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Omaggio alle chiese natie: intermezzo in v. Prefettura

Ma in via Prefettura non ci sono chiese, penserà il nostro lettore; e non ce ne sono mai state. E allora, che c’entra via Prefettura con le chiese di Udine? Calma, abbiamo premesso che questo è un intermezzo; ad ogni modo, quanto ad entrarci, c’entra. Ma andiamo per ordine. Chi imbocca la via della Prefettura arrivando da via Aquileia e da Pia Piave, per prima cosa oltrepassa, sull’angolo, l’imponente Palazzo del Governo, tipico edifico in stile liberty degli inizi del Novecento, realizzato fra il 1913 e il 1915 su progetto dell’ingegnere Oddone Tosolini (1867-1934). La via è lunga e piuttosto stretta; dopo aver superato l’angolo con via Marinelli, arrivati al numero civico10, sulla destra, si apre una piccola rientranza occupata da una corte, davanti alla quale sorge un altro edificio pubblico piuttosto imponente, a tre piani, con pianta a "U", che fa angolo con via Lovaria, progettato dalla stessa mano, e che in origine era la sede della Camera di Commercio (ma erroneamente attribuito, dal Dizionario Biografico dei Friulani, all’architetto Measso, mentre è sempre del Tosolini). Proprio di fronte, sulla sinistra, al numero 15, sorge il palazzo Spezzotti, progettato dall’architetto Antonio Measso, da Remanzacco (1886-1932), autore di molti altri edifici udinesi e friulani, come l’Asilo d’Infanzia di via Manzoni, e costruito nel 1910. Era stato voluto come sede degli industriali tessili Spezzotti, ma in seguito ha ospitato, nel corso degli anni, svariati uffici amministrativi. È un edificio molto bello, che richiama moduli del Quattrocento, sia nel prospetto, sia nelle decorazioni che, pur mantenendo una linea sobria, ingentiliscono l’insieme e gli danno una patina di raffinata eleganza. Notevoli i due balconcini al primo piano della facciata, a struttura trilobata; le cornici dei portoni e delle finestre; le balaustre e le cornici di gronda in pietra artificiale; i due riquadri delle sottofinestre al primo piano, a lato del balcone centrale, con i bassorilievi liberty di soggetto arabescato e floreale; ma soprattutto il bassorilievo posto a lato dell’ingresso di destra. Quest’ultimo è stato realizzato qualche anno dopo la facciata, negli anni ’20, ed è di forma rettangolare, alto complessivamente quasi un metro, incorniciato da una piccola mensola, due colonne e una architrave sormontata da un bassorilievo floreale, e raffigura, in moduli che ricordano i Della Robbia, la Madonna con il Bambino. È un’opera di squisita fattura, elegantissima, che unisce alla grazia e alla levità un impianto compositivo originale, perché la Madonna, che è sulla destra, non tiene in braccio il Bambino, ma lo guarda commossa e congiunge le mani in preghiera, mentre Gesù, sulla sinistra, sorridente e benedicente, è sorretto da un’altra figura femminile, molto giovanile, che lo tiene sulle ginocchia. Il panneggio della veste di Maria, il profilo purissimo del suo viso, la linea delle mani unite in preghiera, tutti questi particolari denotano una notevole bravura, e ci dispiace non sapere a chi attribuirli. Ad ogni modo, anche se il palazzo, o la casa, Spezzotti, non è citata sulla maggior parte delle guide turistiche, a noi pare che essa, nell’insieme, ma specialmente questi elementi decorativi, e più di tutti il bassorilievo con la Madonna e il Bambino, meriterebbero di essere conosciuti da tutta la cittadinanza e adeguatamente valorizzati; invece si tratta del classico caso in cui le persone se ne vanno per la loro strada, passano davanti a questa palazzina chissà quante volte, ci entrano, magari, perché dirette agli uffici che essa ospita – attualmente, una sezione della Polizia giudiziaria – senza aver mai degnato di uno sguardo un po’ attento queste cose belle.

La fretta e la distrazione ci spingono a ignorare i piccoli tesori che abbiamo, forse, sotto la porta di casa; nel nostro caso è certamente così, perché questa è la via dove siamo nati e vissuti da bambini, in una vecchia casa di quelle di un tempo, sprovviste di ascensore e quindi, alla fine, insostenibile per le persone anziane o con problemi di salute. Quante volte anche noi, da piccoli, siamo passati davanti a questo gioiello di scultura moderna che imita, con buon gusto e sobrietà, i grandi modelli rinascimentali, e offre una nota gentile in una via che di per sé è stretta, fitta di case addossate l’una all’altra, e quindi, a giudicare obiettivamente, non bellissima; eppure così cara al cuore di quanti hanno conosciuto la vecchia Udine, fino al giro di boa dei primi anni ’70, non ancora stravolta dalla marea del consumismo e della piena modernità (la data che segna la svolta definitiva è, naturalmente, il 1976, l’anno del terremoto), ancora ricca di cortili interni, ballatoi e balconi di legno, botteghe a conduzione familiare e osterie caratteristiche, con tanto di animali e uccelli impagliati (come nella vicina Aquila Nera, in via Manin), e soprattutto popolata da uomini e donne che parlavano immancabilmente in friulano, più che nel brutto dialetto udinese, varietà imbastardita del veneto, e che avevano addosso il profumo di una umanità autentica, molto caratteristica e senza alcunché di artefatto. Certo, son cose che fanno riflettere: una famiglia d’imprenditori, decisamente benestante, ma che ha fatto i soldi con i sacrifici e il sudore della fronte — perché i friulani avranno tanti limiti e difetti, ma di certo sono dei gran lavoratori – si fa costruire un bel palazzo nel centro della città, a due passi dal colle del Castello; si affida a un bravo architetto, senza badare a spese, uno dei migliori che ci siano in quel momento sulla piazza, il quale non tira su la solita costruzione moderna, e sia pure nell’immancabile stile floreale che imperversa ai primi del Novecento, ma imitando i grandi modelli della Firenze di Lorenzo il Magnifico e di Brunelleschi o di Leon Battista Alberti. Ed ecco che sulla facciata del palazzo, ad altezza d’uomo, in modo che possano goderne tutti quanti, questi imprenditori tessili, passata la tempesta della Grande guerra (che vede anche l’invasione e l’occupazione austro-ungarica, durata esattamente un anno), quasi per ringraziare Iddio della fine del flagello e del ritorno della pace, chiamano un bravissimo scultore a realizzare, in pietra, un quadro incantevole di Maria e Gesù Bambino, una scena talmente bella e dolce che non si può non restarne ammirati: altro che i ricchi di oggi, i quali non spendono un centesimo per la bellezza, e meno ancora per la spiritualità o la religione, a meno che si tratti di beni da godere in forma strettamente privata. Questo magnifico bassorilievo, invece, è offerto allo sguardo dell’intera cittadinanza: è gratis, e non richiede nemmeno la fatica di spingere un portone per ammirarlo, o di alzare lo sguardo: lo vedono tutti, anche senza volerlo, per il solo fatto di passare lungo questa strada. Questo è autentico senso della socialità, questo è il vero senso della comunità: una cosa di cui abbiamo smarrito perfino il ricordo, tutti presi nei meccanismi della vita frenetica e dell’individualismo narcisista. Perché se non ci sono più famiglie ricche che spendano il loro denaro anche per offrire qualcosa di bello allo sguardo di tutti, non ci sono nemmeno, dall’altra parte, delle persone capaci di fermarsi e di vedere realmente le cose belle, anziché limitarsi a guardarle: anche perché, ormai, tutti camminano con la testa bassa, e perfino se sono da soli, invece di guardar la strada, guardano il telefonino, dal quale non si separano mai, parlano con lui, smanettano con lui, sono incantati da lui.

Dicevamo che non è del tutto esatto che via della Prefettura non abbia niente a che fare con le chiese di Udine. Perché anche lei aveva la sua brava chiesa, un tempo — questa città era piena di chiese, come era piena di conventi e istituti religiosi, e come poi si è riempita di caserme; e adesso non sa più come gestire questo patrimonio immobiliare, sia quello sacro che quello profano, per mancanza di uomini e mezzi e per la caduta della tensione spirituale che teneva in vita la Chiesa e lo Stato — anche se certamente i suoi stessi abitanti odierni lo ignorano. Sull’angolo di via Prefettura e via Marinelli, infatti, insisteva il vecchio ospedale dei Padri Filippini, che avevano anche un oratorio, dedicato a San Filippo Neri, nonché una grande e bella chiesa settecentesca, questa però affacciata sulla via Vittorio Veneto, la chiesa di Santa Maria Maddalena, poi abbattuta, fra il 1921 e il 1926, per fare posto all’attuale palazzo delle Poste (mentre il vecchio, che aveva sede proprio di fronte, all’angolo di via Rauscedo, era allogato nella storica Casa della Contadinanza, la quale venne smontata e ricostruita sul piazzale del Castello). Tutto il complesso, già confiscato dagli eserciti di Napoleone nel 1797, poi restaurato con il ritorno degli Austriaci, venne confiscato definitivamente dal demanio italiano subito dopo il 1866, messo in vendita e demolito, nonostante la disperata resistenza di san Luigi Scrosoppi, allora rettore della chiesa di Santa Maria Maddalena, il quale fu costretto a "ritirarsi" presso le Suore della Provvidenza, le quali avevano e hanno sede nella via che attualmente porta il nome del santo. Ha scritto monsignor Guglielmo Biasutti nel libro Padre Luigi Scrosoppi (consultabile all’indirizzo http://users.libero.it/luigi.scrosoppi/filippino.htm):

Con una legge del 7 luglio 1866 vennero estese a tutto il Regno d’Italia le leggi già emanate negli Stati Sardi sulla soppressione delle corporazioni e congregazioni religiose e sulla « conversione » dei loro beni allo stato. Padre Luigi ricevette il primo avviso che anche la Congregazione filippina udinese cadeva sotto quella legge il 21 dicembre: un triste dono di Natale. (…)

A nulla riuscì il tentativo di far dichiarare esenti i filippini dalla legge di soppressione, tentativo compiuto dal Padre assieme coi prepositi degli Oratori di Chioggia, di Venezia e di Padova. Vane riuscirono le petizioni di ben sessantotto cittadini, nel maggio 1868, perché la Chiesa fosse ridata al culto, ed altre eguali di alcune dame udinesi del luglio successivo. Inutili le dichiarazioni di sacerdoti o laici che alcuni arredi sacri eran di proprietà privata, dichiarazioni fatte nella prima metà del 1868 per salvare qualcosa dalle grinfie del fisco. (…)

Il 7 luglio 1868 sui muri di Udine veniva affisso un "avviso d’asta" a forma di manifesto, nel quale si annunziava che il 13 del mese sarebbero stati messi al pubblico incanto arredi e mobili di chiese e conventi soppressi, tra i quali si comprendono gli altari, l’organo, le campane della ex chiesa dei filippini ed altri della stessa provenienza. Vane furono le proteste e le lettere di supplica di p. Luigi. (…)

Quel bravo e sant’uomo di mons. Giuseppe Vale, commentando l’intimazione di sfratto dei filippini dalla loro casa, lasciò scritto: «Bella legge! fatta da ladri, fatta per ladri ed eseguita da ladri!…»

Ed è giusto e doveroso ricordare queste cose, anche per riportare gli eventi del Risorgimento entro una cornice di maggior verità storica, dopo tanto sciupio di enfasi retorica e patriottica, quasi a voler mascherare la triste realtà di un moto "nazionale" pensato, voluto e realizzato senza la Chiesa e contro la Chiesa, cioè contro i sentimenti del novantanove per cento della popolazione italiana di allora. Si pensi che, mentre padre Scrosoppi tentava l’impossibile per salvare il convento, o almeno la chiesa di Santa Maria Maddalena, suo fratello Giovanni Battista, lui pure sacerdote, era cacciato per ragioni politiche dalla pieve arcipretale di Sacile e costretto a rifugiarsi presso di lui, in un pesantissimo clima di anticlericalismo, secondo la strategia dispiegata dalla massoneria. Comunque, tornado a noi, abbiamo chiarito che anche via della Prefettura aveva, in qualche modo, la sua brava chiesa, l’oratorio dei Filippini, che era parte integrante del complesso dell’ospedale e del convento, sorto inizialmente preso il palazzo dei nobili Colloredo, che più non esiste (mentre si è conservato un altro palazzo di questa famiglia, in via Marinoni); tant’è che anticamente la via della Prefettura si chiamava contrada dei Filippini, mentre via Vittorio Veneto era chiamata contrada di Santa Maria Maddalena (consultare il sito http://www.movio.beniculturali.it/asudine/monasterisoppressi/it). Ai nostri giorni in quel luogo c’è l’ingresso posteriore del vasto Palazzo delle Poste; ma è difficile immaginarsi con precisione quale aspetto dovesse avere questa parte della città nel 1662, quando i Padri Filippini acquistarono, per trasformarlo in convento, il palazzo dei Colloredo: basti dire che l’area dell’attuale Giardino Ricasoli, che giunge fino ad affacciarsi sulla roggia di via Piave, cioè dove un tempo correvano le mura cittadine della terza cerchia, faceva parte dell’orto che i padri coltivavano con viti, alberi da frutto, erbaggi e rose damaschine (una varietà di rose bianche, molto profumate), secondo l’uso di allora degli ordini monastici.

Oltre a questo, possiamo testimoniare che in questa via esisteva, sino alla fine degli anni ’60 del Novecento, una chiesa aperta e officiata, solo che non era una chiesa cattolica, ma evangelica (che attualmente ha sede in viale Palmanova). È strano pensare a quanti mutamenti si succedono, non solo in una nazione o in una città, ma anche solo in una via, nell’arco di appena cinquant’anni: è come se fossero passati due o tre secoli. Per fortuna è sempre lì il bel Palazzo Contarini, all’angolo di via Manin, che nessuno si sognava di chiamare così, ma semplicemente il Palazzo d’Oro; mentre un intero blocco di vecchie case all’angolo di via Lovaria è stato abbattuto, ormai da molti anni, per far posto a uno dei tanti orrori architettonici della modernità, una filiale della Banca Unicredit. Anche per noi, che abitavamo proprio di fronte, era solo il Palazzo d’Oro, e ci sembrava veramente il massimo dell’eleganza architettonica. Certo, per un bambino il mondo è un luogo incantato, e lo è anche la città dov’è nato e ha imparato a giocare. Ma l’incanto maggiore è quello che lascia il segno senza averne l’aria, senza quasi essere percepito: come la Madonna col Bambino di casa Spezzotti…

Fonte dell'immagine in evidenza:

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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