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20 Novembre 2022Uno dei mali cronici che affliggono la vita dell’uomo contemporaneo è senza dubbio la malinconia. Si tratta di un male spirituale insidioso: non si sa da quale spiffero penetri nelle stanze più segrete dell’anima, portandovi un senso di noia, di gelo, d’inutilità, come se fosse insediato lì da sempre. E in effetti è così: non si diventa malinconici, si nasce; anche se da piccoli si tratta di una disposizione che può passare quasi inosservata, e che viene scambiata con altre, e chiamata con nomi diversi. Ma non appena la vita adulta scava le sue piaghe, si fa strada a forza nella carne viva dell’esperienza, introducendovi le sue dolorose delusioni, essa emerge in piena luce ed esercita la sua incontrastata signoria, senza più nascondersi affatto, anzi quasi fiera del potere pressoché incontrastato che sa di esercitare.
Eppure, anche se costituzionale — e sovente lo è — si tratta pur sempre di un’anomalia dello spirito, tanto è vero che non pare i nostri nonni ne fossero afflitti: gli individui malinconici erano le rare eccezioni che suscitavano stupore, perplessità e compassione, come se un’invisibile parete di cristallo le separasse dal mondo degli altri, delle persone normali, le quali ne erano perfettamente immuni. E non è un caso che la più celebre rappresentazione pittorica della malinconia, l’incisione a bulino di Albrecht Dürer intitolata Melencolia, sia datata 1514 e coincida, quindi, con l’avvento della modernità.
Chiariamo una volta per tutte che malinconia non è depressione, e che se essa può sfociare nella depressione, è più frequente il caso che si mantenga nel suo stato abituale, senza clamori né ribellioni, anche per tutta la vita. D’altra parte, se essa è un’anomalia, significa che nasce da un erroneo atteggiamento dell’anima: dietro ad ogni malessere esistenziale si annida, sempre e infallibilmente, un errore filosofico. La volontà, lo abbiamo detto più volte, cerca il bene: non è colpa sua se l’intelletto le indica un falso bene, che ella si sforza comunque di raggiungere e che, non riuscendoci, si contenta di coltivare da lontano, per così dire platonicamente. C’è una strana, sottile, pericolosa voluttà nella malinconia, che può surrogare uno stato di piacere: è qui la sua perfida attrattiva.
In che cosa consiste l’errore filosofico che dà origine allo stato di malinconia? L’errore, in realtà, è duplice, e lo metteva bene a fuoco Romano Guardini: quello di rapportarsi assolutamente alla realtà e quello, opposto e speculare, di rapportarsi assolutamente con Dio. L’uomo, in quanto creatura, non possiede gli strumenti, né la struttura psichica e metafisica per relazionarsi in maniera diretta né con il relativo, né con l’assoluto. Con il relativo, perché l’uomo partecipa del relativo, è in parte relativo, ma partecipa anche dell’assoluto: pertanto non si può assolutamente naturalizzare, non può aderire assolutamente alle cose esterne, le quali sono fatte di una sostanza diversa dalla sua, e con la quale egli può solo in parte integrarsi. Egli può sentirsi in profondo armonia con le piante, le montagne, le nuvole; può identificarsi, fino a un certo punto, con un tramonto, o un’alba o una cima innevata, o una scogliera battuta dai marosi: ma non sarà mai riducibile ad essere, non potrà mai esserne interamente assorbito. La sua natura è un’altra. Egli è una coscienza che registra le cose, le filtra, le apprezza, le gode, le introietta, ma solo fino ad una determinata soglia: oltre la quale non potrebbe andare neppure se lo volesse, perché se vi andasse, si perderebbe, e smarrirebbe il senso del proprio statuto ontologico.
Viceversa, l’uomo non può nemmeno rapportarsi direttamente all’assoluto. È creatura: e la creatura non sta faccia a faccia davanti al suo Creatore. Ha bisogno di una mediazione: la comunione dei Santi, la Vergine Santissima, gli Arcangeli e gli Angeli. Da solo non può: resterebbe accecato. In altre parole: per relazionarsi con il mondo, sia verso il basso che verso l’alto, l’uomo non è sufficiente a se stesso; non è vero che è misura di tutte le cose; ha bisogno, al contrario, che la Grazia si faccia misura per lui e lo accompagni, con sollecitudine e delicatezza, e guidi i suoi piedi lungo un sentiero affascinante e carico di promesse, ma erto ed estremamente periglioso, che egli non saprebbe percorrere da solo.
Questo è il senso del suo cercare, del suo peregrinare, del suo mendicare: e questa è la ragione profonda per cui ogni umanesimo è un inganno. L’uomo non è in grado di fare perno su se stesso: non sono da ciò le proprie penne (cfr. Dante, Paradiso, XXXIII, v. 39).
Scrive Romano Guardini nel suo saggio, fortemente venato di autobiografismo, Ritratto della malinconia, uno dei suoi scritti più acuti non solo sul piano filosofico, ma anche su quella psicologico (1949, prima stesura 1928)versione dal tedesco di Romana Guarnieri, Brescia, Morcelliana, 1954, pp. 60-62):
Particolarmente in due punti risulta chiaro l’errore del apporto della malinconia con la realtà: nella duplice tentazione, la quale suole impadronirsi dell’uomo in genere, e in particolare dell’uomo malinconico: la tentazione di naufragare nella immediatezza della natura e dei sensi, e la tentazione di dissolversi nella immediatezza dell’esperienza religiosa.
La prima tentazione tradisce il rapporto erroneo con le cose e con noi stessi. Tutto viene accettato senza mediazione, e il nostro stesso Io è sentito alla stregua di un pezzo di natura, nel quale l’Io vuole vivere se stesso sino in fondo, con immediatezza assoluta. Come un tutt’uno immenso, come un unico flusso; come una immensa trasmutazione di forma in forma, senza che si discernano da nessuna parte confini o limiti chiaramente segnati. Tutto un’unica cosa: un unico essere, una sola vita; un unico nascere e tendere; un unico sentire e patire… tutta la molteplicità, nient’altro che espressione dell’uno. L’Uno che si attua in mille forme. E la grande tentazione di precipitar visi e lasciarvisi andare a fondo, per realizzare, a seconda dello stato d’animo, uno sconfinato godimento, un’esperienza illimitata, una vita vissuta sino in fondo… ; oppure, in uno stanco abbandono di noi stessi…; o, ancora, nella rassegnazione alla nostra stessa piccolezza dinanzi alle grandi forze, le immense forze… La tentazione di esaurire il proprio viverre nell’azione immediata; nella genialità di una produzione ininterrotta, nella quale l’uomo si sente strumento della natura, oppure mezzo al manifestarsi di potenze senza nome, oppure organo dello spirito che fluisce dovunque e in nessun luogo… Ovvero e d’altro canto, in un superamento apparente delle commissioni naturali, mentre pure non si fa altro che proiettare al di fuori il loro contrapposto costruttivo, in un titanismo dello spirito, della ricerca irrequieta, della interrogazione che tutto distrugge, e del dubbio che tutto sommuove sino alle radici…
L’altra tentazione si basa sopra un rapporto erroneo con l’assoluto. Anche qui, preso nella sua immediatezza: in quanto sconfinatezza da raggiungersi senz’altro, pienezza da assorbire direttamente; mistero, nel quale si penetrerà continuamente, senza interruzione, pensando, contemplando, sentendo, desiderando; lontananza, alla quale ci si rivolge per una via diretta… o come altrimenti si può esprimere il fatto, che l’assoluto è inteso come qualcosa con cui l’uomo si trova in rapporto diretto. Senza curarsi d’altro; e questo con mente pia o empia, nella ribellione o nella dedizione.
In entrambi i casi si rinunzia alla cosa decisiva: al limite; a ciò che fa l’essenza dell’uomo. A non essere mondo, ma più del mondo. Non un pezzo della natura; bensì, in unione con la vera realtà, diversi dalla natura. Non un’onda nel fiume, un atomo nel turbine, un organo nel grande tutto, bensì spirito; persona; e persona padrona, responsabile di sé; immagine di Dio; sottoposti asl Suo appello, e tuttavia da Lui lasciati liberi in questo mondo.
D’altro canto, neppure Dio. Non un pezzo di Lui; non concretizzazione della Sua sconfinata pienezza di significati; non organo del flusso del Suo spirito, o come altrimenti si può confondere, cancellandola, l’essenziale, assoluta distinzione fra Dio e l’uomo; bensì «qualcosa di assolutamente da meno» di Lui: Sua creatura.
Creatura di Dio è l’uomo. Pertanto diviene impossibile riversarsi senz’altro in Lui, e il tentativo di provarcisi non è consentito. Ogni vi a a Dio passa per la consapevolezza. della distanza infinita, per il rispetto, tra il timore e il tremore della creatura.
Ma immagine di Dio; spirito e persona.
La malinconia, in definitiva, è la struggente nostalgia delle altezze; è il senso doloroso della distanza che corre fra il mondo com’è e come dovrebbe essere, o come vorremmo che fosse; e fra il dio che vorremmo conoscere, capire, e sentire nostro, e il dio misterioso che si sottrarre ai nostri sguardi, nonostante egli abbia mandato fra noi il Suo Figlio Unigenito, e che pure ha detto: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14.9).
Ma perché la malinconia, a un certo punto, è entrata a far part del paesaggio spirituale dell’uomo moderno? Crediamo che la spiegazione sia questa: nei secoli della civiltà cristiana l’uomo aspirava ardentemente alla vera sapienza, fine ultimo della sua natura e via diretta per il Paradiso; però non era impaziente: accettava i tempi e i modi stabiliti dalla divina Provvidenza. Egli, infatti, era persuaso che tutto è Provvidenza, cioè, in altre parole, che tutto è Grazia: avanzare o rallentare, attendere o procedere, sostare o affrettarsi: da buon operaio, faceva la sua parte senza impazienza e senza recriminare, pago di rendersi utile, qualunque essa fosse: non pretendeva di discutere il come e il perché. Ma con la modernità, una nuova smania è entrata nella sua vita: quella del tutto e subito.
L’uomo, anche il cristiano (perché il cristiano moderno non è che un cristiano a mezzo servizio) è divenuto irrequieto, impaziente, quasi frenetico; vuol vedere subito il frutto del suo agire Non gli è sufficiente piantare i semi nella terra: Agricola serit arbores, dice Cicerone, qui alteri saeculo prosint: l’agricoltore pianta gli alberi che daranno frutti per un’altra generazione. Egli invece vorrebbe veder crescere le piante e godere l’ombra delle loro chiome, altrimenti non ha fiducia nel proprio lavoro.
È, propriamente parlando, una perdita di fede: Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! (cfr. Gv 20, 29). La malinconia sorge quando la distanza fra la coscienza dell’io e l’oggetto desiderato si allarga a dismisura e finisce per apparire incommensurabile, infinita. Sdi sogna l’amore ideale: e non lo si trova, o si tarda a incontrarlo: e allora si cader preda della malinconia. Si vorrebbe che tutte le cose belle e buone durassero per sempre; e invece ciascuna di esse invecchia e ci lascia, un poco alla volta: e quel che resta non sono le cose, ma la dolcezza del ricordi. Allo spirito malinconico ciò non basta; egli si sente tradito, ingannato, defraudato dalla vita; sospira e si aggira inquieto, portando ovunque il proprio malessere e la propria tristezza: che non è tristezza di cose non realizzate, ma di cose non realizzate quando e come avrebbe desiderato lui. È un voler anteporre i desideri umani, la saggezza umana, la gratificazione umana, all’infinita e perfetta sapienza e pienezza dell’amore divino. Il malinconico è uno che si crede povero e derelitto perché non sa guardare bene, attorno a sé e soprattutto dentro di sé; forse, quel che anela lo possiede già, ma poiché non gli si manifesta nella forma che lui si era immaginato, non lo nota neppure.
A ben guardare non è solo un impaziente, ma anche un presuntuoso. Non ha capito che ogni cosa, nel mondo, dalla più piccola alla più grande, dalla più umile alla più preziosa, è sempre e comunque un dono di Dio: e i doni si accettano con gioia e gratitudine quando arrivano e se arrivano: perché potrebbero anche non arrivare. Potrebbero arrivarne altri, che noi non aspettavamo e che forse disprezzavamo, ma che sono più utili e più adatti alle nostre necessità. Solo Dio sa realmente ciò di cui abbiamo bisogno; noi no di certo. Noi crediamo di non poter fare a meno di questo o di quello, ma si tratta, nella maggior parte dei casi, di capricci da bambini viziati. Però di doni, senza dubbio, ne arrivano sempre; ne arrivano tantissimi: di più di quelli che possiamo immaginare e certamente più di quelli che potremmo aver meritato.
La vita è tutta un dono, e lo è dal primo istante in cui apriamo gli occhi su di essa: è un dono che non ha prezzo, perché il suo valore supera di gran lunga l’universo intero.
Ogni nostra giornata, ogni ora dovrebbe essere un continuo inno di lode e di ringraziamento; inoltre, a Dio dovremmo chiedere la saggezza, la pazienza e la generosità di fare l’uso migliore possibile dei mille doni coi quali Egli ha voluto beneficarci.
Altro che malinconia.
Sprecare il tempo in vane malinconie è una vera e propria forma d’ingratitudine.
Signore, guardaci da un tipo d’ingratitudine così sterile e sciocca.
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