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Omaggio alle chiese natie: Gesù Buon Pastore

Con la chiesa di Gesù Buon Pastore, in via Riccardo di Giusto, una traversa di sinistra di via Cividale, entriamo in un territorio dal quale avremmo preferito stare fuori. Prima di tutto, essa non dice nulla ai nostri ricordi, perché è stata costruita fra il 1989 e il 1995, dunque ben dopo che ce n’eravamo andati; in secondo luogo, perché è il classico esempio di una chiesa che non è una chiesa, anche se pretende di esserlo, e ben simboleggia lo sbandamento e l’accecamento di tanta parte del clero e dei fedeli negli ultimi decenni, del quale essi non sono affatto consapevoli, ritenendosi, anzi, più che mai all’avanguardia e più che mai sulla strada giusta: quella della piena attuazione, come dicono, del Concilio Vaticano II. Sfidiamo chiunque, avvicinandosi a questo edificio, a capire che si tratta di una chiesa, e soprattutto a sentire che è la casa del Signore: a qualsiasi cosa fa pensare, tranne che a un luogo sacro. Come se non bastasse, non si inserisce affatto nel contesto paesaggistico, perché Udine , grazie al cielo, non ha quelle terribili periferie industriali fatte di alti palazzoni e di simili orrori in cemento armato; inoltre lo spazio non manca, la campagna è tutto intorno, e quindi non c’è nulla, assolutamente nulla, che giustifichi il modernismo forsennato dell’edificio, e specialmente del campanile, con le sue linee da stadio sportivo o da fabbrica dell’era post-industriale, e l’esagerata, antiestetica verticalità dell’insieme. È solo e unicamente uno sfoggio di "audacia" architettonica, di cui nessuno sentiva il bisogno, né sul piano pratico e materiale, né, tanto meno, su quello spirituale, e che, con la tradizione religiosa cattolica, ci sta come i cavoli a merenda. Una chiesa dovrebbe sintetizzare i valori della società di cui è parte: non voler imporre agli uomini e al paesaggio una sua logica e una sua filosofia; se lo fa, è il segno di un’arroganza intellettuale e di un narcisismo senza limiti: quello, appunto, del progressismo e del neomodernismo venuti in auge nella Chiesa cattolica dopo il Concilio. In altre parole, un tradimento: sia nei confronti del Deposito della fede, per non parlare della liturgia e dell’arte sacra, sia nei confronti della stessa civiltà cristiana, i cui fondamenti sono incompatibili e inconciliabili con la modernità, mentre qui si vuole appunto celebrare il matrimonio fra le due civiltà, quella cattolica e quella moderna. Matrimonio impossibile, aberrante, repulsivo; matrimonio blasfemo e sconsacrato, perché la civiltà moderna è la negazione del Vangelo, e dunque chi vuol celebrare tali nozze o non ha capito nulla del mondo in cui viviamo o, peggio, è un apostata.

Pertanto non vorremo parlare della chiesa di Gesù Buon Pastore: la sentiamo con un corpo estraneo, oltretutto molto brutto; un qualcosa che non fa parte della nostra storia e della nostra tradizione. Pure, non ci si può soffermare solo sulle cose che piacciono: bisogna cercar di capire anche quelle che offendono i nostri sentimenti. E come il geologo, studiando lo strato roccioso di una faglia, può fasi un’idea della storia più remota di quel territorio, e se vi trova, ad esempio, fossili di conchiglie e di altri organismi marini, deve spiegare in che modo le montagne odierne erano, allora, un mare interno, una laguna tropicale, così colui che studia il paesaggio urbano degli ultimi cinquant’anni si trova di fronte ai mutamente sociali, culturali e morali, oltre che economici e politici, dei quali una brutta chiesa ultramoderna è, per esempio, l’equivalente di una conchiglia imprigionata in una roccia calcarea alpina, che oggi si trova a oltre mille metri d’altezza sopra il livello del mare. Piacciano o non piacciano, questi cambiamenti sociali e culturali ci sono stati; l’Italia di oggi non somiglia molto a quella di cinquant’anni fa, ma è con essa che ci dobbiamo confrontare, non con quella: e studiando il paesaggio, i monumenti, gli edifici e l’urbanistica, possiamo capire e rendere conto di quel che è successo, e perché. Evidentemente, negli anni ’90 del XX secolo un certo numero di intellettuali, di scrittori, di economisti, di politici, di amministratori e di urbanisti, nonché di teologi e di membri del clero, hanno deciso di accelerare il movimento in avanti, di forzare i tempi e di portare definitivamente il Paese nella più aggiornata versione del moderno, tagliando gli ultimi esili ponti che ancora lo tenevamo collegato al proprio passato e addirittura bruciandoseli dietro le spalle, in modo da rendere impossibile qualunque inversione di marcia, o anche una semplice correzione di rotta. L’idea che sta dietro un edificio sacro, che sacro non è, come la chiesa di Gesù Buon Pastore, è che non solo la mentalità religiosa deve perfettamente e definitivamente adeguarsi alla mentalità secolarizzata; ma che deve precederla, attuando una fuga in avanti, al fine di mostrarsi più moderna, più laica, più libera da "pregiudizi" di quanto lo sia la società profana. Pagando questo ticket, la Chiesa del post Concilio ha pensato di comprarsi il biglietto per entrare a pieno titolo, e non più in seconda fila, ma nel palco d’onore della modernità; non ha pensato, a quanto pare, che la forza morale è sempre in proporzione alla propria autonomia, alla propria identità e alla propria coerenza, e mai alla furberia delle strategie per contenere le perdite o per mascherare la resa dietro le apparenze di un’adesione volontaria. E questo è un errore che oggi sta pagando a carissimo prezzo, perché le furberie hanno le gambe corte e il respiro anche più corto, e la sfida col futuro non la vince chi bara al gioco, facendo propri stili e comportamenti che non appartengono alla sua tradizione, che non riflettono la sua essenza, solo per mimetizzarsi e farsi accettare, ma chi ha il coraggio di pagare il prezzo intero del biglietto, senza sconti, a costo di trovarsi del tutto emarginato.

Come dicevamo, via Riccardo di Giusto è una lunga via periferica che si diparte da via Cividale: tutt’intorno, se c’è una cosa che non manca, è lo spazio. Le case, piccole e basse, sono ben distanziate da orti e giardini; alcune sono addirittura vecchie case coloniche, coi muri in pietra viva; niente fabbriche, niente spazi ristetti e limitati, anzi, lo sguardo si apre sulla vasta pianura e l’ampia scenografia delle montagne vicine: nulla che giustifichi lo spettacolo, cui ci si trova di fronte all’improvviso, all’altezza di una piccola rotatoria stradale, di una grande chiesa bianca che pare uno stadio sportivo o un salone automobilistico ultramoderno, per non parlare del campanile, che fa venire in mente un enorme monolite alieno o forse una immane cappa fumaria di qualche mostruoso inceneritore, uscito dalla fantasia malata di uno scrittore di fantascienza, di Philip K. Dick o di Robert Henlein; impressione che la grande croce metallica che lo sormonta non riesce per nulla ad attenuare o a modificare, dato che essa è semplicemente giustapposta, ma in senso architettonico e materiale, senza che ciò crei affatto il senso della necessaria coerenza interna. E questa è la critica più grave, la più radicale che si possa muovere a un’opera d’arte o a un edificio di rilevanza artistica o spirituale: la mancanza di coerenza interna, vale a dire di stile. Lo stile è molto, ma molto di più della semplice forma, intesa come veste esteriore; al contrario, lo stile è l’anima di un’opera; se manca lo stile, ci troviamo in presenza di un’opera senz’anima, vale a dire di un’impostura. L’architetto Federico Marconi, autore del progetto e della sua realizzazione, non ce ne voglia: senza dubbio, egli non ha fatto che accontentare la committenza; e la Chiesa post-conciare, che ha rinunciato a essere se stessa, per piacere al mondo e farsi perdonare il fatto di esistere, e ritagliarsi ancora un po’ di presenza nella società, vuole appunto edifici di questo genere, per far vedere come sia capace di marciare al medesimo passo del mondo, senza inciampare, anzi, perfino anticipando le movenze di quest’ultimo: insomma, adottando ed accentuando il suo stile. Ma lo stile del mondo non può essere quello della Chiesa: se ciò avviene, significa che la Chiesa ha rinunciato ad essere se stessa, ha rinunciato a essere la Chiesa con la "c" maiuscola e si è adattata a essere una chiesa, una fra le tante, disposta a fare qualsiasi cosa per essere accettata, per essere tollerata, per non soffrire complessi d’inferiorità in un mondo che non sa più che farsene del suo messaggio, cioè del Vangelo. Una chiesa parallela alla vera Chiesa; una chiesa apostatica, fatta sulla misura del mondo, con gli stessi ingredienti di quel che piace al mondo. Dimenticando, come direbbe Petrarca, che quanto piace al mondo è breve sogno: oggi piace, domani non piacerà più e verrà messo da parte, dimenticato, rimosso. E questa era stata, fino al Concilio, la grande forza della Chiesa: quella d’infischiarsene di piacere al mondo, di fregarsene delle mode del mondo, ben sapendo che le mode passano, ma il Vangelo resta, perché solo il Vangelo di Gesù Cristo ha parole di vita eterna. Invece, col Concilio, lo storicismo è stato introdotto nella liturgia, nella pastorale, e da ultimo, ma un po’ alla volta, in dosi omeopatiche, anche nella dottrina: e una volta introdotto lo storicismo, la Chiesa ha cessato di essere se stessa, cioè una valida, autorevole e credibile alternativa al mondo. I neoteologi e i neopreti, ora, si riempiono la bocca blaterando di un Gesù più credibile, di un Vangelo più credibile di quelli del passato. Errore capitale: non più credibili, ma molto, molto meno; perché la credibilità di Gesù e del Vangelo non dipende certo dall’uniformarsi allo stile del mondo moderno e dall’adottare i riti e i miti del mondo moderno.

Poiché non riusciamo a cogliere quel che di buono può esserci in una chiesa come quella di Gesù Buon Pastore, lasciamo che il lettore se ne faccia un’idea attraverso la descrizione presente sul sito www.chieseitaliane.chiesactattolica.it:

Edifico ad aula rettangolare con partizione terminale smussata sul fianco destro, a tre asole verticali vetrate, orientato sud-nord parte del complesso che raggruppa sui lati nord-ovest le unità a destinazione abitativa e quelle pastorali disposte attorno al sagrato dal sedime rialzato rispetto al piano stradale con ampia gradinata di accesso sul lato orientale; la torre campanaria è di poco discosta a nord-est, a filo del prospetto principale; il battistero è unità situata nell’angolo di destra all’estremità della fiancata della chiesa. La sacrestia e l’impianto delle caldaie sono annessi a sud-ovest. Il prospetto dall’andamento trapezoidale con superficie in cemento rigato gettato in fasce orizzontali. L’ingresso è preceduto da un grande sporto in cemento armato sorretto da due setti trasversali cementizi con apertura laterale di collegamento; ampio portale centrale e due piccoli laterali. Al di sopra della pensilina una grande croce realizzata da piccole bucature quadrate vetrate. La fiancata sinistra rettangolare è scandita da alti segmenti verticali cementizi aggettanti, quali doghe che definiscono le interne partiture vetrate nella fascia superiore e le partiture murarie inferiori delimitate da corsi di piccole aperture vetrate; lungo la più bassa fiancata destra si addossa il lungo sporto vetrato della cappella feriale. Il vano interno ad aula, interamente di cromia chiara, è scandito da tre possenti quinte in cemento armato quali travature in tre settori a mo’ di arcata ripiegate che continuano l’andamento trapezoidale della facciata, impostate sugli alti pilastri che scandiscono la fiancata sinistra e i tre bassi pilastri lungo la fiancata sinistra dalla muratura piena. La intera fiancata sinistra è vetrata, interrotta in mezzeria dal percorso rialzato. Il soffitto è rivestito da fasce di pannelli rettangolari in cemento armato disposti ortogonalmente all’ingresso. L’area del presbiterio è sopraelevata e disposta su due livelli, il primo rialzato di cinque gradini nella cui ampia area sono l’altare e a sinistra l’ambone alquanto ad esso avanzato; il secondo piano è sopraelevato di quattro ed in esso è collocata la sede, decentrata. Il vano del presbiterio dalla parete piana di fondo e dal volume ristretto rispetto a quello dell’aula, sul lato destro è scandito da tre paratie che ripetono l’andamento e la conformazione delle arcate segmentate che ritmano l’aula, con due asole vetrate verticali; negli interstizi del soffitto tre asole vetrate immettono luce zenitale. Nell’angolo destro antistante la paratia del presbiterio un’ampia balconata aggettante al di sotto della quale c’è il passaggio che immette nel battistero dal piano pavimentale inferiore rispetto a quello dell’aula, di forma centrale con copertura a cuspide piramidale vetrata dalla luce zenitale. In controfacciata nelle due scarselle laterali all’ingresso i confessionali e a destra l’ingresso alla cappella feriale; lungo tutta la larghezza della controfacciata la ampia cantoria dalla balconata in cemento armato, alla quale si accede da una scala a destra dell’ingresso. La pavimentazione è omogenea in piastrelle di cotto quadrate disposte ortogonalmente.

Se, poi, dall’esterno si passa all’interno, varcando il portale d’ingresso — bruttissimo, una via di mezzo fra quello di un’astronave e quello di un campo di concentramento – la sensazione di freddezza, di non spiritualità, di pedissequa imitazione degli stili mondani, si accentua ulteriormente: che bisogno c’era di costruire l’unica navata in maniera asimmetrica, sbilanciata verso il lato destro, come se ne fosse stata tagliata via l’altra metà? E quei pilastri che corrono lungo il soffitto e accompagnano la parete, non fanno pensare ai condotti della spazzatura di un grande condominio, per consentire lo smaltimento dei rifiuti senza bisogno di scendere coi sacchetti in mano? E quei finestroni sul lato sinistro, non paiono in tutto e per tutto i finestroni di una palestra? E le sedie allineate su due file, senza banchi: dove s’inginocchiano, i fedeli? Questa non è la casa di Dio, ma una delle tante, banali case dell’uomo. Ne abbiamo viste fin troppe, negli ultimi cento anni.

Fonte dell'immagine in evidenza:

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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