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26 Agosto 2018Dobbiamo dirlo? Anche se la nostra grande, sovrana passione è la filosofia, e lo è fin dagli anni della prima giovinezza; e anche se il nostro più grande piacere intellettuale consiste nella riflessione filosofica, a proposito di tutto, nessun argomento escluso, tuttavia se dovessimo salpare per una regata in solitario attorno al mondo, con la prospettiva di non poter mettere piede a terra per un tempo minimo di sei o sette mesi, ebbene, ci guarderemmo dal portarci a bordo la Critica della ragion pura di Kant, o il Discorso sul metodo di Cartesio, o l’Ethica, more geometrico demonstrata di Spinoza; e non vorremmo portarci dietro neppure Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhuaer, o la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Soprattutto Hegel. In breve, non vorremmo saperne di simili letture, che ci risultano insopportabilmente noiose, specialmente quando la mente è più sgombra di pensieri collaterali e di distrazioni di qualunque tipo, come può accadere se ci si trova, soli, in mezzo al mare, senza altro spettacolo che l’acqua e il cielo. È probabile che, se per qualche diabolico castigo dovessimo portarci dietro i tomi di Hegel, finiremmo per lasciarci cadere in mare e farla finita, pur di non dover sopportare la sua compagnia. Viceversa, se avessimo la facoltà di scegliere liberamente, caricheremmo sulla barca una cassetta di libri gialli, diciamo di Simenon e Charles Williams. Di Simenon c’è poco da dire; chi non ha mai letto, né amato il commissario Maigret, non può capire e quindi non vale la pena di discutere, come è vano far capire all’astemio cosa perde se non beve un bicchiere di vino fresco, in una calda sera d’estate, seduto sotto il portico rivestito d’edera, e si gode la brezza che scende dai monti; o come è fatica vana far capire a chi non è mai stato a pesca, a caccia o a funghi, la gioia che si prova nel praticare queste attività. Di Charles Williams, diremo solo questo: che per un cestino coi suoi ventidue romanzi, daremmo in cambio una intera biblioteca filosofica. Del resto, chi ama la filosofia non è detto che ami i filosofi , e specialmente quelli moderni: c’è così poco da imparare da essi, se non in senso negativo. Chi ama la filosofia, ama pensare, non leggere quel che hanno detto gli altri, e discettare su ciò che intendevano dire, allorché facevano questa o quella oscura, criptica affermazione. Senza contare che quasi tutti i filosofi moderni scrivono malissimo, e che, salvo poche eccezioni, leggerli è un vero tormento, anche solo da un punto di vista puramente letterario. I filosofi che scrivono bene, come Kierkegaard o come Nietzsche, sono l’eccezione alla regola; e non parliamo dei teologi, che Dio ce ne scampi e liberi. Non solo tutti costoro sono noiosi come mattoni, ma sono anche di una tristezza insopportabile, micidiale. I filosofi sono mediamente così tristi che, se ci trovassimo in loro sola compagnia, su una barca, in mezzo all’oceano, preferiremmo lasciarci scivolare nelle onde: meglio finire nello stomaco dei pesci che essere torturati dalle noiose e mal scritte fumisterie di Hegel, o dalle elucubrazioni di Heidegger.
Niente del genere può capitare al lettore di Charles Williams. Anche se una vena di malinconia c’è, innegabilmente, nei suoi eroi, o antieroi, che sono in fondo, a ben guardare, e dietro la patina sottile del loro cinismo e della loro amoralità, gli ultimi cavalieri romantici della letteratura novecentesca, con un cuore capace di battere e un’anima capace di appassionarsi per qualcosa o per qualcuno, non è triste la lezione che da essi si ricava, anche se vanno tutti a finir male; è dura, forse sgradevole, sempre amara, ma non triste, nel senso che non fa odiare la vita al lettore, non gli suggerisce l’idea che il mondo sia un posto orribile, e che la vita sia il peggiore dei castighi, una schifezza priva di redenzione. Questa bella morale si può ricavare dalla filosofia di Sartre, o dal teatro di Pirandello, o dalle poesie di Montale, ma non dai romanzi di Charles Williams. La vita, lui, te la fa amare, perché ti fa vedere, per un momento, tutta la bellezza che c’è in essa, e anche se poi ti pianta in asso e ti sbatte al buio, in castigo, come un bambino cui viene inflitta una severa punizione, quell’attimo di magia è penetrato nell’anima, si è insinuato sino al fondo di essa, e non se ne andrà più. C’è sempre un alto prezzo da pagare, per quell’attimo di splendore e di bellezza: ma, per quanto salato, sarà pur sempre un prezzo equo. Questo, almeno è ciò che pensa il lettore di Charles Williams, quando ha sfogliato l’ultima pagina di uno dei suoi libri e si trova a fantasticare, a immaginare quel che devono provare i suoi eroi, così crudelmente beffati nella loro speranza di felicità. Felicità che, neanche a dirlo, ha il colore degli occhi misteriosi di una ragazza incontrata apparentemente per caso, salvo poi scoprire che il caso non esiste e che un meccanismo misterioso li ha condotti proprio là dove tutto il loro essere vorrebbe che non fossero mai stati, ma dove tutta la loro anima non solo non si pente di quel che è stato, ma si rammarica che non sia accaduto prima. E anche se gli eroi di Williams sono infelici, perché prima della loro Grande Ora c’erano solo la noia e la ripetizione, e dopo ci saranno solo la nostalgia e il rimpianto, nondimeno essi strappano la nostra simpatia e la nostra solidarietà, al punto che vorremmo essere al posto loro, e pagheremmo chi sa cosa per poter provare quel che hanno provato loro: la sensazione, cioè, per una volta almeno, di essere vivi, terribilmente vivi, con il cuore squassato da ondate di felicità di una forza spaventosa. L’apparenza inganna: anche se sono grandi e grossi come il loro autore, un metro e ottanta di statura per novanta chili di peso, gli eroi di Williams sono, in fondo, dei cuori teneri: le loro mani forti, capaci di sferrare pugni formidabili, anelano di stringere e carezzare il corpo palpitante di una donna che essi amano perché tenera e romantica come loro, e di farlo con estrema delicatezza, quasi con timore reverenziale, perché la Donna, nei romanzi di Williams, è molto più di una creatura mortale, è quasi una dea, e alle dee ci si avvicina con rispetto e una punta di paura.
Il guaio è che, nei romanzi di Charles Williams, le cose non vanno mai a finire come dovrebbero: c’è sempre qualcosa che va storto. Il piano perfetto s’inceppa, da una fessura inaspettata s’introduce l’artiglio del diavolo. Ora è un proiettile vagante, che si porta via la Donna, proprio alle soglie di una indicibile felicità, come ne La scogliera degli scorpioni; ora è un’altra donna (ma con la minuscola) scaltra, avida, senza scrupoli, che si mette in mezzo con l’arma del ricatto, come in L’inferno non ha fretta; ora una sfortunata concatenazione di circostanze, che oltre a portar via la Donna, imprigiona il protagonista nel carcere invisibile del rimorso, come in L’assassino guarda il fiume (ma il titolo originale è semplicemente River Girl, La ragazza del fiume). L’uomo, l’eroe di questi gialli, è giovane, forte, intelligente, e si crede astuto, ma alla fine rimane puntualmente intrappolato in situazioni che non riesce a controllare; spesso è malamente sposato, quando fa l’incontro decisivo della sua vita, quello con la Donna, luminosa ma triste, irresistibile nella sua desolazione, a sua volta sposata con un delinquente, oppure ricattata da oscuri personaggi, insomma sempre la vittima di un destino avverso. L’eroe, allora, che si è pazzamente innamorato di lei al primo sguardo, parte a lancia in resta per salvarla e portarsela via; ma verrà sconfitto dal destino, battuto sul suo stesso terreno; si credeva furbo, e invece risulterà terribilmente ingenuo. Ma il primo passo sulla via della sconfitta lo ha commesso fin dall’inizio, perdendo la testa come un adolescente per una donna carica di guai. C’è qualcosa di masochista nella dinamica di questi personaggi maschili, che si tuffano a capofitto in situazioni dalle quali il lettore capisce, fin dal secondo o terzo capitolo, che usciranno distrutti, ma che loro s’illudono di poter risolvere: si direbbe che l’amore, per Williams, sia un sogno più che una realtà, simile all’acqua di Tantalo, che si ritrae davanti alle labbra di colui che sta bruciando per la sete. Il momento della felicitò dura un battito di ciglia, a volte non arriva nemmeno, è solo una leopardiana aspettativa: si passa direttamente dalla trepidazione per una gioia che non c’è ancora, all’amarissimo rimpianto di una gioia che non c’è più, è sfumata per sempre. Non vi è mai una misura fra i due estremi del tutto o niente: gli eroi di Williams sono forti, ma irruenti giocatori, puntano e perdono; perché si sa che i soli giocatori fortunati sono quelli che restano freddi e impassibili, quelli che sanno alzarsi dal tavolo verde al momento giusto. Mentre gli eroi di Williams non ne sarebbero mai capaci: sono talmente avidi di vita che preferirebbero morire piuttosto che alzarsi dalla sedia e uscire dalla stanza dei sogni. Perché, in fondo, sono dei sognatori. Le apparenze inganno: paiono uomini d’azione, ma la realtà è che vivono di sogni: non lo sanno essi per primi, sbagliano nel giudicarsi e anche questo è un elemento decisivo della loro sconfitta finale. Con le loro doti fisiche e intellettuali, potrebbero diventare qualcuno; potrebbero fare una bella scalata sociale, come il Bel Ami di Maupassant, sfruttando il loro fascino e la loro astuzia. Invece sono degli inguaribili romantici, s’innamorano sempre della Donna sbagliata e perseverano nell’errore sino alla nemesi finale. Si puniscono da soli, a ben guardare, perché sono proprio loro a mettersi nelle condizioni di fallire e di soffrire. Il giallo si risolve in un romanzo psicologico, il meccanismo dei sentimenti e dei pensieri diventa più importante del cosa succederà. Il lettore affezionato di Charles Williams sa già, più o meno, come la storia andrà a finire dopo le prime quindici o venti pagine; ignora i particolari, ma intuisce benissimo la sostanza. Non è quindi la curiosità che lo tiene inchiodato sino all’ultima pagina, ma il piacere di scandagliare gli abissi dell’anima del protagonista, e vederlo dibattersi come un pesce preso nella rete, lottando inutilmente per strappare al destino quel miraggio di felicità che lo ha abbagliato e lo ha sedotto fin dalle prime righe. La bravura dello scrittore consiste nel coinvolgere il lettore, nel farlo sentire come si sente il suo eroe, nel far sì che si identifichi col suo punto di vista. Questi è disposto a tutto, anche a scendere a compromessi degradanti, pur di salvare la Donna e ottenere in premio il suo amore. Non che gli eroi di Williams siano senza macchia e senza paura: sono quasi sempre dei perdenti, dei falliti, sin da prima che facciano il Fatale Incontro. Sono, per esempio, dei vice-sceriffi che trascinano un’esistenza vuota e noiosa, con una moglie che non li ama e che essi non amano, e che pensa solo ai quattrini; gli altri li rispettano e forse li ammirano, ma essi in cuor loro, sanno di essere dei falliti. Perciò, l’incontro con la Donna è, per loro, una scarica di vita: è la scoperta che si può anche vivere in un altro modo, amando, sognando, desiderando, e non trascinando stancamente i giorni fra un lavoro frustrante e mal pagato e qualche battuta di pesca, che non allevia la pena di vivere, perché il loro cuore è troppo profondamente amareggiato.
Charles Williams (che non va confuso con l’omonimo scrittore e poeta britannico, 1886-1945, della generazione preceente), è nato a San Angelo, in Texas, il 13 agosto 1909, ed è morto a Los Angeles il 5 aprile 1975. Imbarcato nella marina mercantile, dopo la Seconda guerra mondiale si è impiegato come tecnico elettronico, si è sposato e si è trasferito con la moglie a San Francesco, mettendosi a fare lo scrittore a tempo pieno. Nel 1951 imbrocca la vena giusta, quella del giallo psicologico: ed è il successo, con Hill Girl (La ragazza della collina; non tradotto in italiano, a quanto ne sappiamo). A partire da quel momento, si afferma come uno dei migliori giallisti americani degli ani ’50 e ’60. Ben dodici dei suoi romanzi, venti e più, sono stati ripresi dal cinema per portare le sue storie sul grande schermo. È uno scrittore raffinato, dalla tecnica impeccabile; in un certo senso, e facendo la tara alla enorme distanza, geografica e culturale, oltre che di prospettiva esistenziale, si può dire che presenti non poche somiglianze con Simenon e il suo commissario Maigret; e va notato che, per un periodo, Charles Williams visse in Francia, dove i suoi libri godevano di un vasto successo, pur essendo così inconfondibilmente americani, ambientati quasi sempre nelle piccole città di provincia del West, o sulla riva di qualche fiume sonnolento. Anche a Williams, quel che interessa veramente non è il delitto, tanto meno la punizione del colpevole, ma l’uomo, quel groviglio di passioni che si agitano al fondo della sua anima. Egli le vede, le osserva, le registra e le descrive con impeccabile precisione. Il fatto che siano passioni autodistruttive e che la punizione del delitto arrivi puntualmente a portar via il miraggio di felicità, ha qualcosa di cattolico: c’è una moralità, in quei romanzi, perché il male non trionfa e il castigo peggiore che capiti al reo non è di tipo fisico, bensì morale: è costretto a sopravvivere al crollo di tutte le sue speranze, e, in certi casi, perfino a subire l’immeritato, quotidiano disprezzo della Donna di cui è disperatamente, ma ormai inutilmente innamorato (come in L’inferno non ha fretta). Una vera pena del contrappasso, che gli viene servita con sadica accuratezza, cuocendolo a fuoco lentissimo, giorno dopo giorno, per tutto il tempo che gli resta da vivere. E se si tratta di un inferno terreno, immanente, e non di un castigo ultraterreno, ciò non toglie che vi è, in esso, un sapore vagamente religioso: a Dio non la si fa, come direbbe il buon dottor Manson de La cittadella. Qualche volta si paga non per i delitti commessi, ma per quelli dei quali si è innocenti; l’importante,è che il debito sia pagato, in un modo o nell’altro.
Charles Williams è morto suicida. Il cancro si era portato via sua moglie, pochi anni prima; e le vendite dei suoi romanzi, alla svolta degli anni ’70, cominciavano a non andar bene come prima. Il suo mondo, privato e collettivo, stava finendo. Era un pesce fuor d’acqua, come Scott Fitzgerald alla fine dell’età del jazz. In fondo, i suoi eroi lo avevano sempre saputo: il posto giusto non esiste…
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