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Omaggio alle chiese natie: la chiesa del Renati

Se si passa in via Tomadini da via Treppo, l’istituto Renati, che è un pezzo di storia della città, appare subito, sul lati della strada, con la lunga facciata spartita nelle due sezioni ben staccate, che ricordano, ovviamente, la pedagogia di un tempo: maschile e femminile. Ogni scuola collegio e istituti religioso aveva allora la sua chiesa provata e il collegio Renati non faceva eccezione: la sua chiesa, infatti, prospetta la facciata proprio su via Tomadini e quindi è impossibile non notarla. Senza dubbio tutti gli udinesi la conoscono, ma, proprio per la sua appartenenza a un collegio privato, nessuno l’ha mai visitata, per cui romane una di quelle presenza familiari, ma al tempo stesso elusive: impossibile immaginare quell’angolo appartato della città vecchia, con la strada dall’acciottolato alquanto sconnesso, senza la facciata del collegio e della chiesa, ma anche inutile frugare nei cassetti della memoria per cercare una qualche immagine dell’interno, perché una tale immagine non c’è mai stata.

Ci si può chiedere perché proprio questa parte della città, la parte orientale, sia così piena di conventi, chiese e istituti religiosi, inframmezzati da chiostri, orti e giardini: dall’Arcivescovado, al santuario della Madonna delle Grazie, al borgo Pracchiuso, al borgo Treppo, al borgo Ronchi, è tutto un susseguirsi di muri in pietra, di facciate di edifici con file di finestre munite d’inferriate, di campanili, di edicole votive, il tutto inframmezzato da caserme e comandi militari. Questa è senza dubbio la pare "religiosa" della città, molto più meditabonda e silenziosa, mentre la parte profana, quella votata alle attività commerciali, si trova lungo l’asse centrale che va da porta Aquileia a porta Gemona e si espande sul lato occidentale del colle del Castello, dove sono le piazze e gli altri luoghi tradizionalmente riservati al mercato: piazza delle Erbe (san Giacomo), piazza dei Grani (XX Settembre), il mercato generale (via Zanon). Anche in questa parte si trovano chiese e conventi, però meno numerosi e, soprattutto, sparsi in mezzo a quartieri animati, pieni di botteghe e di piccole aziende; mentre nella zona orientale non vi è nulla del genere. È inevitabile chiedersi se ci sia una ragione per questa "divisione delle funzioni", di là e di qua dal Giardino Grande (piazza Primo Maggio). Tutto sommato crediamo di sì, e riteniamo che abbia a che fare con l’esposizione dei quartieri orientali, i quali ricevono il sole al mattino, dalla parte di Cividale, ma poi, durante le ore più lunghe del pomeriggio, sono messi un po’ in ombra dalla mole del Castello, per cui il sole, per essi, tramonta assai prima che nel resto della città, specie nelle brevi giornate invernali. E mentre si può pregare a tutte le ore, le attività commerciali e produttive preferiscono strappare fin l’ultima ora di luce prima del tramonto, quindi preferiscono insediarsi nelle zone rivolte a ovest, verso il sole calante. La stessa cosa vale per le abitazioni private: esse preferiscono addossarsi sul lato occidentale del Castello, dove godono di una migliore esposizione, il che spiega come la parte occidentale della città sia anche molto più popolosa di quella orientale. Durante il Medioevo, e fino alle soglie della modernità, cioè, in pratica, fino alla prima metà del XX secolo, le case erano generalmente molto più basse di quelle odierne, i muri più spessi, gli appartamenti più piccoli e le finestre più strette, per cui il "fattore luce" assumeva un’importanza non indifferente. Le chiese, fin dove possibile, erano costruite con l’abside rivolto a est e la facciata a ovest, in modo che i raggi del sole nascente, simbolo della Redenzione, inondassero l’interno al mattino, avvolgendo l’altare in un alone luminoso. Ovviamente stiamo parlando degli altari che hanno caratterizzato tutte le chiese cristiane per più di millecinquecento anni, orientati verso l’abside; non parliamo degli orribili altari moderni, costruiti dopo il Concilio, che spostano tutto l’orientamento della liturgia dal presbiterio verso la controfacciata e quindi capovolgono le regole dell’illuminazione seguite dagli architetti per così tanto temo, senza contare il danno estetico disastroso e irreparabile arrecato agli interni di migliaia di chiese e di basiliche, anche antichissime. È chiaro che le chiese private degli istituti religiosi, destinate a uso interno e non alla fruizione parrocchiale, dovevano sfruttare lo spazio che avevano, e tener conto della opportunità di rivolgere la facciata verso l’ingresso, cioè verso la strada.

Giuseppe Filippo Renati, alla nascita Davide Pincherle (1705-1767) era un ricco ebreo figlio di un rabbino e una Morpurgo, che si convertì al cattolicesimo e fu particolarmente devoto di San Filippo Neri. Molto impegnato a livello sociale, fondò in via Tomadini un istituto di accoglienza per catecumeni, ebrei e turchi; poi, tramite un accordo con le suore Rosarie, che avevano un convento nella proprietà contigua e che si dedicavano all’educazione delle fanciulle orfane, creò la sezione maschile dell’orfanotrofio, unificando le due opere e dotando così la città di un importante istituto, molto stimato dalla popolazione, per la formazione cristiana e l’avviamento al lavoro dei ragazzi orfani. Alla morte, donò l’istituto alla città che, dopo un periodo di gestione tramite dei reggenti, lo affidò alla Congregazione di carità, una istituzione statale per l’assistenza e la beneficenza. Dal 2002 l’orfanotrofio, completamente ristrutturato, si trasforma in un campus per studenti universitari, e l’anno dopo la chiesa diventa la sede di una comunità ortodossa romena intitolata a San Basilio il Grande. La chiesa, costruita nel 1762 e dedicata alla Beata Vergine della Misericordia, è nota anche come Chiesa della Madonna della Carità e sta in mezzo fra la sezione femminile, a sinistra, e quella maschile, a destra. Qui la strada si restringe bruscamente e per ammirare la semplice facciata settecentesca bisogna alzare alquanto lo sguardo: il portone è fiancheggiato da due minuscole lesene e sormontato da una trabeazione con timpano triangolare fortemente aggettante, una sola finestra rettangolare al di sopra di esso, poi un timpano alla sommità dell’edificio, sempre triangolare. Nessuna decorazione, nessuna scultura, nessun dipinto: massima sobrietà; il barocco, specie negli edifici sacri minori, e nelle città di provincia, assume volentieri questa faccia dimessa, che i libri di storia dell’arte generalmente ignorano, perché si soffermano sulle chiese e sui palazzi famosi che presentano caratteri diversissimi da questi. Anche l’interno, che ospita le spoglie mortali di Filippo Renati, è molto semplice; la cosa più pregevole è l’organo del 1844, opera di Pietro da Corte, di Tolmezzo, e che è tuttora funzionante; l’ultimo restauro è stato eseguito nel 2010 dalla ditta organaria Zanin. All’interno della sezione femminile, poi, per la preghiera delle suore, era stata costruita una piccola cappella di circa 35 metri quadrati, caduta in abbandono e destinata alla demolizione quando l’università subentrò al vecchio istituto. Nel 2011 c’è stata un’accesa polemica da parte di quanti si opponevano alla demolizione, accusando il comune di scarso interesse per gli edifici storici a favore di un proliferare, specie in questa zona della città, di edifici ultramoderni: il nuovo Teatro comunale è stato costruito nel 1997, in forme avveniristiche, nella vicina Via Trento, abbattendo una vasta superficie di vecchi e case. L’editore Piero Mantero, della casa editrice Segno di Tavagnacco, uno dei più strenui avversari della demolizione, ha avanzato il sospetto che la cappella fosse stata addirittura utilizzata per la celebrazione di riti satanici. Anche le ex studentesse dell’istituto si sono mobilitate per salvare la chiesetta delle suore Rosarie, alla quale sono legate da cari ricordi. Finalmente, nel 2012, il piano regolatore ha salvato la cappella, grazie al decisivo intervento del rettore, Cristina Compagno, che ha chiesto e ottenuto di farla rientrare nell’area universitaria, sottraendola al suo mesto destino e, anzi, programmando un intervento di restauro e riqualificazione. Tutto è ben quel che finisce bene: dopo che tanti angoli della città vecchia sono stati buttati giù senza tanti scrupoli da una amministrazione municipale non molto sensibile alla preservazione delle memorie urbane, la vivace mobilitazione della cittadinanza ha scongiurato che si perpetrasse questo nuovo delitto contro un pezzo importante della storia, dell’identità e della tradizione locale. Bastano poche ore per abbattere un edificio vecchio di 200 o 300 anni, ma quel che si è perso, lo si perde per sempre. Quanti udinesi, che pure si vantano di conoscere piuttosto bene la loro città, ricordano che in pieno centro, sul luogo del Palazzo delle Poste, in via Marinelli, sorgeva una grande e bella chiesa del 1700, Santa Maria Maddalena, con annesso l’oratorio dell’Assunzione? E quanti sanno che all’angolo fra Via Viola e via Zanon sorgeva la chiesa di San Nicolò, che era la vecchia parrocchiale di borgo Poscolle, poi sostituita dal Tempio Ossario, negli anni ’30 del Novecento?

Tornando alla vicenda di Filippo Renati, la sua conversione al cattolicesimo, a ventisei anni di età, ci fa venire in mente altri casi analoghi e, a suo tempo, clamorosi: quello di Eugenio Pio Zolli, nato Israel Anton Zoller, rabbino capo di Roma, che si convertì nel 1945, dopo la fine della guerra e delle persecuzioni antisemite; o quella, ancor più celebre, di santa Teresa Benedetta della Croce, nata Edith Stein, divenuta suora carmelitana nel 1934 e poi deportata ad Auschwitz, dove morì nel 1942. Ci domandiamo che cosa accadrebbe, oggi, se un ebreo, come Filippo Renati, si presentasse a un sacerdote o a un vescovo cattolico per confidargli il suo ardente desiderio di convertirsi al cattolicesimo e di ricevere il battesimo nel nome di Gesù Cristo. Forse non finirebbe come è finita per Filippo Renati, o per Eugenio Zolli, o per Edith Stein. Forse costui avrebbe la disavventura di trovarsi di fronte a un neoprete o a un neovescovo post-conciliare, debitamente ecumenista, progressista e neomodernista, il quale, dopo averlo lasciato a stento terminare il discorso, o forse interrompendolo, esclamerebbe: Convertirsi, farsi battezzare: ma che idea! E perché, poi? Forse che voi ebrei non siete i nostri fratelli maggiori? Forse che l’Antica Alleanza non è sempre valida e operante, dal momento che nostro Signore rimane sempre fedele a ciò che promette? E allora, caro amico, per qual motivo lei si vuole convertire? Lo stesso concetto di conversione, mi scusi, è un po’ datato; dal Concilio in poi, lo si usa ormai di rado e con molta, molta prudenza. Sa di fanatismo, di clericalismo, di bigottismo; sa di superiorità verso le altre religioni. Non ha sentito il papa (cioè il signor Bergoglio: nota nostra) dichiarare a Eugenio Scalfari che l’apostolato è una solenne sciocchezza? E non lo ha sentito dire che Dio non è cattolico? Dopotutto, noi e voi crediamo nello stesso Dio; e quanto ai cattolici, hanno tante cose da farsi perdonare, dagli ebrei! Secoli di antisemitismo (in realtà, semmai, antigiudaismo, che tutta un’altra cosa; ma non importa, spesso questi petulanti signori uniscono una colossale arroganza intellettuale a una macroscopica ignoranza), i silenzi di Pio XII, l’accusa di essere deicidi"… Dia retta a me, ci pensi un poco, rifletta, si prenda tutto il tempo necessario. Poi, se proprio sarà ancora di questa idea, venga che ne riparliamo… Potrebbe capitargli anche di peggio. Potrebbe imbattesi in un acceso cultore del cosiddetto dialogo inter-religioso, il quale lo farebbe sentire in colpa nei confronti dei suoi parenti e correligionari: Ma come, lei si vergogna dell’educazione che ha ricevuto, della religione dei suoi padri? Non pensa al dolore che darà ai suoi genitori, allo scandalo che darà agli amici? E poi, passando a un tono più dolce, più accattivante: Oggi, sotto il pontificato di Francesco, stiamo andando verso un mondo sempre più aperto, dove i muri vengono abbattuti e si gettano continuamente dei ponti verso l’altro, verso il diverso, per valorizzare tutte le culture, tutte le identità. In questo contesto, la sua decisione mi sembra, mi scusi, un po’ intempestiva, anacronistica: l’avrei potuta capire cinquant’anni fa… Ma poi abbiamo avuto il grande dono del Concilio, e abbiamo capito, noi cattolici, che Dio non vuole usarci come strumento per opprimere le altre fedi, per svalutarle, per screditarle, per sottometterle e farle scomparire, ma al contrario, per favorire l’unione, la solidarietà e l’inclusione… Solo così potremo costruire un mondo di pace, un mondo dove nessuno si senta escluso, dove nessuno si senta inutile, superfluo, o "parassita", come dice quel razzista del ministro Salvini. È questo che Dio vuole da noi, in definitiva: l’unità, la fratellanza, la solidarietà… Non le pare? Purtroppo non stiamo inventando nulla, ed è molto probabile che le cose andrebbero proprio così. Abbiamo fatto e sentito troppe esperienze di questo genere, dalle quali emergono tuta la presunzione, la grettezza e la povertà umana di questi signori della neochiesa, che si sono autonominati gli zelanti propagandisti e custodi della vera" fede cristiana, e che stanno demolendo con autentica furia il millenario edificio della Chiesa, introducendovi prassi e dottrine che non sino cattoliche. Del resto, basta ascoltare le omelie del signor Bergoglio e dei tanti, troppi vescovi e preti che la pensano come lui; basta sfogliare i giornali che un tempo erano cattolici, ma che hanno smesso di esserlo per diventare modernisti (e il modernismo è un’eresia conclamata, e condannata come tale, da un’apposita enciclica di san Pio X) per convincersene. I loro discorsi si assomigliano tutti, e riflettono quelli dei pessimi teologi della "svolta antropologica", sui quali, probabilmente, hanno studiato in seminario: tutti hanno ragione, i luterani, gli ebrei, gli islamici, i buddisti; tutti hanno una fede migliore della nostra; i cattolici sono proprio i peggiori, si dovrebbero vergognare. Già: Vergogniamoci, come titola l’ineffabile Avvenire di Marco Tarquinio, perché una ragazza di origini nigeriane si è presa un uovo in faccia, senza gravi conseguenze. Ma di ciò che subiscono gli italiani, e i cattolici, da parte degli altri, è proibito parlare.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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