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Omaggio alle chiese natie: S. Maria V. della Salute

La chiesa della Santa Maria Vergine della Salute, in Via Cormor Alto, non è antica, ma neppure recentissima: è stata consacrata il 5 novembre del 1914 e perciò ha da poco compiuto il secolo di vita; il 5 novembre 2015 il parroco, don Armando Basi, ha celebrato una speciale funzione per commemorare l’evento e per ricordare tutti coloro i quali, fin dall’epoca dell’arcivescovo Anastasio Rossi, si sono adoperati perché il quartiere del Cormor, sulla destra del Viale Venezia e non lontano dall’area del cimitero di viale Firenze, sorgesse una vera chiesa parrocchiale, in luogo della preesistente cappella ottocentesca, divenuta ormai insufficiente per i bisogni spirituali della accresciuta popolazione. Tutta l’area doveva aver un aspetto molto diverso da quello odierno, notevolmente abbellito dalla istituzione del Parco del Cormor, che sfiora quasi il centro cittadino e offre delle piacevolissime passeggiate lungo l’omonimo torrente, in una cornice ridente di verde campagna disseminata di pioppi, gelsi e altre essenze arboree. La chiesa odierna venne edificata con eccezionale celebrità, nell’arco di pochissimi mesi, mentre già sull’Europa si stavano addensando le ombre minacciose della Prima guerra mondiale.

Ecco cosa dice il sito www.chieseitaliane.chiesacattolica.it :

Nel 1874 don Carlo Antonini aprì una piccola cappella, dedicata alla Beata Vergine della Salute. La cappella è stata per molti anni il fulcro della comunità. Alcuni parrocchiani però sentivano la necessità di avere una chiesa; la posa della prima pietra è avvenuta il 12 aprile 1914 e fu terminata in soli cinque mesi. La chiesa fu consacrata il 5 novembre 1914 dall’arcivescovo Anastasio Rossi.

Edificio ad aula rettangolare, orientato nord-sud; il sedime frontale è al livello della strada, mentre un accentuato dislivello di quota corre lungo la fiancata occidentale, a cui si addossano i corpi della sacrestia, della casa canonica e attività parrocchiali su due piani. Il lungo corpo del presbiterio di volumetria inferiore si conclude ad abside semicircolare. La torre campanaria, autonoma, è a levante all’altezza dell’abside. Il prospetto, neoromanico, in mattoni rossi a vista con inserzioni sparse di conci lapidei, è impostate sull’alta fascia basamentale in cemento bianco, ed è decorato lungo le falde dall’ampio cornicione modanato con dentelli ed archetti pensili, che continuano perimetrali in sottogronda lungo tutto l’edificio; portale strombato con lunetta; rosone dalla cornice dentellata. L’interno, dal soffitto piano, è tripartito da due alte paraste dal capitello dorico, le angolari piegate a libro, con in ciascuna parte una finestra ad arco a tutto sesto; in mezzeria, contrapposte, le due nicchie a sesto ribassato dei confessionali lignei. Il presbiterio, rialzato di tre gradini, prospetta tramite l’arcosanto impostato su pilastri d’angolo dai capitelli corinzi; voltato a crociera dipinta, con due finestre termali contrapposte; abside concava, prospettante con arcone a tutto sesto speculare all’arcosanto. In controfacciata la cantoria con bussola vetrata, conclusa sul lato sinistro dalla nicchia del fonte battesimale, su quello destro dall’ingresso alla cantoria. La pavimentazione è in lastre quadrate di marmo – bianche e rosse- disposte a losanga e perimetrate da ampia fascia in marmo rosso.

L’edificio sacro, non grande, ma solido e ben proporzionato, col suo altrettanto robusta campanile, staccato dietro l’abside, sorge all’incrocio di via Cormor Alto e di via Cormor Basso, immersa nel verde, con una macchia di albero sullo sfondo e poche case attorno, perché tutto il quartiere è formato da abitazioni sparse, e dà l’impressione di essere già in campagna, ma essendo anche assai vasto, contiene una popolazione abbastanza numerosa, ed ecco spiegata la necessità di una nuova parrocchiale fin dai primi anni del XX secolo. Specialmente via Cormor Basso, che si allunga dritta subito oltre la chiesa, fiancheggiata da alti e folti pioppi, dà un’impressione decisamente rurale: non sembra affatto di essere a due passi dalla città e, in linea d’aria, a poche centinaia di metri da una strada statale molto trafficata, come il Viale Venezia, l’arteria che porta verso il piazzale XXVI Luglio, con il suo inconfondibile Palazzo Moretti in stile liberty e con il monumentale Tempio Ossario, e dal grande (e bruttissimo) monumento alla Resistenza progettato da Gino Valle, di cui, chi sa perché, le ultime amministrazioni comunali sembrano andare tanto fiere. Per quanto riguarda la chiesa di Santa Maria Vergine della salute, è un peccato che qualcuno abbia pensato di costruire i locali parrocchiali in aderenza alla facciata e al lato sinistro dell’edificio, sfruttando la pendenza del terreno per ritagliare addirittura un secondo piano sul primo: l’effetto è deplorevole, pare una costruzione provvisoria e posticcia, quasi da terremotati, che deturpa le semplici, ma decorose linee della chiesa in stile neogotico. Fatte le debite proporzioni, è come se avessero costruito un garage in aderenza alla Cappella degli Scrovegni, in tutta tranquillità, quasi che fosse la cosa più naturale del mondo: hanno perfino edificato perfino una piccola scala esterna in cemento, con tanto di doppia balaustra a superficie intera, che massacra inqualificabilmente la simmetria con la facciata della chiesa e la sua fascia di pietra bianca nella parte inferiore, a mo’ di basamento. Complimenti per il vandalismo architettonico: sarebbe stato difficile riuscire a far di meglio, cioè di peggio, con minore fatica e mancanza di fantasia.

Dicevamo dell’effetto scenografico suggestivo che si offre a chi, stando di fronte alla facciata, corre con lo sguardo giù per la via Cormor Basso, fra due quinte di alberi di diversa specie, betulle, cipressi, abeti, con la vista del torrente Cormor che scorre sotto alla strada, poche decine di metri oltre la chiesa, e si perde suggestivamente in mezzo al verde, pulito, tranquillo, come se non avesse fretta e non avesse deciso se fermarsi o proseguire. Questo, naturalmente, se non piove da un po’ di settimane, come capita soprattutto d’estate; perché, quando si gonfia d’acqua sotto la sferza delle piogge autunnali, o primaverili, e le nuvole basse chiudono il cielo, allora fa quasi paura, specie la sera, col buio, quando lo si sente spumeggiare sotto il viadotto e lo si intravede a fatica, sporgendosi dalla doppia ringhiera di ferro, più che altro se ne intuisce la corsa veloce e si può facilmente immaginare la forza che d’improvviso ne gonfia le sponde. Entrando nella chiesa, invece, si prova un senso di serenità e di pace: la lunga navata unica con gli alti finestroni, le semplici lesene, l’assenza di cappelle e di ornamenti di qualsiasi tipo, tranne i quadri della Via Crucis; il pavimento marmoreo a quadrati di due colori, disposti obliquamente: l’alto soffitto liscio e non affrescato: tutto corre verso l’arco trionfale e la bianchezza dell’abside; sarebbe difficile immaginare un edificio sacro più raccolto, più sobrio, più accogliente, pur spogliato di quasi tutto ciò che non è essenziale: vi è qualcosa di francescano in tanta umiltà e povertà. Tranne la pala dell’altar maggiore e le due pale laterali, su ciascun lato dell’arco trionfale, nessun dipinto, nessuna scultura, neppure di legno, né stucchi, né lampadari, né candelabri: solo due confessionali tradizionali, sulle due pareti laterali, e i banchi di legno, e due file di sedie addossate ai muri. Non c’è nulla che possa distrarre la mente, e su cui l’occhio possa indugiare ozioso: anche la cantoria della controfacciata è del tutto spoglia, come in perpetua attesa dell’organo che non vi è mai stato collocato; e, per la verità, non c’è neppure qualcosa che aiuti l’anima a rivolgere i pensieri verso Dio, a parte il silenzio e la spartana nudità dell’ambiente. Si potrebbe discutere all’infinto se il compito dell’arte sacra sia solamente quello di decorare gli ambienti sacri, realizzando lo sfondo per la celebrazione dei Misteri, o se non debba anche, in qualche maniera, aiutare l’anima a trovare, o ritrovare, il filo del dialogo con il Creatore, suggerendo, per mezzo delle forme sensibili, quella Bellezza invisibile che non ha bisogno della materia per invadere la mente ed il cuore del fedele e per trasportare tutti i suoi desideri verso l’alto, verso quel Dio che essa cerca e sospira. Un’arte sacra ridotta al minimo delle forme espressive è certamente utile per guidare un’anima forte verso il raccoglimento interiore; ma è pur vero che molte anime, o perché tiepide, o perché meno dotate di sensibilità e naturale capacità di ascolto della dimensione spirituale, hanno bisogno non solamente di segni esteriori e visibili, ma anche di una appropriata musica sacra, per trovare le condizioni adatte al colloquio con il divino. Possiamo dire, allora, che in questo angolo un po’ appartato della immediata periferia udinese, ci troviamo al punto d’intersezione di tre piani di realtà: quello della natura, che, lungo il corso del Cormor, porta il respiro delle Prealpi e poi corre fino al mare, alla laguna di Marano; quello della storia, che ci mostra come è nata e si è sviluppata una parrocchia dell’hinterland del capoluogo, diffondendo e tenendo viva quella cultura cattolica che è l’anima di questa terra e, più in generale, dell’intera civiltà europea; e quello dell’arte, della bellezza creata dall’uomo perché funga da ponte verso la realtà interiore, onde vivificare e risvegliare quei tesori di spiritualità che giacciono in quiescenza e che questo popolo laborioso, ma schivo, introverso, poco propenso ai gesti esteriori, non riuscirebbe forse ad esprimere, se non venisse preso per mano, guidato e accompagnato per mezzo di segni visibili e di manifestazioni concrete. Qui, in questo angolo fuori mano, fra l’acqua, il bosco, la strada e la chiesa, in uno stormir di fronde e un dolce profumo di terra bagnata, si può forse cogliere qualcosa del segreto dell’anima friulana, che non si lascia facilmente esaminare, perché piena di riservatezza e di pudore. Così la descrive un poeta friulano che fu anche un notevole critico letterario, Bindo Chiurlo (Cassacco, 13 ottobre 1886-Torino, 24 dicembre 1943), nel suo classico studio La letteratura ladina del Friuli (Udine, Libreria Carducci Editrice, 1922, pp. 9-12):

L’idealista puro è compreso, l’uomo fantastico, immoderato è scusato, ma né l’uno né l’altro sono ammirati in Friuli: "uomo ideale" è colui che si basa sulla realtà, che non si lascia andare ad esagerazioni, che non si perde in frasche: L’"omp pusitîv", l’uomo che quando ha dato una parola la mantiene, che presenta le cose onestamente, senza sottintesi, scherzi od inganni; l’"omp reâl", l’uomo che si presenta, e presenta la sua merce, com’è in realtà. "Realtà" insomma sempre e soprattutto; nell’interesse proprio e nell’interesse degli altri. Da ciò quel connubio, che può anche parer strano, di amore alla "pulchra utilitas" esaltata negli statuti pordenonesi, e di bella sincerità ed onestà: e, ancora, quella trascuranza delle ‘forme’, quel non curarsi delle apparenze, che è dato dalla certezza della sostanza; quella rudezza un po’ primitiva anche nelle persone più colte e d’ingegno, quella mancanza di "savoir fare", quella "gaucherie" fisica e morale, che rende in diversi ambienti antipatica o, peggio, sospetta, la sincerità friulana, sembrando essa, a genti più destre, in contrasto colla solidità, col buon senso, coll’equilibrio della psiche nostra. Che se talvolta, per bontà o per rispetto, il friulano s’induce a smussare gli angoli della sua franca parola, rimane tosto punito nel suo tentativo, ché il discorso gli esce di bocca ineguale, contraddittorio, o malamente imbellettato di dolcezza. E come difetta in Friuli l’uomo smarrito nelle regioni dell’impossibile, della passione inconsiderata, e, del pari, l’uomo leggero, agile, sapiente nelle cerimonie e nelle forme, così gl’ingegni son prevalentemente seri e sodi; penetranti, ma non vibranti e brillanti; fatti più per la scienza e per i negozi che per l’arte; e, nell’ambito dell’arte, più per le espressioni del proprio mondo psichico che per quello degli altri, che esige maggiore intuizione e più calda forza espansiva. La mentalità friulana è "schematica, sostanziale" (Costantini): le mancano le articolazioni, le fioriture; le manca la grazia e la leggerezza del concepire, che ride dalle "tavole" e dalle "carte" venete e fiorentine. E pure con tutto ciò, anzi appunto per ciò, il lettore mi crederà quando io dirò che il friulano è, in fondo, un sentimentale: l’onestà, la serietà, l’incapacità di sacrificare la sostanza alle apparenze non possono essere alimentate che da un’intima fonte, la quale è in lui celata, quasi pudibonda. Ha paura di sembrare "romantico", "sentimentale": sembra, in fondo, più di quel che non sia, un popolo "classico". Appunto per questo ama esplodere di tanto in tanto in grosse manifestazioni di giocondità, che solo un ingenuo potrebbe confondere  cola grassa vitalità bolognese,  colla fine festività veneziana,  o col’indole spensieratamente festaiola di altre regioni; là dove sono un modo violento di costringersi allo svago, di dimenticare per qualche ora la vita di ogni giorno, che, come abbiam detto, in Friuli un tempo non era lieta. Tipiche le "sagre", qui più fitte, vivaci, sentite che altrove, e con tanto fervore cantate dai nostri poeti: vere oasi di giocondità in mezzo a una vita seria e laboriosa (…). Così si spiega anche un altro fenomeno apparentemente strano: che il contadino friulano, fra i più parchi d’Italia, sia anche uno di quelli che consumano, o consumavano, più vino: nelle sagre appunto e nelle attese domeniche che dàn tregua all’assidua fatica.

Sì; tale è l’anima friulana: realista, eppure pensosa; pratica, ma non priva d’una battagliera dolcezza.

E chi crede d’averla capita, resta sorpreso: vi è qualcosa in lei di semplice, ma anche di elusivo, che si mostra e insieme si sottrae. Prima di lasciarsi vedere sino in fondo, mette alla prova chi la cerca…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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