora negli anni ’80 (gli anni di Reagan!) e adesso sono diventati tutti filoamericani? Com’è che erano tutti simpatizzanti della Russia, e adesso sono diventati antirussi? Com’è che detestavano Israele e il sionismo, e adesso sono tutti pro Israele e si sono bellamente scordati dei Palestinesi? E com’è che ce l’avevano tanto col capitalismo, con la borghesia decadente, con gli industriali sfruttatori del popolo, e adesso non parlano più del capitalismo, né della borghesia, o, se pure lo fanno, li lodano, e arruolano fior di industriali nei loro ranghi, a rimpolpare le file del loro esercito in via di sfaldamento? E come mai denunciavano come stintomi di degenerazione di classe le perversioni sessuali, la pedofilia, specialmente del clero, sostenendo che la sola classe sana è il proletariato, mentre ora hanno sposato al 100% le battaglie radicali per sdoganare la sodomia, la pederastia, l’utero in affitto e l’adozione di bambini da parte delle coppie d’invertiti? Ce succede: suor Boldrina e frate Fiano (come li chiama Marcello Veneziani) hanno avuto una conversione sulla via di Damasco? Che è successo al Pd, alla sinistra in generale, agli intellettuali progressisti, buonisti, pluralisti: hanno scoperto che lottare per la libertà di Sodoma e Gomorra (specie di chi ha molti soldi, e i figli può comprarseli al fiorente mercato dei bebè) è cosa assai più nobile e incisiva che lottare per la libertà del proletariato? Il loro eroe non è più Gian Maria Volonté de La classe operaia va in paradiso, ma Nichi Vendola? Il simbolo delle loro battaglie non è più il metalmeccanico Cipputi, ma Luxuria?

Restando nell’ambito della cultura: che fanno i signori progressisti, da qualche anno, anzi, da qualche decennio in qua? Mestano e rimestano fra le ceneri spente dei loro anni ruggenti, cercano di ripescare qualcosa, ma non è che trovino molto. Qui si vedono gli aspetti negativi della padronanza totalitaria del Discorso: si finisce per ingannare anche se stessi. Un po’ come successe a Mussolini, che credeva di avere migliaia di aerei pronti in caso di guerra, e non sapeva (così vuole la vulgata antifascista) di averne pochi, perché, alle esercitazioni aeronautiche, gli facevano vedere sempre gli stessi, che si levavano in volo uno dopo l’altro, descrivevano un cerchio e ripassavano davanti al Duce, più e più volte. Dove son finiti i leoni ruggenti di quegli anni? I Gramsci, i Sartre, i Luckács: che fine hanno fatto? E i grandi scrittori, si fa per dire, come Moravia, come Vittorini, come Pasolini, che fine hanno fatto? Hanno ancora qualcosa da dire, oppure ci si è resi conto che sono inutilizzabili, che erano solo dei palloni gonfiati dalla propaganda progressista? Sta di fatto che, per poter dire ancora qualcosa, i signori progressisti si sono ridotti — ma non da ieri; lo fanno ormai da più di mezzo secolo – ad andare a caccia di frodo nelle riserve del "nemico". Saccheggiano Nietzsche; saccheggiano Carl Schimtt; saccheggiano Ernst Jünger, saccheggiano Heidegger: oh, ma come sanno fare loro soltanto, cosa credete! Cioè interpretandoli a sinistra, distorcendo il loro pensiero in maniera inverosimile, finché non sono riusciti a far dire loro ciò che non si erano mai sognati nemmeno di pensare. Ma tant’è: possono farlo, perché sono i padroni del Discorso; e più non dimandare. Che cosa vuoi capire tu, che sei un reazionario? D’altra parte, come avrebbero tirato avanti, nella loro assoluta mancanza di idee, di progettualità, senza questo bracconaggio in partibus infidelium? Cosa sarebbe Sartre, senza aver pescato a piene mani nella mangiatoia di Heidegger? E cosa sarebbero gli esistenzialisti, senza Sartre? E cosa sarebbero i vari Derrida, Foucault, Deleuze, senza l’esistenzialismo? E cosa sarebbero Eco, Cacciari, Galimberti, senza Derrida, Foucault, Deleuze? È una specie di gioco del domino: se si toglie un solo tassello, crolla tutto il castello di carte. Ma guai a dirlo; no: bisogna far finta che il castello non sia fatto di carte, ma di robustissimo cemento armato; che sia un solido, magnifico palazzo; e che sia del tutto autonomo e autosufficiente, che non abbia bisogno di nessuno, ma che, al contrario, è da lì che si sprigioni la luce sul tutto il mondo.

La terza risorsa degli intellettuali progressisti a corto di idee è offerta dall’ambientalismo, dall’ecologismo, dall’animalismo, e chi più ne ha, più ne metta. Qui, peraltro, bisogna fare i conti con una feroce concorrenza: tutti pescano in quella sorgente, la sorgente miracolosa, dalla quale scaturisce l’eterna giovinezza degli intellettuali stanchi. I cattolici di sinistra in particolare, vi attingono a piene mani, e da ultimo ci si è messo pure il clero, vescovi e cardinali in prima fila; il signore argentino ci ha fatto niente meno che un’enciclica, stravolgendo alla sua maniera anche il povero san Francesco d’Assisi e arruolandolo a forza nella sua neochiesa apostatica e massonica, proprio come i filosofi di sinistra hanno arruolato retrospettivamente Nietzsche e perfino Heidegger, il nazista, nelle loro file. Certo è una difficile concorrenza, anche perché fino a ieri insospettata, quella dei Bassetti, dei Galantino e degli Spadaro; e come resistere a un papa che impresta la basilica di san Pietro perché qualcuno la trasformi in un immenso teatro notturno per la messa in scena di tigri, leoni, pantere, scimmioni, squali e cannibali? Certo la vita è dura, per gli intellettuali di sinistra, quando si deve fare a metà con un concorrente così energico e intraprendente. E che dire, poi, se si scopre che, alla fine, anche in quell’area le scaturigini sono di destra? Che Walther Darré, per esempio, ha preceduto, e di molto, Jeremy Rifkin, Serge Latouche e tutto l’establishment progressista e politically correct?

E questo, che abbiamo descritto, non è solo un modo di essere dei progressisti nostrani, ma di tutti i progressisti dell’universo mondo. A titolo d’esempio, si consideri questa pagina, dedicata al destino del pensiero di Heidegger nella cultura progressista francese, scritta da Jean-François Revel (pseudonimo di Jean François Ricard, 1924-2006), tratta dal suo saggio La conoscenza inutile (titolo originale: La connaissance inutile, Paris, Editions Grasset & Fasquelle, 1988; traduzione dal francese di Alessandro Serra, Milano, Longanesi & C., 1989, pp. 346-347):

Nel 1987 viene pubblicato "Heidegger e il nazismo" di Victor Farias, un autore tedesco che pubblica il suo libro prima nella versione francese. Decisione oculata o forse felice coincidenza, dato l’atteggiamento dei filosofi francesi rispetto a Heidegger. Una miscela di deferente adorazione del suo pensiero e di spudorato occultamento del nazismo professato dal maestro, una nitroglicerina etico-concettuale pronta a provocare una tremenda conflagrazione alla sia pur minima scossa. Come del resto avvenne. Appena pubblicato il libro, da ogni parte spuntarono decine di libelli, centinaia di articoli, tavole rotonde in quantità, lettere aperte, numeri speciali di riviste, convegni e dibattiti televisivi. La carestia in Etiopia venne accantonata, Gorbaciov momentaneamente lasciato orfano di buoni consigli e abbandonato alle sue risorse cerebrali, l’eliminazione del generale Pinochet rinviata a data da destinarsi — tutto doveva fermarsi, perché l’onore della tribù, offeso dall’infame Farias, richiedeva l’energia di tutti i suoi figli. Come al solito, fu organizzata una vera festa di logica pura, giacché la difesa articolò la sua arringa all’incirca come segue: 1) ciò che dice Farias è falso; 2) l’avevamo già detto noi; 3) ignoravamo assolutamente tali orrori, ma si tratta nel caso di Heidegger di errori personali che non inficiano la validità del pensiero; 4) a ogni modo non tocca a Farias ma a noi dirlo; 5) è per questo che abbiamo sempre sottaciuto e rimosso ogni traccia del percorso politico heideggeriano.

Perché mai la comunità filosofica francese s’è sentita tanto presa di mira, punta sul vivo, messa in discussione da rivelazioni che, secondo lei, non erano tali, che erano vere pur essendo false, la qual cosa, tra l’altro, non aveva la minima importanza? Perché il suddetto Farias, passati subito dal ruolo di sconosciuto a quello di vittima designata, di infame agente dell’oscurantismo ontico, doveva vedersi negato il diritto di svolgere un’inchiesta sul nazismo di Heidegger? Su quest’ultimo punto conosciamo ormai la regola solo chi ha mentito o è caduto in errore può godere del privilegio di rettificare i propri sbagli (senza tuttavia ammettere il proprio torto). Gli altri, quelli che non hanno detto fesserie, sono squalificati in partenza e pregati di starsene zitti: questione di buon gusto. Ma a proposito della trappola heideggeriana e degli scheletri di famiglia, la filosofia francese aveva poco da strare allegra, e con buone ragioni; donde il panico suscitato da "Heidegger e il nazismo", sconvolgimento da vecchie beghine che scoprono il curato nell’atto di accarezzare i fanciulli.

Il nazismo del filosofo tedesco è sempre stato noto. Ogni volta che lo si fa riemergere, la tribù filosofica ripete gi stessi guaiti. Perché questa ciclica reiterazione? Proprio perché il nazismo di Heidegger, niente affatto accidentale ma profondamente connesso con la sua dottrina, mette in questione la filosofia stessa. Quando, tra il 1935 e il 1945, la filosofia francese passava da una fase di stanca e aveva bisogno di ricostituenti per tirarsi su, le si somministrò una forte dose di Heidegger. Non si badò alla denominazione d’origine, né alla natura del terreno politico del fornitore. Da allora, la nostra filosofia, per la maggior parte di sinistra, vive con quel virus reazionario inoculato nel sangue, che le provoca periodicamente indicibili tremiti.

Ora, si provi a trasporre questa dinamica sul terreno della cultura nostrana, non solo filosofica, ma storica, letteraria, cinematografica, musicale, ecc, e ci si accorgerà che in Italia le cose sono sempre andate allo stesso identico modo. Certe cose, le cose ideologicamente imbarazzanti, possono dirle solo loro, i signori progressisti; e in pratica così è sempre stato, essendo loro i padroni del Discorso. Se le dicono loro, sono vere; se le dice qualcun altro, allora sono infami calunnie, intollerabili provocazioni. Parliamo della guerra civile del 1943-45? Solo loro sono autorizzati a farlo; gli altri, i revisionisti, i fascisti, devono stare zitti, fossero anche storici di valore, come De Felice. Parliamo dei crimini commessi dai partigiani rossi, specie alla fine della guerra? Stesso discorso: loro sì, gli altri no; Serena no, Pansa neppure (sebbene Pansa sia dei "loro", mica degli "altri": ma quando è troppo…). E ciò sia per una particolare forma mentis, quella della maestrina saccente che ha sempre e comunque ragione, anche se ha torto marcio, sia per una ragione più spicciola, quella indicata da Revel: perché, essendo terribilmente a corto di idee, già da un pezzo pescano nella riserva degli "altri". Abusivamente, e perciò con cattiva coscienza. Personalmente, abbiamo conosciuto intellettuali di sinistra che andavano pazzi, ma solo in privato, per i maestri della rivoluzione conservatrice tedesca, da Jünger a Schmitt, per non parlare di Guénon o di Evola, il fascistissimo Evola. Ma guai a dirlo in pubblico, guai a rivelare apertamente tali simpatie: hanno una reputazione da difendere, loro! Oppure, se ritengono che certi autori siano difendibili, li difendono sino all’ultima granata, peraltro ricorrendo ad argomentazioni improprie. Contiguo al fascismo, Jünger? Ma se i nazisti gli hanno ammazzato un figlio! E lo dicono con voce fessa, quasi con le lacrime agli occhi. Come se il fatto di avere un figlio ammazzato dai nazisti fosse di per sé un attestato di antinazismo. Nietzsche, pensatore di destra? Macché : tutte fandonie inventate dalla perfida sorella Elisabeth, lei sì nazista! E via di questo passo: hanno la coda di paglia lunga un chilometro, ed è per questo che scattano con tale suscettibilità quando si toccano certi tasti. Avessero almeno qualche idea da far valere. Ma che dicono, in sostanza, Cacciari, Galimberti, Eco? Qualcuno lo ha capito?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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