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13 Agosto 2018Il Cavaliere Sconosciuto è stato, contemporaneamente, un fumetto abbastanza caratteristico del clima culturale e stilistico dell’Italia a cavallo fra gli anni ’60 e i ’70, e anche, per certi aspetti, atipico, o almeno originale, perché usciva un po’ dal quadro “classico” dei personaggi e delle ambientazioni degli altri fumetti. Il protagonista ricordava vagamente Zorro, anche dal punto di vista fisico (nei panni, ovviamente, dell’attore americano Guy Williams), oltre che per il carattere e per la situazione familiare: bruno, atletico ma snello, occhi intelligenti, sbarbato ma coi baffetti, intrepido eppure modesto; un padre importante, saggio e ancora giovanile, un devotissimo e inseparabile servitore, che è anche il suo confidente e il suo migliore amico, il possente Bindra, un solo fascio di muscoli; una fidanzata giovane e bella, nonché coraggiosa, Nadina, che condivide con lui quasi tutte le sue avventure. Sullo sfondo, l’India misteriosa, coperta di foreste e disseminata di templi, popolata di tigri, elefanti, serpenti d’ogni tipo e banditi d’ogni sorta. Lui è un principe, ha ricevuto una raffinata educazione, ci sa fare con le parole oltre che con i pugni; va sempre a cavallo, ma è di gusti semplici e modesti, il perfetto cavaliere per una fanciulla audace ma pudica come Nadina (anche se il suo abbigliamento accenna qualche timidissima allusione sensuale), che è lei pure una principessa. Non è un’India storicamente molto attendibile e i due protagonisti, il cavaliere e la principessa, somigliano assai più a degli attori hollywoodiani che a dei veri personaggi indiani, a cominciare dai tratti fisici prettamente europei, ma la cosa è fin troppo spiegabile e si adatta perfettamente al gusto dei lettori dell’epoca, i quali difficilmente capirebbero un esotismo e un primitivismo troppo realistici. Pertanto l’atmosfera orientale che si respira nelle “strisce” del Cavaliere Sconosciuto è, date le coordinate culturali, perfettamente esotica e avventurosa e, sul piano dell’efficacia delle storie, senz’altro “funziona” alla grande. Un po’ come il Sandokan, la Tigre della Malesia, del buon Emilio Salgari; ben prima però che, nel 1976, Sandokan diventasse, con il volto di Kabir Bedi (affiancato dalla bella Carole André come lady Marianna, la Perla di Labuan) per la regia di Sergio Sollima, un popolarissimo eroe televisivo.
Del Cavaliere Sconosciuto, edito dalla Casa Editrice Cenisio di Milano, sono usciti ventidue numeri in un arco di tempo di nove anni, da luglio 1967 al maggio 1976 (più quattro albi di raccolta, dall’agosto 1976 al maggio 1977): trimestrali i primi due, semestrali dal terzo all’undicesimo, poi di nuovo trimestrali dal dodicesimo al ventiduesimo; costava 150 lire all’inizio (fino al quinto numero), per poi salire a 200, a 250 e infine a 400 lire. In effetti non si trattava di storie originali, ma di ristampe di storie già apparse su Rin Tin Tin & Rusty, altro celebre fumetto che ebbe vita più lunga, quasi vent’anni, fra il 1960 e il 1977, anch’esso sotto la direzione di Carla Arcaini, che prendeva lo spunto dalla serie televisiva statunitense, ma dalla quale fu sempre indipendente. Era tutto in bianco e nero, tranne, ovviamene, la copertina; i testi erano di Luigi Grecchi (Milano, 1923-2001), collaboratore de L’intrepido e Il monello, e i disegni di Carlo Raffaele (Raphael) Marcello (Ventimiglia, 1929-2007), che visse e lavorò per molti anni in Francia e che ha collaborato con Sergio Bonelli sia alla serie di Zagor che a quella di Tex. Il segno grafico di Marcello è “pulito”, chiaro, scorrevole, tratta le figure con rispetto, le caratterizza senza stravolgere la loro umanità, non diventa mai ironia o caricatura, non altera la loro natura, e in ciò diverge dal modo in cui tanti altri disegnatori raffigurano i loro eroi e anche, bisogna dirlo, dal modo in cui li tratteggiano molti scrittori del Novecento, i quali pare quasi che nutrano odio e disprezzo nei loro confronti. Anche i testi di Grecchi sono “puliti”: senza sbavature, né eccessi, chiari, comprensibili, ragionevoli, mai volgari, mai sopra (o sotto) le righe. In breve, disegni e testo formano un binomio “credibile” nel mettere in scena un dramma antico quanto l’uomo, la lotta fra il bene e il male, naturalmente condita con il sale dell’avventura, cioè con l’interessante quale mezzo (e l’utile per scopo), come direbbe Alessandro Manzoni. Il male ha, di volta, in volta, il volto di svariati nemici, ma più di tutti quello dell’odioso e arrogante Gourban Khan, che rappresenta il male della politica e anche il male dell’avidità e della lussuria: infatti egli vorrebbe mettere le mani sia sui diritti di futuro maragià del suo nemico, sia sulla sua graziosa futura sposa. Intanto il Cavaliere Sconosciuto, in attesa di salire al trono e di potersi unire in matrimonio all’amata Nadina, si batte impavidamente contro innumerevoli avversari e affronta pericoli d’ogni genere, senza mai retrocedere, o venire a patti, o scoraggiarsi, come si addice al perfetto eroe senza macchia e senza paura. Bindra, con la sua forza erculea, rappresenta la fedeltà e la tenacia incrollabile: non c’è ostacolo che scanserebbe, né rischio che non correrebbe pur di prestare un valido aiuto al suo amico e signore, anche se molte delle situazioni nelle quali essi si trovano invischiati non sono di quelle che si risolvono semplicemente allargando le sbarre di una prigione con la forza delle braccia, o afferrando una belva feroce per la criniera e trafiggendole il cuore con la lama di un coltello. L’abilità e l’intelligenza del Cavaliere non sono certo elementi meno essenziali, e qualche volta neppure questi sono sufficienti, come capita quando una potente operazione di magia nera si impadronisce del bel giovane e lo riduce a un automa, nelle mani di una potenza estranea. Ma alla fine il male viene sempre sconfitto, anche perché i nostri eroi rappresentano una squadra compatta ed estremamente affiatata: darebbero la vita l’uno per l’altro, e la somma del loro coraggio e dell’affetto che li unisce produce una forza semplicemente irresistibile, che finisce per avere ragione di qualunque ostacolo.
Tre sono gli elementi che mancano del tutto, grazie a Dio, nelle storie del Cavaliere Sconosciuto: la violenza, la grossolanità e l’inverosimiglianza. È un fumetto d’avventura dove la violenza è ridotta al minimo indispensabile, ma, soprattutto, dove essa non viene mai enfatizzata. Manca del tutto il compiacimento nel mostrarla, e, del resto, gli eroi buoni sono animati da un senso di giustizia, ma non da uno spirito da giustizieri: quel che cercano non è la punizione del malvagio, ma il ristabilimento dell’ordine naturale delle cose, turbato da chi non lo accetta, ma, spinto da passioni disordinate, vuole di più, sempre di più. E mentre in Tex, per esempio, la volontà di ripristinare la giustizia finisce per diventare una missione e, forse, una ossessione (tanto più naturale in quanto lui stesso è un ex fuorilegge, che ha subito gravissimi torti quando era giovane e forse alberga ancora forti sensi di colpa nei confronti della sua famiglia), che, da un certo punto di vista, un po’ lo disumanizza, nel Cavaliere Sconosciuto l’anelito alla giustizia, che pure è innato, non diventa mai un principio a sé stante, ma fa parte delle situazioni concrete in cui viene a trovarsi, e nelle quali è praticamente costretto a intervenire, per difendere se stesso o gli altri. Questo ne fa un personaggio forse meno carismatico, ma tutto sommato più “umano”, che si muove all’interno dello stesso mondo al quale appartengono tutti gli altri, compresi i suoi nemici. Per questo gli si perdona volentieri anche il difetto, se pure è tale, di avere in sé qualcosa di manierato, sia nel suo agire che nella sua stessa persona fisica (abbiamo detto della somiglianza con l’attore Guy Williams, dal sorriso smagliante e inossidabile, che fa venire in mente la réclame di un dentifricio), con quei vestiti un po’ troppo attillati che valorizzano la sua prestanza, le spalle larghe e i fianchi stretti, e che tradiscono un certo qual debito nei confronti dei supereroi statunitensi in costumi aderentissimi, da Superman a Batman. Un difetto che, del resto, condivide con la sua leggiadra fidanzata, la quale si direbbe uscita da un film esotico di Hollywood e che fa pensare a Hedy Lamarr in Sansone e Dalila di Cecil B. DeMille (ma ricorda anche Jennifer Jones o Audrey Hepburn, almeno nei tratti del visto e nei lungi capelli corvini). La quale, in compenso, è talmente bella, dolce e coraggiosa, che le si perdona volentieri tutto il resto. Quanto al gigantesco Bindra, la sua forza sbalorditiva non lo spinge verso l’eccesso e la hybris e non ne fa un bruto, né un personaggio incline alla brutalità; ricorre alla forza per necessità e per la buona causa, e in fondo, forse, gode di più a usarla per sollevare tronchi d’albero che minacciano di schiacciare qualcuno, che non per spezzare le ossa ai cattivi. Come il Cavaliere Sconosciuto non diviene un giustiziere, e Nadina non diviene un puro oggetto decorativo, così Bindra sfugge al pericolo di diventare un forzuto da circo, un personaggio caricaturale (come il canadese Pat nelle storie di Tex Willer), anche se il rischio effettivamente c’è, e gli autori si fermano un attimo prima di lasciarvelo cadere. Lui è, e rimane, un gigante buono, lo si vede dalla faccia e dal sorriso; non ha affatto il gusto del sangue (che trapela invece in Tarzan), aborrisce dall’inutile violenza e, in realtà, possiede un animo insospettatamente gentile e uno spirito fanciullesco, persino ingenuo, che ne fanno, se non uno sprovveduto, un’anima candida. I lettori si saranno chiesti quale sia il suo quoziente intellettivo, e non avranno trovato una risposta del tutto soddisfacente, perché si tratta di un personaggio in bilico, come Sancho Panza.
Il secondo elemento che manca, per fortuna, nelle storie del Cavaliere Sconosciuto è la grossolanità. Il linguaggio dei personaggi è sobrio e misurato, qualche volta tendente all’enfatico, ma sempre corretto. Niente parolacce, niente espressioni triviali, né volgarità, e sia pure implicite. E anche le situazioni non sono mai moralmente ambigue, il bene e il male si riconoscono a prima vista. Insomma c’è un’atmosfera di pulizia: sono fumetti che qualunque genitore può comprare al suo figlioletto senza il timore di mettergli in mano una mina a scoppio ritardato. Prendendo il Cavaliere Sconosciuto a suo modello, il piccolo lettore non ne ricaverà il minimo danno, sia pure collaterale: non si abituerà a scherzare con le cose cattive, né a parlare in modo “pesante”, né a ragionare in maniera grossolana. E scusate se è poco. Il terzo elemento che brilla per la sua assenza, infine, è la mancanza d’inverosimiglianza. Le avventure del Cavaliere Sconosciuto sono storie fantasiose, talora anche improbabili, ma non inverosimili. Non c’è in esse quella rozza mancanza di realismo che caratterizza, in particolare, i supereroi americani: non ci sono personaggi che volano nel vuoto, che si trasformano fisicamente, che diventano invisibili, e così via. Si resta coi piedi per terra, non per mancanza di fantasia, ma per un senso di sano buon gusto. La fantasia del bambino che legge quelle storie e ammira quei disegni trova di che sbizzarrirsi, ma entro i limiti del possibile. Non perde il contatto con la realtà, non si aliena viaggiando in mondi ultraspettacolari, che però non esistono né possono esistere. Quel che succede al cavaliere Sconosciuto, a Nadina e a Bindra appartiene alla sfera della realtà, del nostro mondo concreto, al quale apparteniamo, anche se proiettato in un tempo e in uno spazio fantasiosi, però possibili. Ci sono due maniere di stimolare la naturale fantasia del bambino: servirsene per distaccarlo dalla realtà, oppure accompagnarla nella scoperta della realtà. Grecchi e Marcello, da gran signori del fumetto, scelgono la seconda strada, che è una strada che privilegia la qualità rispetto alla quantità. Infatti, crediamo che il Cavaliere Sconosciuto non sia mai diventato un albo a larghissima tiratura, ma che sia rimasto sempre una lettura, se non proprio di élite, comunque riservata agli intenditori: non nel senso di una élite culturale, ma in quello di un élite del buon gusto e dei san i principi.
Questo ci porta a interrogarci su ciò che un fumetto dovrebbe essere, per essere una buona lettura e per non divenire un pericoloso nemico che introduciamo in casa nostra, e che lavorerà a danno dei nostri figli. Non è una domanda inutile, anche se forse i genitori non se la sono mai posta. Eppure è difficile sottovalutare l’importanza che un fumetto per giovanissimi gioca nella crescita di un lettore: certo assai più grande di quella dei libri di scuola, per esempio. D’altra parte, l’adulto, molto spesso, non si chiede se le riviste che legge lui stesso, per non parlare dei romanzi, non siano, per caso, dei subdoli nemici che lavoreranno contro di lui, e che un poco alla volta, con l’abitudine, lo renderanno peggiore: più disincantato, più cinico, meno sensibile, perfino più incline al gusto della violenza, sia pure solo a livello mentale. Ci sembra che la risposta sia che un fumetto, proprio come un libro, è buono se riesce a rendere un po’ più buoni i suoi lettori, e specialmente i più giovani, i bambini e i ragazzini, quelli che non possiedono ancora gli strumenti per mettere una distanza psicologica e morale fra le storie che leggono, coi personaggi che le popolano, e se stessi. In questo senso, si potrebbe dire che la parabola editoriale del Cavaliere Sconosciuto, fra il 1967 e il 1976, illustra meglio di tanti studi sociologici la parabola (discendente) della società italiana di quel decennio decisivo. È il decennio in cui il boom si esaurisce e si va verso la stagnazione, ma il consumismo continua a galoppare, anche se spinge la gente a consumare più di quanto potrebbe ragionevolmente permettersi. Ed è quello in cui si passa dalla poesia delle utopie di rigenerazione alla prosa brutale del disinganno, della contestazione violenta, del terrorismo. La cultura italiana è bloccata; i vecchi, consunti e fasulli maîtres à penser, i sedicenti artisti tipo Alberto Moravia e Umberto Eco, sparano ripetitivamente le loro cartucce, ora pornografiche, ora lambiccate e pseudo intellettualistiche; i maiali di Pasolini divorano i capitalisti malvagi e il ventriloquo Dario Fo miete successi deridendo tutto e tutti (tranne se stesso). I bambini che hanno letto le storie del Cavaliere Sconosciuto sono stati fortunati: un fumetto così signorile, tutto italiano, non è una merce frequente.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels