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Omaggio alle chiese natie: Santa Maria di Castello

Santa Maria di Castello è la chiesa più antica, più appartata, più suggestiva e misteriosa della città: se ne sta appollaiata lassù, verso il cielo, da dove si spazia intorno su tutta la regione, fino al mare e fino ai monti più alti. Le sue pietre medievali trasudano il passato, la penombra del suo interno invita al raccoglimento e alla preghiera, con la forza di persuasione che scaturisce dall’atmosfera stessa, carica di misticismo, nella quale paiono indugiare le preghiere d’innumerevoli generazioni di gente nostra. Ricordiamo certe belle mattine di giugno, in vacanza, quando salire in castello, leggeri e felici, era già di per se stesso, per noi bambini, una festa di libertà; e certi pomeriggi di febbraio, per la ricorrenza della Candelora, con il sacerdote che posava due lunghe candele a forma di croce sul collo dei fedeli e invocava la protezione dell’Onnipotente contro le malattie delle vie respiratorie. D’estate o d’inverno, con il cielo azzurro o coperto di nuvole basse, con le ombre corte o con le ombre lunghe, la facciata di Santa Maria di Castello aveva sempre un suo fascino tutto particolare, un po’ strano, decisamente diverso da quello di tutte le altre chiese cittadine, accentuato dal paesaggio differente, fatto solo di verde e di pochi edifici vetusti, con quel lungo porticato ad archi che corre a fianco della strada, addolcendo la pendenza della salita, e senza automobili, senza rumori, senza la normale agitazione della città (che pure era, e in parte è ancora oggi, una città singolarmente tranquilla).

Ecco, forse è da questo pensiero che può partire una ulteriore riflessione: la chiesa di Santa Maria di Castello era in alto, in uno spazio tutto suo, che non aveva niente a che fare con il resto del tessuto urbano; ebbene: accostarsi al Vangelo di Gesù è un salire, un lasciarsi le cose note alle spalle e uno spingersi verso spazi più ampi, di dove si gode la vista di orizzonti molto più vasti, che hanno il presentimento dell’infinto; è un uscire dalla dimensione del quotidiano, dell’abituale, per scoprire una dimensione nuova, dove le cose non sono più quelle che sembravano prima, ma acquistano un significato nuovo, che spalanca, a sua volta, prospettive nuove, affascinanti, e del tutto inaspettate. Finché si rimane in basso, finché si vive al livello della quotidianità, non si arriva neppure a sospettare quale immensa ricchezza di visioni, di profumi, di suoni meravigliosi si dischiude a chi ha il coraggio e la perseveranza di spingersi in alto, lungo il sentiero: sentiero dapprima erto e malagevole, a tratti perfino pericoloso, ma poi, mano a mano che si procede, sempre più bello, sempre più entusiasmante, sempre più luminoso. Al punto che, un bel momento, ci si domanda, quasi increduli: Ma come ho fatto, sinora, a vivere in quella maniera? Come ho potuto passare tanto tempo là in basso, in quell’aria stagnante, senza mai vedere uno squarcio d’orizzonte, chiuso e murato come vivono i prigionieri al bagno penale? Come potevo respirare, come potevo adattarmi a quella luce falsa, smorta, ove le cose appaiono come in realtà non sono, e dove tutti fanno a gomitate per assicurarsi il possesso di cose senza valore, di volgari perline colorate che solo dei grossolani ignoranti possono scambiare per autentici gioielli? Ecco: queste cose ci vengono in mente, ripensando a quei chiari mattini d’estate, o a quei freddissimi pomeriggi d’inverno, nei quali salivamo al castello e restavamo stupiti davanti alla bellezza severa, un po’ elusiva, quasi indecifrabile, dell’antichissima chiesa dedicata alla Santa Maria.

Anche altre domande, però, si affacciano alla mente e pungono il cuore del cristiano che assiste al progressivo, massiccio, sistematico sovvertimento della fede da parte del clero stesso, o di una parte di esso, e spronato, sostenuto, incoraggiato proprio dal vertice della Chiesa: dal papa Francesco, dal collegio dei cardinali, da una parte significativa dell’episcopato, per non parlare dei teologi, i primi e i più accaniti fautori della laicizzazione, della secolarizzazione e dell’apostasia dalla fede. E tutte queste domande si possono riassumere in due soltanto: come è potuto accadere? E che cosa può fare, arrivate le cose a questo punto, il singolo fedele? Sono le domande che si fanno un po’ tutti quelli che si son resi conto di quel che sta accadendo, dietro la facciata tutta rose e fiori dipinta dai grandi mezzi d’informazione (o, piuttosto, di disinformazione), nella Chiesa cattolica; e che ci rivolgono continuamente amici, conoscenti e anche sconosciuti, tutti ugualmente scoraggiati, pensosi, quasi increduli di quel che avviene, ogni giorno, sotto i nostri occhi. Partiamo dalla prima domanda: come hanno potuto, le cose, arrivare fino a questo punto? In effetti, se un bambino, nato verso la metà degli anni ’50 del secolo scorso, fosse caduto in coma e si risvegliasse oggi, confrontando la Chiesa della sua infanzia, quella che gli ha dato l’istruzione di base affinché potesse ricevere la Comunione e la Cresima, con quella odierna, siamo assolutamente certi che non le riconoscerebbe come una sola ed unica realtà. Penserebbe che si tratta di due cose diverse, e che la seconda non ha niente a che vedere con la prima, quella che lui aveva conosciuto. Non stiamo esagerando. Quel che ci ha resi tutti, o quasi tutti, ciechi e inconsapevoli, è proprio il fatto di aver vissuto dall’interno, con relativa gradualità, la manovra mediante la quale il clero neomodernista si è impadronito della Chiesa e ha scalzato lentamente, ma metodicamente e capillarmente, la liturgia, la pastorale e, da ultimo, la dottrina, in modo da ottenere quel che voleva fin dai tempi di Pio X: una chiesa modernista, fatta secondo i suoi desideri, e cioè buona per piacere agli uomini della società moderna, ma non altrettanto per piacere a Dio.

Ma facciamo pure un esempio, uno fra i cento, fra i mille che potremmo fare, pescando, purtroppo, dalle cronache ormai quotidiane di questa neochiesa apostatica ed eretica, che è solo una orribile caricatura della vera Chiesa ma che ad essa si è sovrapposta, fingendo di essere quel che non è, al preciso scopo di ingannare i fedeli e rassicurarli sul fatto che, nella sostanza, cioè nel Deposito della fede, non è cambiato niente, ma che sono stati cambiati solamente alcuni modi di esprimere le "eterne" verità del vangelo. Un amico ci scrive per segnalarci quel che il gesuita Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, ha twittato (una maniera di comunicare oggi assai in voga, molto bergogliana e molto discutibile) a proposito della proposta di legge, lanciata dal ministro degli Interni Salvini, di reintrodurre il Crocifisso nelle aule scolastiche e nei locali della pubblica amministrazione: Usare il crocifisso come un Big Jim qualunque è blasfemo. La croce è segno di protesta contro peccato, violenza, ingiustizia e morte. Non è MAI un segno identitario. Grida l’amore al nemico e l’accoglienza incondizionata. È l’abbraccio di Dio senza difese. Giù le mani! Sì, avete capito bene: dice proprio: giù le mani! Solo che non lo dice ai nemici della Chiesa, non lo dice ai fanatici integralisti islamici o ai laicisti arrabbiati che non sopportano neppure di vedere il crocifisso: no, lo dice a un partito politico che ha proposto di reintrodurlo nei locali come università, tribunali, aeroporti, eccetera. E lo dice per odio verso quel partito, lui che parla di amore al nemico. Ma quale amore, se lui e quelli come lui, i preti progressisti e neomodernisti, Bergoglio in testa, abbaiano ogni santo giorno contro i cattolici che essi accusano di essere "tradizionalisti", mentre sono cattolici e basta? Ma andiamo con ordine e ritorniamo a quell’immaginario bambino, o meglio ex bambino, uscito oggi dal coma, dopo un sonno durato cinquanta anni. Che cosa penserebbe di un gesuita, direttore della rivista dei gesuiti, il quale, davanti alla proposta di legge della Lega, dice testualmente: La croce è segno di protesta contro peccato, violenza, ingiustizia e morte? Penserebbe, semplicemente, che costui è impazzito. La croce è un segno di protesta? Ma quando mai? Ma dove ha letto queste cose, in quale seminario, in facoltà di teologia le ha studiate, padre Spadaro? Che religione è quella di padre Spadaro? Perché il cattolicesimo no, di sicuro. Quindi Gesù è andato sulla croce per "protestare"? E noi prendiamo la nostra croce non per seguirlo, ma per "protestare" a nostra volta? Per protestare contro il peccato, poi? Ma contro il peccato non si protesta: si prega, quando è il peccato degli altri; e si cerca di non farlo più, quando è il proprio. Ma padre Spadaro, se non andiamo errati, è di quelli che non pregano alle veglie di riparazione per i Gay Pride, bensì alle veglie di protesta contro l’omofobia. Dunque, la protesta non è contro il peccato, ma contro chi protesta contro il peccato. Questa è la verità della neochiesa: una verità bruciante, inconfessabile, eppure sotto gli occhi di tutti; e chi non vuol vederla, lo fa solo per conformismo e ipocrisia. E non basta. Padre Spadaro dice anche che la croce non è mai un segno identitario, col ‘mai’ sottolineato. Ma anche questa ci giunge nuova. Al contrario, a noi risulta che la croce è sempre stata un segno identitario: talmente identitario che i primi cristiani si facevano ammazzare piuttosto che nasconderla. E non solo i primi cristiani: anche le suore carmelitane ghigliottinate nella Parigi rivoluzionaria, anche i cristeros messicani trascinati davanti al plotone d’esecuzione, anche il quattordicenne seminarista Rolando Rivi, sequestrato, torturato e trucidato dai partigiani comunisti, per la colpa di andare in giro con la veste da prete e, naturalmente, col crocifisso. Il crocifisso dà tanto fastidio a padre Spadaro e ai suoi amici? Benissimo: ma è un problema loro. Per liberarsene, non hanno che da fare una cosa semplicissima: confessare di non essere più cristiani, togliersi l’abito (quell’abito che indossano così di rado e così malvolentieri) e poi mettersi a far politica dalla mattina alla sera, se così piace loro, contro la Lega e contro tutti gli italiani che non condividono la loro folle idea, che la croce vuol dire accoglienza incondizionata (come lui afferma, mentendo), il che, tradotto nel dal vocabolario bergogliano, significa dire sì all’auto-invasione dell’Italia da parte di milioni di africani e sì alla islamizzazione del nostro Paese e alla sostituzione della sua popolazione.

Lo stesso amico ci segnala la copertina dell’ultimo numero di Famiglia Cristiana; andiamo a vedere su internet (non l’abbiamo mai comprata, né letta) e vediamo una foto del signor Bergoglio che unisce la mani di due sposi, lei col vestito bianco e tuttavia col pancione, perché incinta di parecchi mesi; il titolo afferma, a caratteri cubitali: La gioia dell’amore, e il sottotitolo, ancor più eloquente: La Chiesa abbraccia tutte le famiglie. Nessuna esclusa. Dunque, se le parole hanno un senso, la "chiesa" (ma quale?) abbraccia anche le famiglie non unite in matrimonio e anche le cosiddette famiglie arcobaleno, quelle formate da una coppia di omosessuali, magari coi figli ottenuti in vari e orripilanti modi. Ma "tutte", nella lingua italiana, vuol dire "tutte", c’è poco da fare, e senza dubbio l’intenzione del giornale (e del sedicente papa) è proprio questa. Ora, quel bambino ricorda benissimo quel che gli dissero i suoi genitori: che un’amica della mamma aveva dovuto sposarsi alle sette del mattino, senza invitati e senza neppure la presenza di suo padre e sua madre, perché era rimasta incinta del suo fidanzato. E ciò le negava automaticamente il diritto a un matrimonio "normale" in chiesa. Si dirà: erano altri tempi; senza dubbio. Si dirà anche: era un’altra Chiesa. Questo è ancor più vero. Ma allora torniamo a quanto dicevamo prima: qui non siamo in presenza di una Chiesa che si è adattata ai tempi e che ha seguito il movimento della storia, restando però fondamentalmente fedele a se stessa e al suo divino Fondatore; qui siamo davanti a una Chiesa che è divenuta diametralmente opposta alla Chiesa di prima, diciamo di prima del Concilio, e quindi a una Chiesa apostatica, perché non può esserci una Chiesa, dopo il Concilio, che sia completamene diversa da quella di prima, cioè da quella di sempre. I concili sono ventuno e il terzultimo è stato il Concilio di Trento, che ora il clero neomodernista vorrebbe cancellare, di fatto se non di diritto. Infatti, non lo cita mai nei suoi documenti; e già questo attesta la sua eresia. Un vero cattolico cita tutti i concili e tutti gli atti del Magistero, e non solo quelli del Vaticano II: se lo fa, allora la sua intenzione è chiara, e lo tradisce: vuol cambiare la Chiesa, vuol cambiare la dottrina. Solo che non ne ha il diritto, perché è questa si chiama eresia. Questa, e non la rivendicazione del crocifisso, caro Spadaro, è blasfemia. È la vostra Chiesa che è andata fuori del seminato, non quella di monsignor Lefebvre, che è sempre rimasta fedele al Deposito della fede.

E ora veniamo alla seconda domanda, forse la più angosciosa: che cosa può fare, adesso, il singolo fedele? Tacere, non può e non deve; fare finta di nulla, fingere di non vedere, sarebbe la stessa cosa che rinnegare Gesù Cristo, fingere di non conoscerlo, come fece san Pietro nella notte del suo arresto, mentre si trovava nel cortile del sommo sacerdote. Parlare, dunque: dire apertamente le cose come stanno, far notare le madornali contraddizioni, gli eretici stravolgimenti della Rivelazione operati da questa neochiesa. E poi? E poi pregare, pregare, pregare; e, naturalmente, cercar di essere coerenti: la Chiesa, quella vera, ha bisogno di santi, non sa che farsene di teologi modernisti e teme come la peste i preti chiacchieroni, che usano e abusano delle loro chiese per tenere delle omelie domenicali che tutto sono, tranne che il commento alla Parola di Dio, semmai sermoni di carattere politico e sociale, oltretutto a senso unico: si devono "accogliere" i migranti, cioè i falsi profughi e i falsi naufraghi; si deve accettare l’africanizzazione e l’islamizzazione dell’Italia; si deve accettare anche l’omosessualità, e prepararsi a veder celebrati matrimoni gay fin dentro le chiese. Ma noi, per quel giorno, speriamo di non esserci più; speriamo che il buon Dio ci risparmi di assistere a quest’ultimo sacrilegio e ci porti via prima che si consumi. Ci sembra anzi d’averne visti fin troppi…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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