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11 Ottobre 2018Santa Lucia? Dove si trova una chiesa di Santa Lucia? No, mi dispiace, non ne ho davvero alcuna idea; non ne ho mai inteso parlare… Questo, nove su dieci, vi risponderanno se chiederete ai passanti, nel centro di Udine, dove si trovi la chiesa di Santa Lucia: mai sentita. Eppure la chiesa di Santa Lucia esiste, eccome, ed è proprio lì, sotto gli occhi di tutti, in posizione centrale: sull’angolo tra via Mazzini, che ospita una casa trecentesca, considerata la più antica di tutta Udine, e via Mantica, la quale un tempo si chiamava, guarda un po’, borgo di Santa Lucia: borc di Sante Luzzie. Sissignori, la chiesa è proprio quella: se osservate l’esterno con un po’ di attenzione, potrete intuire facilmente che essa è, o meglio era, una chiesa. Certo, è sconsacrata da tantissimo tempo, e ora l’interno offre ospitalità alla Facoltà di Lettere e ad una formidabile biblioteca universitaria, che contiene qualcosa come 300.000 volumi, tutti relativi all’ambito umanistico, a disposizione non solo degli studenti dell’ateneo ma di chiunque ne faccia richiesta. Il fatto di vivere tutti protesi verso il solo presente, o addirittura il solo futuro, fa sì che ci scordiamo completamente del passato, al punto che non abbiamo più occhi per vedere, ma solo per guardare. Se no, passando infinte volte, a piedi o con qualsiasi altro mezzo, davanti a questi muri, non avremmo potuto lasciarci sfuggire che questa è una chiesa; né avremmo potuto ignorare il suggerimento dato dal vecchio nome di via Mantica, con quella allusione a Santa Lucia.
Ecco cosa scrive Maurizio Buora nella sua Guida di Udine. Arte e storia tra vie e piazze (Trieste, Edizioni LINT, 1986, pp. 327-328):
All’angolo di via Mantica si trova la ex chiesa di Santa Lucia che ha dato il nome a tutto il borgo. La semplice facciata cinquecentesca (iscrizione e data 1540) con interventi successivi (sec. XIX?); sugli stipiti del portale tondi con S. Nicolò a sinistra e Sant’Antonio di Padova a destra.
Il primo edificio di culto fu costruito nel 1358 e aveva un’annessa confraternita. Dal 1381 si trasferirono qui i frati Eremitani già a Mereto di Capitolo e costruirono l’attiguo convento, che occuparono fino alla soppressione dell’ordine, nel 1772; in seguito vi abitarono le Clarisse di San Nicolò fino al 1805, quando il complesso ebbe destinazione militare. La chiesa conteneva importanti opere di A. Carneo (ora a Besnate, Varese) e di Bernardino Blaceo (ora nel Museo civico di Padova). Per circa un secolo, dal 1866, esso ospitò poi l’Intendenza di finanza, il cui nome è rimasto al locale antistante. Il convento è stato sottoposto tra 1968 e 1976 a radicali restauri (architetto G. Avon) che hanno permesso di recuperare l’antico chiostro. Oggi qui si trovano varie aule universitarie, la Facoltà di Lettere e, ai piani superiori, la Biblioteca universitaria.
Al n. 2, di fronte, casa con stemma, dei Brazzoni. Le case, ora distinte nei numeri 4 e 6, erano l’antica sede della Confraternita di S. Lucia, rinnovata nel 1474 e dell’Ospedale dei pellegrini, con facciata affrescata da G. B. Grassi (1567). Gli affreschi erano in parte visibili nel secolo scorso e il Cavalcaselle ce ne lasciò uno schizzo e una pregevole descrizione nel 1876.
Sulla base di questa si arguisce che nella casa al n. 6 (quella vicina al n. 4 è stata trasformata di recente con conseguente perdita totale degli affreschi) doveva esserci in alto a sinistra un putto che scostava una tenda e, sotto, una "Madonna con Bambino" con alla base del trono la data 1567 entro ovale. Tra le finestre in alto "S. Lucia si rifiuta di sacrificare agli idoli". Sotto, a sinistra, "S. Lucia" con la palma del martirio entro finta nicchia e a destra il "Martirio della santa", con un soldato che immerge il pugnale nel petto. Del tutto perdute anche le cornici con testine entro tralci. In una stanza del primo piano si scoprì nel 1876 , quando l’edificio fu trasformato in abitazione privata, un affresco con il "Crocifisso tra la Madonna e S. Giovanni Evangelista" attribuito allo stesso Grassi.
E dunque, la chiesa di Santa Lucia c’è; non solo: è una delle più antiche di Udine, risalente al 1300; l’impianto attuale è del 1500, ma con rifacimenti successivi; era sede di una importante confraternita e di un convento di monache, il cui chiostro è tuttora esistente, avendo superato indenne tutta una serie di vicissitudini, l’occupazione francese al tempo di Napoleone, le relative soppressioni, poi il dominio austriaco e di nuovo le soppressioni del Regno d’Italia. Da parte nostra, confessiamo senz’altro di esserci passati davanti, da bambini, chissà quante volte, senza mai degnare di un pensiero quell’edificio all’angolo fra via Mazzini e via Mantica; di non averlo anzi mai riconosciuto come un edificio religioso, e sia pure come un ex chiesa; anche se la parte superiore, con il finestrone semicircolare, aveva in effetti qualcosa d’insolito: ma non essendovi traccia né di una croce, né di un campanile, e non distinguendosi la facciata dagli edifici adiacenti, come sospettare che quella costruzione, un tempo, era stata una chiesa, una delle più importanti della città? Proprio come la vecchia chiesa del Cristo, in largo Ospedale Vecchio, situata proprio di fronte alla scuola che frequentavamo, e che perciò vedevano tutti i giorni: come immaginare che quell’antico edificio era stato una chiesa? Sono situazioni che possono capitare solo a un cittadino italiano: perché le città italiane sono talmente ricche di chiese ed ex chiese, di conventi ed ex conventi, di chiostri ed ex chiostri, che nessun cittadino francese, o tedesco, russo, o — tanto meno – americano, potrebbe anche solo immaginare: in quei Paesi, infatti, gli edifici religiosi, se antichi, e in generale gli edifici di rilevanza storica, destano subito l’attenzione, proprio perché ce ne sono molti, ma molti di meno.
È bello pensare che questo vetusto edificio non solo è sfuggito alla demolizione, ma seguita a rendere un nobile servizio alla comunità, offrendo il suo spazio all’università e alla biblioteca, cioè continuando a svolgere quella funzione culturale che la Chiesa cattolica ha degnamente assolto per secoli e secoli, facendo dell’Italia quello che essa è: un Paese dove la cultura, il sapere, l’arte e la bellezza sono il pane quotidiano, e che da tutti i luoghi del mondo vengono ad ammirare. La cultura anticlericale di stampo massonico, la quale, da sempre, dipinge la Chiesa come nemica della cultura, e l’accusa di aver ritardato di chissà quanti secoli l’evoluzione morale e civile degli italiani — una accusa che, non a caso, è stata ripresa e fatta sua dal massone cardinale Martini, arcivescovo di Milano, il quale soleva dire che la Chiesa, dopo il Concilio, doveva recuperare due secoli almeno di ritardo — è semplicemente destituita di fondamento: la verità è press’a poco il contrario. Che cosa sarebbe stata la cultura italiana, che cosa la coscienza civile degli italiani, senza la Chiesa? Essa ha avuto il duplice merito di salvare il patrimonio della cultura greco-latina e di far suo e tramandare il diritto romano: dall’alto di questi due bastioni, essa ha ricostruito la cultura e la stessa società civile che, dopo le invasioni barbariche e il crollo di qualunque autorità civile, si stavano letteralmente polverizzando. Perciò la smettano, i signori dell’anticlericalismo di professione, di sbandierare il logoro vessillo di Galilei e di denunciare l’abominio del suo processo: primo, perché Galilei non fu affatto ciò che essi vogliono far di lui, un campione del libero pensiero; secondo, perché il processo e la condanna di Galilei non si spiegano, se non si tiene conto anche della debolezza scientifica delle sue affermazioni, in quanto sprovviste di alcuna prova a sostegno del sistema copernicano, e non condivise dalla maggioranza degli scienziati del tempo, compresi quelli laici; terzo, perché se l’Italia e l’Europa hanno avuto un Galilei, se hanno avuto degli uomini di cultura capaci di condurre le loro ricerche con un senso di autonomia rispetto alla religione, ciò si deve proprio alla Chiesa, la quale non ha mai insegnato o predicato la mortificazione della ragione, ma anzi, specie ad opera dei suoi esponenti più colti e prestigiosi, come san Tommaso d’Aquino, la necessaria autonomia della ragione dalla fede, pur nei limiti che le sono propri: autonomia che altre culture, come quella islamica, non hanno invece mai raggiunto, e proprio per la gelosa e oppressiva sorveglianza esercitata dai teologi sull’insieme della vita intellettuale e civile.
Al tempo stesso, si resta ammirati e sbalorditi dalla straordinaria continuità culturale e spirituale, ma anche funzionale e civile, fra il passato e il presente, fra la tradizione e il progresso; e che frutti tanto maggiori potrebbe dare, se fosse assunta dalla volontà mediante un atto consapevole, e non semplicemente registrata con un atto quasi passivo della percezione. Che cosa abbiamo qui, di fronte a questo straordinario edificio del passato, dove generazioni di nostri antenati si recavano a pregare e a cercare Dio, e dove oggi una generazione di giovani cerca il sapere per mezzo dei libri e dello studio? Abbiamo una perennità di forze intellettuali e morali che sfida i secoli, persino i millenni; abbiamo lo stesso popolo che, a distanza di venti o trenta generazioni, lotta e si affatica per tenere accesa la fiammella dell’intelligenza e quella della spiritualità. È una cosa relativamente rara nel resto d’Europa, e addirittura impensabile negli Stati Uniti, nel Canada o in Australia: questi continenti e Paesi non erano ancora stati scoperti dagli europei, quando già la Confraternita di Santa Lucia stringeva in un legame solidaristico, fatto di impegno lavorativo e di afflato mistico, gli abitanti del borgo che oggi si chiama via Mantica. Cambiano i nomi, cambiano le destinazioni d’uso, ma le vie sono le stesse, le opere sono le stesse, gli edifici sono in gran parte gli stessi: trasportando avanti di mezzo millennio e oltre un udinese del tempo in cui la chiesa di Santa Lucia veniva ristrutturata in forme rinascimentali, potrebbe ancora riconoscere, oggi, in qualche modo, lo stesso edificio; così come le suore Clarisse, trasportate al presente, proverebbero emozione e nostalgia nel vedere il chiostro del loro convento ancora in piedi, col prato verde al centro e la fuga delle colonne intorno al porticato, e scorgendo, al di là delle finestre, i tavoli della biblioteca sui quali studiano le ragazze e i ragazzi della nostra generazione. Chi, in Europa e nel mondo, può vantare una simile continuità, una simile armonia nella successione delle epoche e delle forme sociali; quale popolo potrebbe dire la stessa cosa di se stesso, tranne, forse, quello cinese? Questa semplice constatazione dovrebbe bastare e avanzare per farci persuasi che il programma della civiltà moderna, basato sul radicale superamento, sul distacco clamoroso e quasi sulla sfida del nuovo rispetto all’antico, è semplicemente privo di senso. È come se l’abitante di un magnifico palazzo, un bel giorno, decidesse di vendere a prezzi ridicoli, e perfino di regalare, ma non per generosità, bensì per disprezzo, il suo patrimonio di opere, arredi, decorazioni: i quadri bellissimi, gli stucchi raffinati, l’argenteria preziosa, i gioielli di famiglia, i tappeti lavorati a mano, solo perché non vuol più saperne dei suoi genitori, dei suoi nonni, del suo casato, ma vuole ripartire da zero e fabbricarsi delle condizioni di esistenza completamente nuove. Non sarebbe solo ingratitudine e incoscienza: sarebbe anche e soprattutto stupidità.
I gioielli di famiglia e gli arredi preziosi del nostro palazzo, che sono l’eredità dei nostri padri, si chiamano essenzialmente cultura cristiana e spiritualità cristiana. Un cittadino del terzo millennio può non credere in Dio e può non sentire alcun legame personale con la Chiesa, tuttavia non può non riconoscere l’immenso debito che la nostra civiltà ha contratto nei confronti del cristianesimo. Il solo atteggiamento onesto e ragionevole che noi possiamo assumere verso il nostro passato e la nostra tradizione è quello di una attenzione e di una consapevolezza piene di rispetto, se non di affetto: qualunque altro popolo sarebbe fiero di avere, alle spalle, una storia così gloriosa, illuminata da tanti nomi di uomini e donne eccezionali, da sant’Agostino a san Tommaso, da san Benedetto a san Francesco, da Dante a Giotto, da Wiligelmo ad Arnolfo di Cambio, da Benedetto Antelami al Beato Angelico, da Monteverdi a Frescobaldi, da Michelangelo a Bernini. Quale barbaro, quale analfabeta non si sentirebbe gonfiare il cuore di fierezza, al pensiero che la sua civiltà affonda le radici in ciò che tali uomini hanno creato nel campo dell’arte, della musica, della poesia, del pensiero, della mistica? Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, la riflessione che si può fare è suppergiù la stessa, ma in termini, se possibile, ancora più netti ed imperiosi. La Chiesa cattolica ha tenuto alto, per secoli e secoli, il faro della civiltà, dell’intelligenza, della bellezza, ma anche dell’ascesi, della fede, del soprannaturale; ha insegnato la dolcezza del sentimento filiale verso Dio, la pace del perdono, la nobiltà del sacrificio; ha mostrato il fine dell’esistenza nella vita buona, nelle opere oltre che nella fede, e ha insegnato a milioni di uomini per quali vie si può fare in modo di sublimare i propri impulsi inferiori e di far volare l’anima verso l’alto, verso il Principio, disprezzando le facili conquiste della sfera carnale, il danno provocato dagli appetiti disordinati, le sterili contrapposizioni che sorgono dall’affermazione unilaterale del proprio io. In altre parole, la civiltà cristiana ha insegnato agli uomini a dire tu, e soprattutto a dire Tu; a piantare alberi per il bene delle generazioni future; a cercare i tesori che nessun ladro può rubare e nessun falsario può contraffare. Vogliamo forse gettare nel cestino dei rifiuti questi tesori tanto rari, preziosi e benefici?