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Cercare il bene e lodarlo: ecco lo scopo

L’atteggiamento più diffuso e più tipico della modernità è quello del non saper che fare: il reale è troppo complesso, troppo mutevole e imprevedibile; la stessa condizione umana è ambigua, elusiva, contraddittoria: non resta che vagare senza meta fra le macerie di perdute certezze, rimestare fra le ceneri di verità spente; e portar fiori, ironicamente, come Mattia Pascal, sulla propria stessa tomba, riconoscendo così la propria condizione di morti viventi. In questo contrasto, l’impotenza è d’obbligo e l’inconcludenza, uno stile di vita; l’agnosticismo diviene saggezza e lo scetticismo sistematico, una pratica di salute mentale. Non c’è niente di più irritante, di più insopportabile, quindi, d’imbattersi in qualcuno che osa pensare in maniera positiva, che si permette di usare volontà e intelligenza non solo per cercare, ma per trovare, e che, horribile dictu, alla fine qualcosa ritiene d’averla trovata per davvero — non una verità qualsiasi, non una verità provvisoria e strumentale, e neppure un alibi, una pseudo verità di cui drappeggiarsi per meglio perseguire i propri scopi, o semplicemente per dissimulare la propria ignoranza, ma proprio la verità di cui l’uomo abbisogna: il motivo per cui gli è data da vivere la vita. E se, poi, costui esplicita tale verità in questa semplice formula: la vita ci viene data affinché si vada in cerca del bene e, trovatolo, lo si lodi e lo si celebri, e se ne ringrazi l’autore, allora l’incredulità cede il posto allo sdegno, l’ironia viene sostituita dalla rabbia, e il malcapitato, fra un volare d’insulti e un digrignar di denti, viene prontamente ridotto al silenzio, affinché non rechi danno ai suoi simili, diffondendo tali false e perniciose dottrine. Non c’è posto per lui, nella società moderna, la quale tutto può tollerare, comprendere e perfino giustificare in fatto di aberrazioni umane, dall’incesto alla pedofilia, dal sadismo alla bestialità, dall’inversione alla necrofilia, ma una cosa non arriverà mai a capire, o giustificare, e meno ancora a perdonare: la salute della mente e dell’anima, la boccata d’aria pura in mezzo al tanfo soffocante di cadavere che ristagna ovunque. Nessuno deve permettersi di pronunciare una parola di vita nella città dei morti; nessuno deve introdurre un raggio di speranza in queste tenebre di angoscia e disperazione che chiamiamo la civiltà moderna. Lasciate che i morti seppelliscano i morti, diceva Qualcuno; e i custodi della modernità, rovesciando inconsapevolmente il significato di quelle parole, si affrettano a dire: che nessuno si azzardi a risvegliare i morti dal loro sonno di morte, che nessuno osi tentare di risvegliarli. L’ultima parola, nel mondo moderno, deve averla la morte, insieme a tutto ciò che è distruttivo: la tristezza, l’ansia, il senso di colpa, la confusione, il tormento, il rimorso senza redenzione, l’umorismo senza gioia, la crudeltà senza riscatto, il cupio dissolvi allo stato puro.

In questo quadro generale si colloca la figura, anch’essa tanto largamente diffusa quanto caratteristica, del sedicente intellettuale, del sedicente poeta, del sedicente artista, del sedicente pensatore, eccetera. Tutti debitamente ribelli, anzi, rivoluzionari; tutti odiatori d.o.c. di Dio, della patria e della famiglia; tutti pieni di disprezzo verso i detestabili valori "borghesi" (e il bello è che i rivoluzionari veri, quelli del XIX secolo, se n’erano già accorti: Malatesta diceva che calunniare un galantuomo, rubare in casa sua, sedurre sua moglie, sono cose cattive per il codice borghese, ma lo sono anche per noi, intendendo i suoi compagni anarchici). E, soprattutto, unici, particolarissimi, eccezionali: una marea di superuomini in sedicesimo, una pletora sterminata di geni incompresi e incomprensibili, di scultori e pittori le cui opere sono indecifrabili, poeti dai versi ermetici, filosofi dai pensieri oscuri: forse perché il pubblico non è alla loro altezza (o alla loro bassezza), forse perché non hanno niente da dire, né una sola dote artistica o poetica, e neppure una idea originale da far valere. Però sono "compagni", e ciò è stato sufficiente per ammantarli di bellezza e di mistero, e perché la cultura dominante, fatta da gente simile a loro, li imponesse sulla scena come i massimi campioni della cultura moderna: e intanto i veri artisti, i veri poeti e i veri filosofi son rimasti negletti, nell’ombra, e il pubblico, gli studenti anzitutto, non sanno neppure che esistono.

Ma chi sono i veri artisti, i veri poeti, i veri pensatori, i veri maestri? Quelli che cercano il bene, e che, trovatolo, ne celebrano le lodi e ne ringraziano Iddio; quelli che aiutano gli altri a vedere la bellezza del mondo, la sua armonia, la sua magnificenza; quelli che incoraggiano chi è stanco, rinfrancano chi è sfiduciato, sorreggono chi vacilla; quelli che amano la vita e la fanno amare, ma che, nello stesso tempo, indicano la maniera giusta di viverla, che non è quella del materialismo e dell’edonismo, ma quella di chi se ne serve per proiettarsi verso le altezze, per realizzare il proprio io superiore, la propria parte migliore e più vera: quella che aspira al bene, e, perciò, quella che cerca Dio, sia che lo sappia, sia che non lo sappia. Vi è più verità, più ricerca del bene e più nostalgia di Dio nel quadro di Van Gogh che rappresenta solamente un paio di vecchi scarponi da contadino, poveri, consumati, che trasudano la fatica umile e quotidiana del lavoro, che non nelle centinaia di brutti e pretenziosi quadri di Henri Michaux, il pittore che non ha niente da dire, ma che tutti i salotti culturali progressisti corteggiano, che le maggiori case editrici si contendono: e questo mentre Van Gogh si era ridotto a vendere i suoi quadri, carichi di amore e di bellezza, per un piatto di minestra, e finì per suicidarsi, solo come un cane, incompreso e disperato, mentre l’inutile Michaux, l’artista che dipinge il nulla e che scrive versi e racconti intessuti di nulla, di aria fritta, di fumo che il vento disperde, è stato per gran parte della sua vita illuminato dai riflettori della notorietà.

Non vi sono altri scopi di vita più degni di questo. Chi vive solo per se stesso, per saziarsi di emozioni piacevoli, è semplicemente un animale; chi sfrutta, manipola, inganna e maltratta gli altri, è un ossesso, uno schiavo e un agente del male; chi vive a cascaccio, trascinandosi per le vie del mondo di giorno in giorno, senza mai alzare gli occhi dal fango, senza mai provare un impulso nobile e generoso, senza mai sentire la nostalgia delle altezze, è un essere umano a metà: arrivato a metà strada, infatti, si è dimenticato della sua autentica natura, si è scordato chi egli sia e quale la sua meta, e se ne va tentoni, come un sonnambulo o uno smemorato. Chi persegue il male, chi indulge nel male, chi non ne prova orrore e rimorso, è solo un demone incarnato, che ha letteralmente rovesciato il senso e la meta della propria vita. Di fatto, molte persone perseguono il male, ma senza rendersene conto con chiarezza: eppure lo fanno, eccome, perché ogni volta che si rinuncia e si volta le spalle a un bene possibile per abbracciare un male quasi certo, si tradisce la propria vocazione e ci si rende collaboratori della strategia del diavolo, la quale consiste nel capovolgere il progetto di Dio, ma facendo leva sui apparenze di bene, e cioè puntando a ingannare e tradire gli uomini: perché solo pochissimi di loro sono capaci di collaborare intenzionalmente coi suoi piani e a farsi deliberatamente suoi strumenti; e anche loro, se potessero vedere il vero volto di colui che li lusinga, li seduce e li arruola nelle sue file, morirebbero dallo spavento e maledirebbero, ma ormai troppo tardi, il patto scellerato che si sono indotti a sottoscrivere. La strategia preferita del diavolo, dunque, consiste nel fare leva sulle debolezze degli uomini, piuttosto che sulla loro malvagità: di questa sono scarsi, nella maggior parte dei casi, così come sono scarsi di bontà e di amore; mentre la concupiscenza, la tendenza a lasciarsi irretire dai falsi beni e trascinare, per tal via, verso il male vero e proprio, è sempre presente in ciascuno di essi, triste eredità dei nostri progenitori e del Peccato originale. Non per nulla, una delle numerose strategie perseguite dal signore delle tenebre è appunto,quella di persuadere gli uomini che il Peccato originale non c’è mai stato, che è solo una favola per bambini, una subdola invenzione dei preti; e conosce così bene le sue pecorelle, che, per sferrare questa offensiva contro la dottrina del Peccato originale, si è fatto strada proprio fra gli "specialisti" di tali cose, i teologi, e, riempiendo il loro cuore di malizia, di orgoglio e di superbia, ha insinuato in loro, che hanno l’ultima parola in capitolo, il dubbio lacerante che la concupiscenza, dopotutto, non esista, che sia solo una metafora delle tendenze al male presenti nell’uomo, ma che l’uomo può benissimo contrastare con le sue forze, senza bisogno d’altri. Come si vede, è un ritorno in grande stile del pelagianesimo, una delle più insidiose, più perfide eresie del cristianesimo, fin dai primi secoli di vita della Chiesa; e il fatto che a scagliarsi conto di esso sia proprio un neoclero progressista imbevuto di mentalità pelagiana, la dice lunga sul grado di abilità dimostrato dal diavolo e, d’altra parte, sul livello d’ingenuità, confusione e arroganza cui son giunti tanti sedicenti cristiani.

Ci piace, a questo punto, riportare un passaggio chiave del testamento spirituale dello scrittore Luigi Santucci (Milano, 11 novembre 1918-Milano, 23 maggio 1999), autore di romanzi come Orfeo in paradiso e di racconti come Lo zio prete, registrato a beneficio dei figli e integralmente riportato in Autoritratto (a cura di G. Badilini, Milano, Ancora, 2004, pp. 259-265):

Se dovessi sintetizzare in una formula, in un’espressione il mio essere stato scrittore, credo che sarebbe questa: che scrivo per lodare. […]

Io ho lodato, ho cercato di applaudire, di risuscitare nella lode, quante più cose ho potuto. […]

La lode, sì, come messaggio, come linguaggio, se non per salvare il mondo (per guarirlo ci vuole altro!), per aiutarlo, perché recuperi una qualche stima, una qualche fiducia in se stesso; perché esca dall’auto-disprezzo, dalla disperazione, e ritrovi l’amabilità.[…]

Perché senza un certo entusiasmo nei nostri confronti è poi quasi impossibile amare gli altri, si va a rischio al contrario d’infiltrare negli altri i nostri squilibri, il nostro scetticismo o addirittura pessimismo sull’umanità. […]

E tutto quello che ho avuto l’ho davvero goduto, grazie penso alla mia natura di poeta, l’ho goduto (questo è molto importante) con consapevolezza. 

Ma come si fa a distinguere il vero bene da ciò che bene non è, pur avendo alcune apparenze esteriori di ciò che è buono? Eccoci arrivati al punto decisivo. Perché tutti quelli i quali, più o meno consapevolmente (mai del tutto inconsapevoli, però) si sono messi a servire il male, negheranno a chiunque il "diritto" di decretare che esiste una chiara linea di separazione fra il bene e il male, invocheranno la relatività dei punti di vista, la mutevolezza delle situazioni esistenziali, la fluidità e l’inafferrabilità del fenomeno "vita", se non anche la sua incomprensibilità, in modo che tutto lo schermo delle giustificazioni plausibili e possibili sia completo, e che nessuna affermazione su ciò che è assolutamente bene e ciò che è assolutamente male sfugga alla possibilità di essere controbattuta da un paralizzante punto interrogativo. Diciamo allora che è bene ciò che risponde alla legge morale naturale, e trova conferma nella legge divina, come ci è stata insegnata da Gesù Cristo; e lo si può riassume in queste poche parole: Ama Dio sopra ogni cosa, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente, e ama il prossimo tuo come te stesso (cfr. Matteo, 22, 37; e si faccia bene attenzione: Gesù non dice: ama il prossimo tuo più di te stesso, ma come te stesso; perché colui che non ama a se stesso, non saprà nemmeno amare gli altri). Come si vede, non sono concetti difficili: perché non è vero che la verità è complessa; è complessa per quelli che non la amano e non la cercano con vera umiltà e sincerità, per quelli che hanno deciso già in partenza di precostituirsi un alibi per non averla trovata. Ma Gesù ha detto chiaramente: Chi cerca, trova; bussate e vi sarà aperto, cercate e troverete. E se così non fosse, Egli ci avrebbe ingannati, ci avrebbe detto una menzogna; ma questo non è possibile, perché Cristo è la via, la verità e la vita, e la verità non si prende gioco di coloro i quali la cercano sinceramente.

Appare dunque evidente che, nella cultura moderna, è in atto, e da molto tempo, una vastissima, terribile congiura per spegnere o attutire il più possibile le voci che parlano del bene, che esortano a cercare il bene, soprattutto a fare il bene, mentre essa dispiega ogni energia e pone ogni diligenza nell’amplificare e nel diffondere le voci che denigrano il bene, che lo sminuiscono, che lo deridono, che lo calunniano, e che descrivono i fautori del bene come altrettanti ipocriti, o, nel migliore dei casi, come dei visionari, degli ingenui, dei sempliciotti un po’ bigotti, un po’ arretrati, i quali non hanno capito quanto il mondo moderno sia complesso, appunto, e come ogni verità abbia cento, mille facce, e ogni voce possa essere contraddetta da tante altre voci di segno opposto. E l’atto culminante di tale congiura corrisponde alla diffusione di questa cultura relativista e soggettivista fin dentro la Chiesa, nel mezzo del gregge delle pecorelle di Cristo, le quali sono sbigottite e più che mai frastornate dalle voci discordanti dei falsi pastori, voci che non offrono loro alcuna sicurezza, alcuna protezione, ma paiono volerle sospingere deliberatamente nelle fauci dei lupi famelici, da tempo in attesa di cogliere un’occasione tanto favorevole. Ma i lupi e i falsi pastori hanno fatto male i loro conti: le pecore non sono sole e abbandonate, perché Gesù Cristo è e rimarrà sempre con loro.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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