
Ma chi cosa stiamo parlando? Bergoglio è eretico
3 Settembre 2018
Crede davvero di cavarsela così?
4 Settembre 2018Da La lanterna di Diogene, cap. III (In: Alfredo Panzini, Sei romanzi fra due secoli, Milano, Mondadori, 1939, 1942, pp. 29-30):
… E dopo le ginestre vennero le querce! (…)
Vidi nell’azzurro disegnarsi una famiglia di querce gigantesche: esse erano sole e contorte in maniera strana e ammirevole, come un pittore a fatica potrebbe imaginare senza modello; ed erano così coperte di muschio e di edere che pareano smeraldo nel turchese del cielo: e allora dal folto delle loro frasche si partì, ardito come freccia, un canto animatore di uccello: quindi esso apparve.
Esso, l’uccello si librò alquanto al di sopra delle fronde con le ali aperte, come sogliono i pittori foggiare lo Spirito Santo, e nell’aprirsi le ali scoprirono un bel colore purpureo. Veniva su dalle frasche della quercia, e tornava a nascondersi. Mi aveva l’aria di venir fuori a salutare il buon papà, il sole, il quale imbiancava, giù nella valle, tutto il corso sassoso del fiume Tiepido.
Non mi ricordo bene quanto tempo stetti a contemplare quell’uccellino e quella quercia, ma qualche minuto sì di certo; e né meno ricordo quali pensieri formai, certo erano assai belli e profumati, e vibravano ogni volta che vibrava il canto dell’uccellino.
Ricordo però bene che tanto l’uccellino, come la quercia, come la ginestra mi parvero come tanti docili figliuoli del buon papà, il sole; ed allora io li pregai perché mi accogliessero in loro compagnia:
– Frate uccellino! Sorella quercia, accoglietemi fra voi!
– Frate uomo, marameo! — mi rispose l’uccellino. — Sbolllito l’entusiasmo, tu hai l’abitudine di metterci nello spiedo!…
Mi vide, diè un trillo di paura, scappò.
Questo è solo un piccolissimo saggio o, se si preferisce, un invito alla lettura di questo scrittore (Senigallia, 31 dicembre 1863-Roma, 10 aprile 1939) che conquistò, ai primi del Novecento, un posto di tutti rispetto fra i romanzieri italiani, proprio a partire dal citato La lanterna di Diogene, del 1907, grazie al quale conquistò definitivamente i consensi sia del pubblico sia, caso strano, della critica, e che mantenne la sua popolarità sino alla fine, seguitando a pubblicare un numero considerevole di opere, fra romanzi, novelle e un celeberrimo Dizionario moderno che fece epoca per la minuziosa inclusione di neologismi che i vocabolari "classici" si rifiutavano di accogliere. Poi, dopo la sua morte, per una buona generazione ancora i suoi racconti, o brani dei suoi romanzi, hanno continuato a figurare nelle antologie scolastiche, come una presenza fissa: era impossibile sfogliare una antologia degli anni ’50 e ’60 senza imbattersi in un testo di Panzini: tutti gli studenti italiani conoscevano il suo none e sapevano che era stato uno degli scrittori italiani più apprezzati nella prima metà del Novecento. Poi… Poi, è successo qualcosa. Il suo nome è sparito, quasi di colpo. Nelle antologie scolastiche non lo si è più visto; nelle storie della letteratura, meno ancora. I suoi romanzi — Viaggio di un povero letterato, La pulcella senza pulcellaggio, La Madonna di Mamà, Il mondo è rotondo, Il padrone sono me! – non sono stati più ristampati, sono diventati roba da bibliofili, da cercare sulle bancarelle ai mercatini dell’antiquariato, o da richiedere in consultazione presso qualche importante biblioteca pubblica. Altrimenti, silenzio totale. Alfredo Panzini: e chi era costui?, vi risponderà uno studente di liceo dei nostri giorni; e, molto probabilmente, vi dirà la stessa cosa anche un giovane professore. Perché all’università, fucina dei futuri insegnati, si parla di molti autori, di Dario Fo, di Pier Paolo Pasolini, di Umbeto Eco, ma di romanzieri come Alfredo Panzini non se ne parla più. Dimenticati, rimossi. Perché? Cosa ha fatto, di quale colpa si è macchiato il mite, onesto, laborioso Panzini? Ha aderito al fascismo, firmando il Manifesto di Giovanni Gentile nel 1925? Non è stato il solo; e, a parte questo, non si è certo segnalato fra i più sfregatati sostenitori del regime. Non ha domandato scusa al Popolo Italiano, a guerra finita? Ecco, questa potrebbe già essere una spiegazione più convincente. Dio sa se, fino al 25 luglio del 1943, gli scrittori italiani erano praticamente tutti fascisti, o tali almeno in apparenza; e se quasi tutti non hanno fatto prontamente il salto della quaglia, passando armi e bagagli nell’ara comunista, e saltando, per far vedere quanto ardessero di zelo antifascista, le posizioni moderate e di "centro". E nondimeno, dopotutto non è stato l’unico. Altri, come Prezzolini, Papini, Ungaretti, hanno tenuto un contegno simile; e sono stati, è vero, alquanto ridimensionati dalla critica, e pagato un prezzo in termini di credito presso le case editrici, però, insomma, sono rimasti ancora per un poco sulla scena letteraria, e la cultura dominante, marxista o semi-marxista, ha dovuto tollerare per qualche altro anno la loro presenza, finché l’età non li ha portati via, dopo di che è stato più facile iniziare l’opera di rimozione, più o meno rapida, più o meno radicale, quanto meno dai "salotti" buoni. E dunque, qual è stata la causa specifica dell’ingeneroso trattamento subito dall’opera di Alfredo Panzini, già pochissimi anni dopo la sua morte? A nostro parere, si è tratto di un astio, tutto ideologico, non contro ciò che politicamente o letterariamente l’opera di Panzini rappresentava, ma contro ciò che essa incarnava e rispecchiava a livello morale e spirituale.
Se dovessimo sintetizzare in una parola, in una formula, la cifra della narrativa di Alfredo Panzini, diremmo semplicemente che essa è morale, nel senso che ruota attorno a dei valori morali, a dei sentimenti puliti, a delle aspirazioni che si possono esprimere senza arrossire: insomma rispecchia un modo di pulizia morale e gentilezza spirituale. La visone del mondo di Panzini, pessimistica nei primi romanzi, poi, via, via, un po’ più serena, ma sempre fondata su un profondo senso etico, è una visione tipicamente pre-moderna: crede ancora agli assoluti, ha fede che il bene esista, che il vero esista, che la giustizia esista, anche se non sempre gli uomini hanno la fortuna di vederli realizzati, né il coraggio e l’onestà di perseguirli sino in fondo. In altre parole, l’uomo rappresentato nelle opere di Panzini è cosciente dei propri limiti, fallibile, ma non debole, non inetto; cade, ma sa rialzarsi; non sempre sa fare il bene, ma sempre sa vederlo; non si compiace della sua incapacità, né gode dei suoi fallimenti; non si monta mai la testa, e sa vedere le cose con ironia, ma quasi per un istinto di autodifesa più che per cinismo. No: l’uomo d Panzini non è mai cinico, anche se talora ne assume un po’ le pose: vuole far vedere che fa calcoli, che è interessato, che è egoista, ma è quasi tutta apparenza; forse ha pudore di mostrarsi per quel che è realmente: sensibile, delicato e buono. Ecco: l’umanità descritta nelle opere di Panzini aspira alla bontà, se non proprio alla santità. E se inciampa e cade spesso, conosce anche la maniera di rimettersi in piedi: sa che la vita è un dovere da compiere, e non si tira indietro. Sa che bisogna assumersi delle responsabilità, che non ci si può nascondere dietro lamentele e vittimismi: e sa che il rancore, più o meno politicizzato, non è mai la ricetta giusta per uscire dal proprio disagio, sia esso materiale o spirituale. Nel mondo di Panzini non ci sono sordidi istinti, pulsioni innominabili, voluttà proibite, anche se la tentazione esiste: in questo senso, egli è pre-moderno: conosce Freud e la psicanalisi, conosce Marx e il marxismo, né si considera un reazionario (lo dice nella prefazione a Il padrone sono me!), però non li ama, non vi aderisce, non è convinto dalle loro spiegazioni e dalle loro ricette. Non pensa che gli uomini diventeranno migliori accettando i loro bassi istinti, né instaurando la società comunista. In fondo, è un uomo di buon senso: non è un profondo pensatore, ma sa vedere quel che ad altre intelligenze, più acute, era sfuggito completamente: per esempio, che la psicanalisi è una grande mistificazione e il marxismo un colossale inganno ai danni dei lavoratori. Ma questo, che dovrebbe essere un merito, e che avrebbe dovuto risultare come una ragione ulteriore per riconoscere il suo valore, dopo che le grandi illusioni del XX secolo sono cadute, paradossalmente gli si è ritorto contro. Non c’è niente di peggio, dal punto di vista della cultura progressista, che aver avuto ragione per tempo nei confronti dei suoi miti di cartapesta. Di quei miti infranti, i progressisti possono anche parlare male, quando ormai tutto il mondo ha potuto vedere che razza di ciarpame fossero; ma a suo tempo, no, essi erano validi, perché erano comunque progressivi rispetto alla società e la cultura tradizionali: perciò chi non li ha salutati con gioia, con entusiasmo e gratitudine, aveva torto, torto marcio, era un nemico del progresso, anche se poi i fatti gli han dato ragione. Misteri e circoli viziosi del progressismo.
Il mondo di Panzini è un mondo dove regna la gentilezza d’animo: ma questo è un oltraggio alla psicanalisi, perché i signori freudiani ci hanno spiegato che ogni gesto di cortesia, ogni moto di altruismo, ogni afflato di sincerità nascono dalla censura del super-io, che s’incarica di purgare i nostri bassi istinti e trasformarli in pensieri e comportamento accettabili per avere l’approvazione altrui. Inoltre, il mondo di Panzini poggia sulla coscienza dei valori: e anche questo è intollerabile, perché il marxismo ha chiarito che i valori non esistono, e quelli che la società chiama valori sono soltanto delle creazioni della borghesia per tenere a bada il proletariato: dei feticci, delle divinità menzognere, che nascondono egoismo, avidità e sopraffazione. Dunque, uno scrittore il cui mondo appare pervaso di gentilezza e muove dalla coscienza dei valori, non può che essere o un insigne babbeo, che non si è tenuto aggiornato sui progressi della cultura e della ricerca, o, peggio, un nemico del popolo travestito da uomo dabbene, da padre di famiglia onesto e volonteroso. Il che, nei progressisti, genera un’insofferenza quasi fisica, una reazione che somiglia all’orticaria. Questi paciosi scrittori d’anteguerra, nel cui mondo non trionfano gli istinti, il sesso e la lotta di classe, appartengono alla razza più subdola: quella che potrebbe ricordare ai lettori che esisteva un mondo, prima di Marx e prima di Freud, nel quale la parola data era una cosa seria; nel quale le promesse e gli impegni andavano rispettati; nel quale non si partiva dal presupposto dell’altrui malafede, per giustificare le proprie cattive azioni; e in cui, cosa più grave di tutte, esistevano ancora le cattive azioni, ben distinte dalle buone, perché esisteva ancora un codice morale, non "borghese", ma universale, per il quale calunniare, offendere, ingannare, tradire, erano cattive azioni, e aiutare il prossimo senza secondi fini, sforzarsi di capirlo, sobbarcarsi degli oneri per amor suo, magari per un parente povero, per un amico caduto in disgrazia, erano delle buone azioni, senza che saltasse su qualche psicanalista o qualche marxista a denunciare che sono solo delle recite, delle astute commedie, delle simulazioni per meglio realizzare i propri fini egoistici.
Ora, la cultura dominante detesta che qualcuno possa conservare l’incanto del mondo; e il libri di Panzini, specie quando descrivono il mondo della natura, sono pieni di tale incanto, ne hanno tutta la pulizia e la trasparenza. La cultura dominante vuole abbassare la visione dell’uomo ad un livello grossolanamente materialista: vuole che l’uomo pensi le cose peggiori di se stesso, per poterlo indottrinare meglio e manipolare meglio. Per questo ha bisogno, letteralmente bisogno, della pornografia, come in Alberto Moravia, e del cinismo più disincantato, come in Umberto Eco. E non solo non ha bisogno, ma teme come la peste i libri di uno scrittore come Panzini, perché i suoi lettori potrebbero anche scoprire, non sia mai!, che il mondo, dopotutto, e pur con tutte le sue ombre e le sue storture, è un posto bello per viverci, specie se noi vi mettiamo un poco di buona volontà. Un tempo pensavamo che la scomparsa e l’oblio di scrittori come Panzini dalla memoria della cultura contemporanea, e l’emergere di scrittori come Moravia, Pasolini o Eco, fossero il frutto di una tendenza naturale, per quanto aberrante: la tendenza spontanea della società moderna. Adesso, invece, siamo giunti alla conclusione che non esistono tendenze spontanee, nel mondo delle idee e in quello dei valori, ma che esiste una gigantesca congiura mondiale per diffondere al massimo la visione del mondo dei Moravia, dei Pasolini e degli Eco, brutale, disincantata, cinica e "sporca", e per ridurre al silenzio la visione del mondo di scrittori come Panzini, umile, gentile, bonaria e comprensiva. Un tempo pensavamo che l’esclusione e l’espulsione di Panzini dal salotto buono della cultura odierna fosse dovuto a ragioni di carattere propriamente letterario, nel senso che i suoi romanzi e le sue novelle non sono sufficientemente moderni, nel senso tecnico del termine; ma nemmeno questo è credibile. La sua tecnica narrativa consiste in un impasto di fatti esterni e digressioni, riflessioni, confessioni, fantasticherie, il che è molto moderno: il problema, se tale lo si vuole considerare, è che Panzini non utilizza queste innovazioni, che lo portano al superamento del romanzo ottocentesco, con le stesse premesse e la medesime finalità degli scrittori propriamente progressisti: cioè in un’ottica moderna, ove per moderna si intende disincanta, cinica, psicanalitica e marxista. E tolto il disincanto del mondo che ridà splendore alle cose, tolo il cinismo e restituita la sincerità, tolta la psicanalisi e ripristinata l’immagine di una natura spirituale dell’uomo, e tolto, infine, il marxismo, con il su odio di classe elevato a valore, cosa resta? Resta l’uomo pulito e innocente. Non sia mai: vade retro, Satana! E Satana arretrò; rimasero Fo, Eco, Pasolini, Moravia…
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