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Omaggio alle chiese natie: la chiesa del Tomadini

Questa, poi; San Girolamo Emiliani! E che chiesa è? Dove si trova? Siamo certi che il 99,9% degli abitanti di questa città non ne ha mai sentito parlare, così come non ne sapevamo nulla neanche noi, da bambini, quando ci abitavamo. Eppure, allora — negli anni ’60 del Novecento — il Collegio Tomadini era ancora in città, anzi, era un’istituzione estremamente conosciuta, mentre poi si è trasferito in periferia, in via Martignacco, e si è trasformato da istituto per gli orfani in convitto per gli studenti universitari; e la chiesa di cui parliamo era, semplicemente, la chiesa dell’Orfanotrofio, oltre tutto affacciata sulla strada e non nascosta all’interno. La strada, naturalmente, è la cara, vecchia via Tomadini, una di quelle che hanno conservato l’antico aspetto dei borghi d’un tempo, con le case basse e modeste, e il pavimento di ciottoli levigati dall’acqua di fiume: lunga e stretta, tranquilla, per non dire austera, si allunga da via Treppo a via Pracchiuso, in uno dei quartieri più tranquilli e appartati della città. Nemmeno una bottega qualsiasi, nemmeno un’osteria: solo vecchie case d’abitazione private e due grandi complessi per l’educazione dei giovani: il Tomadini, appunto, sul lato sinistro della strada venendo da via Treppo, un po’ dopo la metà; e l’istituto Renati, o casa di Carità, suddiviso nei due rami maschile e femminile, sul lato destro, quasi all’inizio. Il fatto è che la storia di Francesco Tomadini è esemplare di come si perdano velocemente i ricordi della propria storia e anche dei personaggi notevoli che molto si sono adoperati per il bene della loro città e del loro territorio, in una società che corre troppo in fretta e con una Chiesa che sembra contagiata dallo stesso male della modernità, la smania di andare avanti, anche se non si sa bene dove, e una sorta di rabbia contro il proprio passato, una specie di autocensura nei confronti di ciò che si è stati. A ciò si aggiunga che monsignor Francesco Tomadini, nato a Udine il 13 dicembre 1782 e morto il 30 dicembre 1862, a ottant’anni, sempre nella sua città, da buon friulano di una volta, era parco, anzi avaro di parole, per non dire di scritti, ma in compenso generosissimo di opere: è stato uno degli udinesi che si sono maggiormente prodigati in favore della parte più debole della popolazione, gli orfani, i bambini poveri e abbandonati, i mendicanti, per i quali andava a chiedere la carità, lui originario di una famiglia ricca, fattosi prete contro la volontà dei genitori e contro i cattivi auspici di una salute cagionevole, che già gli aveva impedito di farsi frate cappuccino, e questo in un tempo di pessimi raccolti, di carestie e di epidemie, che misero a durissima prova la pur solida tempra del popolo friulano.

Uomo schivo, accettava con riluttanza le altissime onorificenze che a un certo punto gli vennero dall’alto, perfino dall’imperatore Francesco Giuseppe (il Friuli centro-occidentale fu austriaco fino al 1866; quello orientale, fino al 1918) e quasi si nascondeva, tutto preso dalla febbre di fare, di trovare una adeguata sistemazione per i "suoi" orfanelli, scacciato da un posto all’altro, finché nel 1852 poté acquistare e sistemare convenientemente la struttura della via che ora porta il suo nome: aveva ben altro da fare, lui, che andare a ricevere medaglie, o pronunciare discorsi. Sacerdote secolare dal 1808, non predicava, o, almeno, a noi non è rimasto nulla di scritto, assolutamente nulla; e tuttavia prediche ne avrà tenute, visto che è stato rettore della chiesetta del Cristo per la bellezza di quasi mezzo secolo (intendiamo la chiesetta della Confraternita del Santissimo Crocifisso, o semplicemente del Cristo, che aveva sede in Largo Ospedale Vecchio, e non certo la chiesa del Cristo della odierna via Mantica, che è una parrocchia moderna). Ma i friulani sono così: maniche rimboccate, e pochissime parole. Non che monsignor Tomadini somigliasse minimamente ai cosiddetti preti di strada di oggi: lui aveva dedicato la sua vita ai poveri, ma partendo da una spiritualità profonda, commovente: era un contemplativo che per fare la volontà di Cristo si è immerso eroicamente nelle cose di quaggiù, senza però mai perdere il contatto con l’assoluto, senza mai venir meno al rapporto privilegiato con Dio, senza in alcun modo lasciare che la sua spiritualità si appannasse. Uomini così riescono a realizzare molto, ma perché pregano moltissimo: la loro straorinaria capacità di lavoro non viene da una pretesa, tutta politica, di cambiare il mondo, ma dalla ferma consapevolezza che per cambiare il mondo bisogna prima cambiare se stessi, e che per cambiare se stessi bisogna lasciar fare a Dio, totalmente, senza riserve. Insomma quest’ometto malaticcio, non bello, ma dalla volontà di ferro e dal cuore grande, è stato davvero un gigante silenzioso.

Provate, adesso, a cercare informazioni su di lui, per non dire sulla chiesa che sorgeva, e sorge tuttora, in via Tomadini: non troverete praticamente nulla. Nessuna voce sulle enciclopedie a carattere nazionale, tranne il Dizionario biografico dei friulani; nessuna voce su Wikipedia; a stento troverete un suo ritratto. Perfino il fondamentale lavoro di Giuseppe Marchetti, Il Friuli, uomini e tempi, si ricorda a malapena di lui con due righe sbrigative e svogliate, mentre dedica un intero capitolo al suo omonimo Jacopo Tomadini (1820-1883), sacerdote anche lui e compositore musicale, ma nato a Cividale e nessuna parentela col Nostro, al quale è dedicato un noto conservatorio musicale cittadino. Fel resto, si sa che nessuno è mai profeta nella sua patria, e questo vale a maggior ragione per la Paria del Friuli, sempre avara di riconoscimenti ai suoi figli, specialmente quando sono davvero grandi, ma non nel senso che piace tanto al mondo: un esempio per tutti, il teologo Cornelio Fabro, di Talmassons (1911-1995), grande studioso di Kierkegaard, del quale oggi a fatica resta la memoria fra i pochi specialisti del settore. E se vi recate nella vecchia via dal pavimento acciottolato, troverete, al numero civico 34, la chiesa sprangata e male in arnese, coi muri mezzo scrostati e le solite scritte vandaliche che li deturpano: in compenso, né una targhetta, né un minimo indizio segnaletico. Sembra quasi di trovarsi in un luogo spopolato e abbandonato. Eppure, quando monsignor Tomadini morì, ai suoi funerali c’era una folla immensa, sterminata: la città lo aveva capito, lo aveva amato, tutti volevano ringraziarlo. Ma oggi? Dove va a finire una società che non onora e non ricorda, con devozione e gratitudine, le sue grandi figure? E chi più di lui merita questo appellativo? Se un uomo può essere considerato grande per i meriti che ha acquistato grazie al bene distribuito gratuitamente, senza pretendere nulla per sé, egli è stato più grande di tanti sedicenti intellettuali e anche di certi uomini di Chiesa, i quali fanno del bene, sì, ma — come dice Gesù Cristo — hanno già ricevuto la loro mercede, perché sono sempre davanti ai microfoni e alle telecamere, sono sempre in posa, rilasciano interviste, postano messaggi in rete, costruiscono blog e parlano di tutto, si vede che hanno molto tempo da dedicare a tali cose; lui no, non aveva tempo da perdere, e nulla era più lontano dal suo animo semplice e schietto che assumere atteggiamenti ridondanti o assecondare le proprie tendenze narcisistiche. Che imparino da lui, i vescovi e i preti di strada dei nostri giorni: se avessero la millesima parte della sua modestia e della sua grandezza, si vergognerebbero che le loro foto vadano giro dappertutto, mentre per vedere un ritratto di lui bisogna fare una bella fatica. Oggi la Fondazione Tomadini sta tentando di porre la sua candidatura per avviare il processo di beatificazione, ma non è facile; i friulani non sono mai stati bravi a brigare, a trovare e magari anche a ungere un poco le maniglie giuste. Per la verità, qualcuno aveva lanciato l’idea subito dopo i commoventi e affollatissimi funerali; ma è passato più di un secolo e mezzo, e non è successo niente.

Dice don Luciano Segatto, direttore della Fondazione che ora ha sede in Via Martignacco (sul Messaggero Veneto del 28 dicembre 2012, articolo di Michela Zanutto):

Parlare della spiritualità di Francesco Tomadini è un rischio. In apparenza, almeno secondo i canoni ufficiali, non c’è traccia di spiritualità in lui. Soprattutto se la spiritualità di un prete si deduce da quello che ha scritto. Non c’è in giro, a parte il testamento, uno straccio di predica, una griglia di esercizi spirituali, un pezzo di lettera a chiunque, tanto meno un quadro pedagogico. La sua spiritualità sta nel fare bene il bene. E allora Tomadini è un prete secolare friulano che ha prodotto non carta ma carità». Non ha lasciato nulla di scritto. Ma è la vita di monsignor Tomadini a essere considerata dalla chiesa una predica vivente. Se "cultura friulana" significa "poche parole e molti fatti", il Tomadini ha fatto centro.. Un autentico prete di spiritualità friulana, per il quale tra il dire e il fare non c’è di mezzo il mare, semplicemente perché non c’è il dire, ma soltanto il fare. La forza sta nel silenzio operoso. Ciò che si vede è poco o nulla, quello che conta è il sacrificio dedicato agli altri. (…).

Voleva appartenere a Dio nella contemplazione e fu inchiodato all’operosità. Un bell’esempio di spiritualità sacerdotale secolare. Il prete, più che elemosinare i carismi di congregazioni religiose o di movimenti ecclesiali, dovrebbe ritrovare le coordinate di una sua specifica spiritualità immerso nel dinamismo pastorale, disponibile con la gente e per la gente senza orari, ma con una forte tensione contemplativa, perché è solo la contemplazione a essere risorsa per l’azione pastorale. Il sacerdote Tomadini ne è stato un fulgido esempio, anche se è sfuggito alle cronache degli altari e dunque, in un certo senso, si è perso alla memoria della sua diocesi.

Pensiamo a queste cose, alla modestia di monsignor Tomadini, a questa bella chiesa ottocentesca che se ne va in rovina, nonostante la presenza dell’Università di Udine nell’ex orfanotrofio di via Tomadini, dove hanno trovato la loro sede le facoltà del polo giuridico ed economico. La chiesa, a pianta rettangolare, è dedicata a San Girolamo Emiliani; la facciata è semplicissima, scompartita da due cornici orizzontali e da quattro lesene, nessuna finestra, solo un portone preceduto da due gradini in pietra e sormontato da un architrave, un timpano triangolare dagli orli fortemente rilevati; ai lati, a metà altezza, due balconcini con colonnine animano un po’ l’insieme e gli conferiscono una certa leggerezza. Questo è quanto si può vedere dalla strada. Ma quel portone sempre chiuso, quell’erba che cresce fra i ciottoli della via, quel senso di abbandono, quella totale assenza di qualsiasi una indicazione che fermi l’attenzione del passante, colpiscono dolorosamente: è possibile trascurare così un edificio sacro che ha visto centinaia di bambini orfani pregare sotto la direzione di un sant’uomo, e dimenticare tanto in fretta i propri concittadini illustri, che sono stati anche, guarda caso, dei veri maestri di spiritualità e di purissimo cristianesimo? Quale contrasto stridente con quel tale personaggio che oggi imperversa sulla stampa, in televisione, sui social network, e al quale è stato dedicato un apposito giornale illustrato intitolato Il mio papa; che si compiace dell’adulazione più smaccata e si esibisce continuamente, fa il simpaticone dappertutto, ma specialmente sugli aeri che volano a diecimila metri d’altezza, dove improvvisa dubbie celebrazioni matrimoniali, anche se ha un’anima di tiranno, e sulla sua coscienza pesano come macigni degli atti gravissimi, come la persecuzione dei francescani e delle francescane dell’Immacolata, di cui non si è mai degnato di fornire le ragioni (e lo stuolo dei suoi turiferari si è ben guardato dal chiedergliele), o la protezione e la fiducia accordati a personaggi ambigui o, in certi casi, addirittura turpi, ripugnanti: arrivisti, finanzieri ambiziosi e senza etica, monsignori lussuriosi, sodomiti, pedofili, bugiardi, disonesti; quell’indegno personaggio che si è mal guadagnato una vastissima popolarità mediatica, nello stesso tempo in cui ha trascinato l’autorevolezza della Chiesa ai livelli più bassi dell’età moderna, e ha gettato nel turbamento, nella confusone e nell’amarezza milioni di cattolici, del cui dramma interiore non gl’importa nulla, perché tanto lui non bada a queste inezie, non gl’importa della dottrina e poi Dio non è cattolico e, ad ogni modo, il Dio in cui lui dice di credere non lo è. Quale incommensurabile distanza fra lo schivo, quasi invisibile, piccolo grande uomo friulano del XIX secolo, e il signore argentino malati di esibizionismo, che una congiura di cardinali massoni ha eletto papa dopo le misteriose e sconcertanti dimissioni del suo predecessore: un gesuita che, per statuto del suo ordine religioso, mai avrebbe dovuto sognarsi d’essere eletto papa, e invece lo è diventato, e nessuno ci ha trovato nulla da ridire: tale è il livello di estremo avvilimento, servilismo e piaggeria, cui si sono abbassati i mezzi d’informazione di massa, sia laici che cattolici; o piuttosto dovremmo dire ex cattolici, visto che né Famiglia Cristiana, né L’Avvenire, né, meno di tutti, La Civiltà Cattolica, possono essere più considerati giornali ispirati alla dottrina cattolica e alla visione cattolica della vita. Una cosa è verta: non possiamo rassegnarci. La degenerazione della Chiesa attuale, letteralmente infestata da preti che hanno perso la fede e la cui principale preoccupazione è quella di sdoganare il peccato e renderlo accetto alla coscienza dei fedeli, pervertendo il loro senso morale, si inserisce in un quadro più vasto di crisi della verità e di rimozione della memoria. Dobbiamo ricominciare a ricordare, a pensare, a sentire. Donaci, Signore, un cuore nuovo, uno spirito nuovo; toglici il cuore di pietra e dacci un cuore di carne (cf Ez 36,26).

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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