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13 Agosto 2018La chiesa di San Gottardo Vescovo sorge, sulla sinistra, lungo la strada che da Udine conduce a Cividale; venendo dal centro, si passa davanti al santuario della Madonna delle Grazie, si imbocca il borgo Pracchiuso, poi si esce sul piazzale Oberdan, lo si attraversa e si prosegue sempre dritti seguendo lo stradone ampio e non molto trafficato, fiancheggiato da due file di alberi. San Gottardo di Hildesheim è un santo di origine bavarese, divenuto poi vescovo nella Germania settentrionale, vissuto a cavallo tra il X e l’XI secolo, che molto si adoperò per diffondere la riforma cluniacense nei monasteri tedeschi e che venne canonizzato circa un secolo dopo la morte; il suo culto è molto diffuso nella vasta regione a cavallo delle Alpi, infatti il suo nome è legato a uno dei principali valichi di questa catena montuosa. Nel nostro Paese è presente soltanto nelle regioni nord-orientali: in provincia di Brescia, in quella di Bergamo, in quella di Trento, in quella di Treviso e, appunto, in quella di Udine. Nonostante l’edificio attuale, a pianta ottagonale e con una bella torre campanaria al fianco, sia relativamente recente, poiché ha da poco compiuto un secolo, le sue origini, invece, sono antiche: in questo luogo, una chiesa dedicata a San Gottardo esisteva già ai tempi del Patriarcato di Aquileia, prima della metà del 1300. È verosimile che a introdurre il culto di San Gottardo siano stati dei pellegrini, o forse dei mercanti, di ritorno dalla Germania, o forse gli stessi patriarchi aquileiesi, che avevano anche il titolo di duchi del Friuli, i quali per un certo periodo furono tutti tedeschi e ghibellini, e nominati direttamente dagli imperatori, al punto che lo Stato patriarcale fu, politicamente una specie di appendice della Germania.
Riportiamo dal sito www.diocesiudine.it:
La chiesa ha radici molto antiche. Le prime testimonianze risalgono al 1335 quando il patriarca Bertrando la consacrò a San Gottardo e la affidò ai Monaci Camaldolesi (prima era abitata da eremiti). Nel 1454 divenne lazzaretto per gli appestati. I monaci si trasferirono e la chiesa venne affidata alla Confraternita di San Gottardo. Migliaia le persone che vi passavano ogni anno, anche perché divenne luogo di quarantena per chi entrava in città. La chiesa, per questo, fu considerata troppo piccola e tra il 1625 e il 1642 venne costruita l’attuale. Eretta a cappellania e affidata alla confraternita di San Gottardo, la chiesa venne però chiusa al culto nel 1810, con l’occupazione napoleonica del Friuli che, ricorda il prof. D’Arrigo, comportò la soppressione di ordini e confraternite religiose. L’area — assieme al lazzaretto — divenne accampamento francese e la chiesa deposito di munizioni, venendo spogliata di molti suoi beni, tra cui anche il pavimento. Con il ritorno degli austriaci, nel 1813, l’«ente chiesa di San Gottardo» venne incamerato dal Governo austriaco che, nel 1843, lo vendette al pubblico incanto. Così, la proprietà passò prima a Pietro Antivari, poi alla figlia Nina la quale, sposatasi con Giovani Antonio Mauroner, portò in dote i terreni e la chiesa. L’edificio divenne deposito per le attrezzature agricole. Cosicché gli abitanti di San Gottardo, desiderosi di avere un loro luogo di culto, pensarono di costruire una chiesa nuova sull’incrocio con via Morosina. Alla fine, prosegue D’Arrigo, giunse provvidenziale la generosa offerta di Giuliano Mauroner, figlio di Antonio e Nina, che con atto notarile, il 16 aprile 1914, fece una donazione in perpetuo alla popolazione di San Gottardo sia della chiesa che dei fondi annessi. Fondamentale fu l’opera di intermediazione di mons. Pietro Dell’Oste, parroco delle Grazie, sotto la cui giurisdizione ricadeva allora San Gottardo. Seguirono i lavori di ripristino e la chiesa fu inaugurata il 7 giugno del 1914. Successivamente la diocesi eresse la chiesa a cappellania e, nel 1955, a parrocchia.
I casi della vita sono strani e non finiscono mai di sorprenderci. Pur avendo girato in lungo e in largo le strade, i viali e la periferia della nostra città, quando venne il momento di lasciarla per sempre, all’inizio dell’adolescenza, questa era una delle pochissime chiese che non avevamo mai visitato, situata com’è in un quartiere fortemente eccentrico e relativamente lontano dal centro, dove noi abitavamo, proprio ai piedi del Castello. In più, non c’è un vero paese, ma solo una grande strada fiancheggiata da case e da numerose caserme, quando c’era ancora il sevizio militare obbligatorio e perdurava la Guerra fredda, per cui la nostra città era piena di soldati e di servizi logistici e amministrativi dell’esercito. Ci eravamo sì passati davanti, in bicicletta, per fare una corsa a Cividale; ma dentro, non eravamo mai stati. Il destino volle che fossimo poi chiamati a svolgere il nostro servizio militare, una decina di anni più tardi, in una brigata alpina, proprio da queste parti; e che in una sera umida e buia, nelle ore della libera uscita, capitassimo appunto davanti alla chiesa di San Gottardo Vescovo, dai bianchi muri poligonali, scanditi da lesene doriche, che spiccavano contro le sagome scure degli alberi, e, vedendola illuminata, decidessimo di fermare la macchina e di entrare. Si stava celebrando la Santa Messa; l’interno era semibuio e c’erano poche persone, che però seguivano la cerimonia con molto fervore. Restammo particolarmente colpiti dalle letture bibliche e specialmente da quel passo del Libro di Isaia che parla del ritorno del popolo d’Israele dopo la fine dell’esilio in Babilonia:
Così, partirete con gioia e sarete condotti con sicurezza. Monti e colline vi acclameranno e tutti gli alberi dei campi vi batteranno le mani. Al posto dei roveti crescerà il cipresso, al posto delle ortiche verdeggerà il mirto. Questo sarà per il Signore a rinomanza, un monumento eterno che non verrà mai distrutto.
È stata come una rivelazione, dopo anni di dubbi e di distacco dalla pratica religiosa, simili all’esilio in terra straniera descritto dal profeta biblico. Sì, noi abbiano una patria, da qualche parte, ma non quaggiù; una Patria celeste, che ci attende, non qui, ma altrove; una Patria celeste dove gli Angeli ci accoglieranno festanti, insieme ai nostri cari che ci hanno preceduto, ci batteranno le mani e ci abbracceranno, dopo il lungo e faticoso pellegrinaggio sulle strade polverose, sassose e spinose della vita terrena. L’Angelo Custode, che sa e vede, ci aveva dato appuntamento in quel luogo fuori mano, in una sera piovosa del tardo autunno, proprio nella nostra città natale, ma là dove non eravamo mai entrati prima, per rimetterci sulla strada giusta. E a fornirci l’occasione decisiva era stata la bella liturgia cattolica, pur così ridimensionata, per non dire mutilata, dopo la cosiddetta riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Ogni parola, ogni gesto che fanno parte della santa Messa possono svolgere una funzione decisiva nella lotta tra la fede e l’incredulità, e avere un’importanza immensa nella storia delle singole anime che partecipano al sacro rito. Niente deve essere casuale, improvvisato, lasciato all’arbitrio del celebrante; la Messa non è di proprietà d’un singolo sacerdote, è patrimonio della Chiesa nella sua interezza, si inserisce nel mistero della comunione dei Santi e ha come vero celebrante il Signore Gesù, che si serve degli operai della sua vigna, quantunque indegni in quanto esseri umani, ma che sotto l’azione dello Spirito Santo, s’innalzano, diventano dei giganti, superano di molto i comuni limiti della natura umana. È il mistero del sacerdozio, di un alter Christus che, quando amministra i sacramenti e quando celebra la Messa, se si lascia riempire dallo Spirito Santo e si unisce totalmente, con la mente e con il cuore, alla Volontà divina, si trasforma in una creatura nuova, e talvolta anche gli altri possono vedere dall’esterno la straordinaria trasformazione. Nel caso di san Pio da Pietrelcina, che quando officiava la Messa si trasfigurava e si immedesimava al punto che il rito poteva durare anche tre ore, e la contemplazione del Santissimo, prima della Eucarestia, anche mezz’ora e più, abbiamo, fra le altre, la testimonianza di un sacerdote, Marcellino Iasenza Niro: «Il Padre. San Pio da Pietrelcina» (San Giovanni Rotondo, Convento di Santa Maria delle Grazie, 2007, vol. III, pp. 629-630):
«Fra Daniele Natale, un fratello molto caro al Padre, quando era a Foggia quale cuciniere della nostra fraternità, fu pregato dal p. provinciale, p. Agostino da S. Marco in Lamis, di salire a S. Giovanni Rotondo per supplire il frate sacristia nell’accompagnare P. Pio a confessare gli uomini nel pomeriggio. Intorno alle 14,30 egli andava in coro ad aspettare il Santo che, prima di scendere ad amministrare il sacramento del perdono, vi si recava per raccogliersi in preghiera.
Egli racconta: "Un giorno ero in attesa del suo arrivo, quando si aprì la porta ed egli entrò. Rimasi senza fiato, perché mi vidi davanti un gigante, un colosso. Un P. Pio così non lo avevo mai visto. Era alto, tanto alto che la sua statura arrivava all’altezza del Crocifisso, collocato sul parapetto del coro. Si inginocchiò al solito posto e vi rimase immobile per un quarto d’ora circa.
Poi si alzò. Ma quale trasformazione! Appariva piccolo ed invecchiato tanto che si faceva fatica a riconoscerlo.
Detti una rapida occhiata a P. Agostino, che seduto nello scanno del superiore, mi guardava. Avvicinatomi a lui, mi disse sotto voce: "Hai visto che fenomeno?".
"Padre provinciale, che cosa avete visto voi?", domandai.
"Quello che hai visto tu. Un colosso quando è entrato".
"E un vecchietto quasi cadente, quando è uscito", aggiunsi io.
P. Agostino si mise le mani alle tempie, scuotendo la testa: "Noi non capiremo mai questo Padre", mormorò.
Di questo notevole fenomeno, già trattato in un precedente articolo, si può dire che, visto con gli occhi della fede non è poi così difficile da capire e da accettare, anche se Umberto Eco o Margherita Hack, imbottiti di scientismo ottocentesco e di razionalismo a un tanto il chilo, mai e poi lo potrebbero ammettere, e parlerebbero invece di suggestione o forse, di tendenze isteriche legate a chissà quali turbe emotive, magari originate da un trauma sessuale infantile. Loro e quelli come Piero Angela o Massimo Polidoro hanno creduto d’aver smontato, per mezzo del C.I.C.A.P., uno ad uno, tutti i fenomeni soprannaturali legati alle esperienze mistiche: perché gli uomini vedono solo quello che sono capaci di vedere, ossia, per parlare più esattamente, solo quello che sono disposti a vedere; e i bambini, che sono disposti a vedere ben altro, vedono, effettivamente, molto di più, e non è certo un caso che alcune delle più famose apparizioni mariane (La Salette, Lourdes, Fatima) abbiano avuto per testimoni proprio dei bambini. Ma tornando al discorso sulla liturgia, e alla sua importanza per la fede dei cattolici, non vi è alcun dubbio che non la si può sottovalutare, a meno che si abbia lo scopo di attaccare, attraverso la liturgia, la fede stessa: ciò che probabilmente aveva in mente monsignor Annibale Bugnini, il prelato massone che fu regista della cosiddetta riforma liturgica, dal 1964 al 1969, alla quale si deve il Nuovo Messale Romano. Il liturgista spagnolo Matia Augé, classe 1936, uno dei massimi esperti in materia, con qualcosa come 260 pubblicazioni al suo attivo, si arrampica alquanto sugli specchi per spiegarci che non c’è alcuna discontinuità fra la liturgia di prima e dopo il Concilio; nel suo libro Liturgia, di 320 pagine, sfiora pudicamente l’argomento in tre o quattro paginette, per dire, in sostanza (San Paolo, 2003, p. 62):
La riforma liturgica è stata attuata passando attraverso tre fasi principali: il passaggio graduale dal latino alla lingua viva (1965-1966), che ha avuto uno spazio maggiore di quanto previsto dalla "Sacrosanctum Concilium" al n. 36, in fedeltà più allo spirito che alla lettera del documento conciliare; la redazione dei libri liturgici e la progressiva pubblicazione dei nuovi, con la relativa traduzione iniziata nel 1969; la terza, più complessa e delicata, – iniziata timidamente e non finita ancora — dell’adattamento dei riti, affidata alle conferenze episcopali, sotto la guida degli organismi centrali della Santa Sede.
Ah, questi progressisti sono davvero impagabili nella loro rocciosa presunzione; eppure, ogni tanto, senza che se ne avvedano, anche a loro scivola di bocca una parola veritiera, che li tradisce. A parte l’opinabile giudizio sulla timidezza della riforma liturgica, si noti come l’abolizione del latino (lingua morta, dato che le lingue nazionali son definite vive?) viene descritta con l’espressione ha avuto uno spazio maggiore di quanto previsto dalla "Sacrosanctum Concilium". Ma subito il Nostro si riprende, e precisa trionfante: in fedeltà più allo spirito che alla lettera del documento conciliare. Oh, bella!, da quando fa testo lo spirito, con la lettera minuscola, invece dei documenti?