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Benito Cereno, apologo razzista o abolizionista?

Quando apparve a puntate, nel 1855, sul Puntam’s Montly Magazine, il romanzo breve Benito Cereno fu unanimemente accolto dalla critica come una delle cose migliori di Herman Melville, giudizio recentemente ripreso dal critico Andrew Delbanco, che lo giudica l’opera più significativa del suo autore; mentre quello che noi riteniamo il suo capolavoro, Moby Dick, pubblicato quattro anni prima, era passato quasi inosservato e ne erano state vendute solo poche migliaia di copie; solo negli anni ’20 del Novecento sarebbe stato "riscoperto", cioè a distanza di tre generazioni, un po’ come le opere di Bach vennero riscoperte solo da Mendelssohn, dopo un tempo circa altrettanto lungo da che erano cadute nell’oblio. Ma la discussione sul valore reciproco dei due romanzi ci porterebbe lontano, e non intendiamo qui sollevarla; ci basta evidenziare che i critici non ebbero alcun dubbio nel vedere in Benito Cereno la trattazione dello stesso tema che è al centro di Moby Dick: il mistero del male, dal quale l’autore, come del resto il suo amico Nathaniel Hawthorne, era, in certo qual senso, ossessionato (il che, sia detto fra parentesi, lo accomuna al nostro Manzoni, che è certamente lo scrittore italiano che più gli somiglia per la predominanza quasi assoluta di questa tematica su tutte le altre). Non solo: i critici, e anche i lettori, quando l’opera apparve, non esitarono a vedere nella figura del negro Babo la quintessenza del male, un po’ come lo è il diabolico consigliere Jago nell’Otello di Shakespeare, e come lo sarà la figura del perfido faccendiere Barkilphedro nel romanzo di Victor Hugo L’uomo che ride, che sarebbe apparsa tre lustri più tardi, nel 1869. Anche Babo, infatti, che si finge devotissimo servitore del capitano spagnolo don Benito Cereno, è, invece, il principale regista della infernale cospirazione con la quale gli schiavi si sono impadroniti della nave San Dominick che li stava trasportando e hanno ucciso tutti gli ufficiali, e ora simulano obbedienza al capitano, da loro risparmiato, per ingannare l’americano Amasa Delano, che sale a bordo per prestare soccorso al vascello in difficoltà.

Poi, però, nel corso del XX secolo, questa interpretazione è apparsa troppo semplice, troppo banale e, quel che è peggio, troppo insensibile dal punto di vista umano e politico, visto che si tratta pur sempre di una storia di schiavi negri, e, per giunta, di schiavi che si ribellano sanguinosamente ai loro padroni bianchi. Perciò i critici che si sono confrontati con questo romanzo breve a partire dalla seconda metà del Novecento, hanno posto sul tappeto una questione che a loro pareva decisiva, e che invece, chissà come, i loro colleghi delle generazioni precedenti avevano del tutto trascurato: l’ideologia di Melville risguardo al problema della schiavitù, e, più in generale, della questione razziale (ricordiamo che la schiavitù dei negri venne abolita in tutti gli Stati Uniti solo il 18 dicembre 1865, cioè parecchi mesi dopo il termine della guerra civile). L’ultima lettura in chiave non "politica" di Benito Cereno è del 1947: Rosalie Feltenstein sostiene che in questo romanzo Melville ha voluto scandagliare gli abissi del male che si aprono nell’anima umana, e anche la sua natura terribilmente ambigua, per cui non è sempre facile riconoscerlo come tale. Gli schiavi, certo, sono degli oppressi, le vittime di un infame commercio di carne umana; nondimeno, la loro rivolta sanguinosa, la loro efferata crudeltà nei confronti dei bianchi sopravvissuti e, più ancora, la loro diabolica dissimulazione agli occhi del capitano Delano, rivela una sorta di compiacimento nella malvagità, quasi un voler giocare al gatto col topo, una raffinatezza da commedianti satanici, una scaltrezza di assassini pronti a colpire, ma col sorriso sulle labbra, e, specialmente nella figura di Babo, una così atroce perversione dell’intelligenza, che il lettore rimane perplesso e, come di fronte a certi personaggi e a certe situazioni di Dostoevskij, pensoso e sconcertato, sin quasi a toccare con mano il grande mysterium iniquitatis: grande, abissale, proprio perché tremendamente ambiguo. Il lettore, infatti, si rende conto che il male si annida in ogni uomo e che l’essere vittime di ingiustizie e sofferenze non è un passaporto per il bene, ma al contrario, può rivelarsi la condizione per liberare le potenzialità malvagie che giacevano addormentate in fondo al cuore.

Ma ecco che, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, guerra ideologica senza quartiere assai più della prima, una nuova generazione di critici, imbevuti di "impegno" politico e sociale, non può esimersi dal sottoporre anche questo capolavoro della letteratura americana alla lente d’ingrandimento del progressismo. Che cosa ha voluto dire, realmente, Herman Melville, con questo romanzo breve? Semplicemente che il male è un mistero, e che esso può germogliare anche in un animo buono, o, comunque, innocente? Ciò sarebbe banale. Non hanno forse insegnato, i maestri del sospetto, che le persone tacciono proprio su ciò che vorrebbero dire? Che, per sapere cosa pensa realmente qualcuno, bisogna indagare o le cose che non ha detto, oppure leggere a rovescio quelle che ha detto? E, se ha detto bene di qualcuno, la verità è che ne pensa male, e ciò non per ipocrisia, quanto per placare e prevenire i suoi stessi sensi di colpa: ha espresso un pensiero opposti ai suoi veri sentimenti, sotto la severa censura del Super-io. E dunque: come è possibile che non ci sia, in un’opera letteraria che parla degli schiavi negri, una recondita, ma chiara presa di posizione rispetto al problema razziale? E questo ragionamento diveniva tanto più diffuso, e tanto più naturale, quasi ovvio, mano a mano che la questione razziale esplodeva negli Stati Uniti, e dopo Kennedy e Martin Luther King, dopo le Pantere Mere e Malcolm X, diveniva impossibile ignorarlo, e ancor più impossibile diventava assumere verso di esso un atteggiamento di neutralità, di disimpegno. La generale tendenza realista in letteratura (che in Italia prende il nome di neorealismo, ma che ha il suo equivalente in tutti i Paesi usciti sconvolti dall’esperienza della guerra e alle prese con la guerra fredda e con la ristrutturazione capitalistica del mondo occidentale) si sposa con questa nuova "esigenza" d’impegno politico, ovviamente in senso progressista. Nasce il mito, o meglio si rafforza (era nato con l’illuminismo, se non prima ancora) che un critico, e più in generale un vero intellettuale, non può essere che un progressista; e che il suo dovere professionale e morale è guidare la società a prendere coscienza dei problemi sociali per costruire un mondo migliore; cosa che gli intellettuali conservatori, se pure ve ne sono, non hanno mai fatto e mai faranno, poiché ad essi il mondo va bene così, anzi, per i loro gusti è fin troppo emancipato, e sarebbe auspicabile che si rimangiasse alcuni elementi della recente emancipazione.

Nel caso degli Stati Uniti della seconda metà del Novecento, questa tendenza generale si innesta su un terreno socio-culturale specifico, che ha sì, dei corrispettivi in Europa, ma nell’Europa di cinquanta o cento anni prima, e specialmente nella Francia della Terza Repubblica: il contrasto, cioè, radicale, insanabile, fra una campagna "profonda", tradizionale, conservatrice, diffidente verso le novità del mondo moderno, e una costa progredita e aperta – entrambe le coste, prima quella dell’Atlantico e poi, negli ultimi decenni del secolo, anche quella del Pacifico, coi due poli di New York e di San Francisco, questa poi surclassata anche culturalmente da Los Angeles. Gli intellettuali e i critici letterari, d’arte e cinematografici, sono espressione della middle class della costa: sono progressisti, liberali, tolleranti, dialoganti, bene intenzionati, e hanno cento altre qualità che il buon Dio, rimasto a corto di esse, non ha potuto dispensare con pari generosità ai conservatori, o per meglio dire non le ha dispensate affatto. A New York, inoltre, ma anche sulla West Coast, e precisamente a Hollywood, è divenuta fortissima la componente di origine ebraica, rafforzata sia numericamente che ideologicamente dal dramma della persecuzione nazista, in una misura che non si era mai verificata prima: se si confronta la società americana del primo dopoguerra con quella del secondo, appare evidente che questa componente ha fatto dei progressi enormi, non solo nella finanza e nell’economia, ma soprattutto nell’industria culturale. E non adoperiamo a caso la parola industria: Hollywood, per esempio, è la fabbrica dei sogni; e chi controlla i sogni della gente, controlla la cosa essenziale di una società, specie di una società consumista. Il film Exodus, tratto dal romanzo di Leon Uris, ha avuto un impatto più grande, con gli occhi azzurri del biondo Paul Newman, per la causa dello stato d’Israele, di quanta ne ebbe a suo tempo La capanna dello zio Tom per la causa abolizionista. E se nel 1945 Arthur Miller poteva ancora scrivere un romanzo, Focus, per denunciare la sottile discriminazione antisemita vigente negli Stati Uniti (un cittadino americano stenta a trovare lavoro solo perché il suo aspetto e i suoi occhiali lo fanno somigliare casualmente a un ebreo), già pochi anni dopo questo tema sarebbe parso incongruo, dato che la questione degli ebrei americani si poneva in tutt’altri termini da quelli descritti da Miller. Dunque, per tornare al nostro assunto, ai critici progressisti pareva inverosimile che un gigante come Melville si fosse dato la pena di prender la penna e scrivere un’opera — sia pur ispirata a un fatto vero, accaduto nel 1799 – che ha per protagonisti degli schiavi in rivolta, e non ne avesse fatto per ciò stesso un romanzo ideologico, spendendosi a favore della causa abolizionista. Ed ecco che Lea Newman, nel 1986, si prodiga a spiegare che Benito Cereno è un’opera non solo intenzionalmente antischiavista e abolizionista, ma anche antirazzista.

Resta però uno sgradevole particolare: che il mite e bonario capitano Amasa Delano, allorché si rende conto di come stanno le cose, per liberare don Benito Cereno e i suoi uomini, non esita a dispiegare il massimo della violenza fisica: l’immagine della testa di Babo mozzata e infissa su un arpione resta potentemente impressa nell’animo del lettore. Vi è un ritorno all’ordine sociale costituito, dunque, che passa per la durissima punizione degli schiavi ribelli, e che le loro precedenti atrocità sembrano giustificare anche dal punto di vista morale: e allora, come la mettiamo? Melville ha espresso una posizione di tipo abolizionista, oppure, al contrario, razzista? Certo, è difficile accusare, o anche solo sospettare, Melville di razzismo. Fin dai suoi primi romanzi, come Taipee e Omoo, egli presenta l’incanto della società polinesiana e quasi una riedizione del buon selvaggio; anche se non nasconde al lettore che il buon selvaggio delle isole Marchesi ha la poco piacevole abitudine di uccidere e mettere in pentola i marinai di passaggio. In Moby Dick, la figura di maggiore spicco, dopo il capitano Achab e dopo Ismaele, che è poco più di un semplice testimone, è quella di Queequeg, il ramponiere polinesiano: solenne, taciturno, leale e coraggioso. È possibile che uno scrittore del livello di Melville possa ammirare i polinesiani e disprezzare, o sottostimare, i negri dell’Africa? Ecco, questo è precisamente il punto debole del ragionamento dei critici progressisti. Imbevuti di cosmopolitismo libresco e di filantropismo alla Rousseau, essi danno semplicemente per scontato che essere alieni dal giudicare gli uomini in base al colore della pelle sia la stessa cosa che rifiutare, per principio, qualsiasi confronto di civiltà. Se ogni uomo è uguale a qualsiasi altro uomo, allora non c’è alcuna differenza fra un bianco, un polinesiano e un africano. Ma qui sta l’errore. Una cosa è l’uguaglianza morale e la dignità dovuta a ciascun essere umano, specialmente per un europeo cresciuto nella cultura cristiana; e un’altra cosa, ben diversa, è trarne la deduzione che tutte le razze sono uguali, o addirittura che le razze non esistono, sono solo il frutto di biechi pregiudizi. Questo è un cattivo ragionamento, perché la conclusione è maggiore della premessa. In realtà le differenze di civiltà esistono, eccome; e bisogna essere ciechi o ipocriti per sostenere il contrario. Per restare nell’ambito del Pacifico, Jack London parla con estremo disprezzo dei melanesiani, tanto quanto Melville perla con ammirazione dei polinesiani: e la differenza di cultura c’è e si vede; tanto più si vedeva allora. Ma questa è una cosa che i progressisti non arrivano a capire: piuttosto che dare torto ai loro sacri principi (dell’89), preferiscono dare torto alla realtà. Un giudice italiano dei nostri giorni certamente condannerà un suo concittadino che si rifiuti di dare un appartamento in affitto a dei negri, ravvisando nel suo comportamento gli estremi del razzismo. E a nulla vale la pura e semplice esperienza di tanti cittadini italiani, proprietari di case, che hanno visto i loro immobili, magari acquistati con tanta lavoro e con tanti sacrifici, letteralmente devastati da inquilini di colore, che li hanno lasciati in condizioni peggiori che se fossero delle stalle. Queste son cose che sanno tutti, per esperienza diretta e quindi per la realtà dei fatti: ma sono in conflitto con i sacri principi egualitari e antirazzisti della cultura dominante, di cui la magistratura è la punta di diamante e il braccio armato, ed essa preferisce negare la realtà e condannare il malcapitato che ha osato dire a voce alta, o lasciar intendere, come la pensa su una tale faccenda. In nome di un principio astratto, che tutte le razze sono uguali, o meglio ancora che le razze umane non esistono, il proprietario deve lasciare che la sua casetta venga insozzata e resa inabitabile da inquilini incivili, e tener la bocca chiusa, facendo buon viso a cattivo gioco. Dopotutto, poteva andargli peggio: poteva anche beccarsi una querela per razzismo e vedersi condannato a pagare, lui, i danni alla parte "lesa", cioè al distruttore del suo immobile, sul quale continua a pagare fior di tasse, pur non potendolo più abitare. Perciò, tornando a Benito Cereno, noi non abbiamo la risposta in tasca; abbiamo però un sospetto: che Melville, come tutte le persone intelligenti e non accecate dall’ideologia, non abbia voluto scrivere un apologo abolizionista, ma solo (si fa per dire) misurarsi con il mistero del male…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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