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Bisogna aver rinunciato a ogni pietà se non si vuole almeno morire cristianamente (Pascal)

Dietro le lacrime di gioia di Emma Bonino per l’approvazione, in Parlamento, dell’ennesima legge di morte, c’è un padre nobile, si fa per dire, che da quattro secoli e mezzo stende la sua ala malefica su tutti i seguaci dell’eutanasia, dell’irreligiosità e di ogni forma di edonismo: Michel De Montaigne (1533-1592), uno dei fondatori della modernità, i cui Saggi sono fra le opere meno lette e conosciute dal grande pubblico, e tuttavia più radicate e più vive che mai nella coscienza e nella mentalità degli uomini d’oggi.

Dietro un velo di stoicismo paganeggiante e di falsa filosofia umanista, Montaigne ha gettato le basi, forse più di chiunque altro, dell’atteggiamento egoistico, sdegnoso, superbo, che caratterizza gli uomini contemporanei, specialmente per quanto attiene alla sfera dei loro insindacabili "diritti" personali, primo fra tutti quello di morire come e quando si vuole, senza doverne render conto ad alcuno e tanto meno a Dio. Più scettico, a ben guardare, che stoico, e più brillante che profondo, più polemista che pensatore; più philosphe, insomma, ossia pretenzioso venditore di fumo, di tutti i piholosphes dell’illuminismo; petulante, ma con aria di finta modestia, e saccente, ma con l’apparenza di una certa qual moderazione, narcisista e ipocrita alla Petrarca, ma senza gli scrupoli del nostro; anzi, così francamente egoista e opportunista da scappare da Bordeaux, della quale era stato a lungo sindaco, all’avvicinarsi di un’epidemia di peste, per ritirarsi a fare lo splendido pensatore nella torre piena di massime greche e latine; e così cattivo maestro da adottare come "figlia" l’antesignana delle femministe odierne, Marie de Gournay: ebbene, l’eredità che Montaigne ha lasciato all’Europa è molto più "pesante" e molto più negativa di quanto si potrebbe a prima vista immaginare. Tanto più che l’uomo era indubbiamente intelligente e che alcune sue intuizioni sono valide, originali, illuminanti; ma quel che gli manca, per essere un vero filosofo, è la visione d’insieme, nonché la profondità nell’affrontare le questioni speculative; e quel che gli manca semplicemente come uomo virtuoso, è il senso di responsabilità verso i lettori e gli ammiratori, ai quali ha trasmesso una visione della vita cinica, edonista, materialista, chiusa a ogni trascendenza, refrattaria a ogni luce proveniente dall’alto, esasperatamente immanentista, e radicalmente indifferente rispetto alla decisiva questione della morale universale. Oggi quasi tutti gli intellettuali occidentali, e anche parecchi teologi e sacerdoti nominalmente cattolici, papa Francesco compreso, sono convinti che, per distinguere il bene dal male, è più che sufficiente fare appello alla coscienza individuale: un’idea che è tipica di Montaigne e che proprio lui ha verniciato e nobilitato così da farla apparire non solo perfettamente logica e naturale, ma anche rispettabile e ammirevole, mentre, prima di lui, la grande maggioranza dei filosofi europei era d’accordo sul fatto che solo una morale universale, e dunque la morale cristiana, potesse garantire equilibrio agli esseri umani, e stabilità al corpo sociale. La sua attenuante, in teoria, è quella d’essere vissuto al tempo delle feroci guerre di religione che sconvolsero la Francia nella seconda metà del XVI secolo; ma è un’attenuante generica e poco persuasiva, perché nessuno si sognerebbe di "giustificare" certi cattivi maestri del XX secolo per il fatto che ebbero la sfortuna di vivere al tempo delle due guerre mondiali, del comunismo, del nazismo e della bomba atomica.

Blaise Pascal (1623-1662), che sapeva andare dritto al nocciolo di una questione, non s’ingannò nel giudicarlo, quando scrisse di lui nei suoi Pensieri (serie XXV, 680-63; in: Pascal, Frammenti, a cura di Enea Balmas, Milano, Rizzoli, 1983, vol. 2, p. 667):

I difetti di Montaigne sono grandi. Parole lascive. Ciò non val niente, malgrado M.lle de Gournay. Credulo. Gente senza occhi. Ignorante: quadratura del cerchio, mondo più grande. I suoi pensieri sull’omicidio volontario, sulla morte. Ispira una noncuranza della salvezza, senza timore e senza pentimento. Il suo libro non essendo fatto per condurre alla pietà, non vi era obbligato; ma si è sempre obbligati di non distoglierne altri. Si possono accusare i suoi sentimenti un po’ liberi e voluttuosi in alcune circostanze della vita (730, 331); ma non si possono scusare i suoi sentimenti del tutto pagani sulla morte. Poiché bisogna aver rinunciato ad ogni pietà se non si vuole almeno morire cristianamente. Ora, non pensa che a morire vilmente e mollemente lungo tutto il suo libro.

Queste riflessioni ci paiono più che mai di attualità, mentre udiamo la vedova del regista Mario Monicelli, il quale si uccise il 29 novembre 2010, all’età di novantacinque anni, gettandosi da una finestra della clinica romana in cui era ricoverato per un tumore alla prostata, dire che suo marito, se fosse ancora vivo, oggi brinderebbe per festeggiare l’approvazione della legge sul cosiddetto testamento biologico da parte del Parlamento, legge che apre le porte all’eutanasia de facto e che la signora in questione, con Emma Bonino, Mina Welby e altre sacerdotesse della morte, hanno invocato, per anni, e infine ottenuto, giustificandola con il diritto della persona a decidere di morire di una morte "dignitosa". Cioè, per esempio, senza che chi si rifiuta di morire di cancro, sia "costretto" a gettarsi dalla finestra di un ospedale, magari alla veneranda età di novantacinque anni. Pur nel rispetto dei sentimenti di un altro essere umano, ci pare che le parole della signora Chiara Rapaccini calpestino la regola numero uno ricordata qui da Pascal: nessuno è obbligato a predicare la virtù, se non ne ha voglia; ma tutti, nessuno escluso, sono obbligati dal dovere di non distoglierne gli altri. E rallegrarsi pubblicamente, e un po’ sguaiatamente, per l’approvazione di una legge come quella sul cosiddetto testamento biologico, votata dal Parlamento il 14 dicembre quale regalo natalizio al popolo italiano post-cristiano, è non solo un atto di dubbio gusto (ma la signora in questione ha già mostrato l’eleganza del suo stile, attaccando velenosamente e gratuitamente il regista Carlo Verdone, indegno, a suo giudizio, di ricevere dalla città di Grosseto il premio dedicato alla memoria di suo marito, nell’edizione del 2015), ma anche un atto di pessimo esempio per tutte le persone che vivono il dramma di una malattia terminale dolorosa e invalidante, e che sono spinte a credere che qualsiasi cosa, anche gettarsi dal quinto piano all’età di quasi un secolo, sia più "dignitoso" che aspettar lo scadere del tempo che Di ci ha fissato. Ma i progressisti di ieri, di oggi e di sempre non si sono mai fatti scrupoli di questo genere: la loro fede incondizionata nell’uomo, nei suoi diritti naturali e nella sua libertà assoluta, non è mai stata sfiorata dal benché minimo dubbio a proposito del fatto che non sia lecito ad alcuno dare scandalo al prossimo con una contro-pedagogia che insegna ad infischiarsene della relazione dell’uomo con Dio, a ignorare che Dio è il solo padrone della vita e della morte, e a disprezzare ciò che rappresenta, in vista della vita eterna, la scelta del suicidio volontario e lucidamente preordinato.

Certo, oggi va di moda, specialmente presso il neoclero, dare a intendere che qualunque peccato può essere perdonato da Dio: il che, già di per sé, è un’affermazione eretica, perché contraddice frontalmente il Vangelo: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma quella contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito non gli sarà perdonata né in questo secolo né in quello futuro (Mt., 12, 31-32). Ora va di moda, per esempio da parte del papa Francesco, affermare che anche Giuda, forse, è stato perdonato, benché anche questa affermazione vada contro l’esplicita Parola di Gesù Cristo: Certo il Figlio dell’uomo se ne va, com’è scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito. Meglio sarebbe per quell’uomo se non fosse mai nato! (Mc., 14, 21): parole terribili, e tuttavia chiarissime: si può immaginare che Giuda sia sfuggito all’eterna dannazione, dopo che Gesù ha detto di lui: Sarebbe meglio se non fosse mai nato? Ma c’è qualcosa di ancor peggiore, che sta facendo il neoclero della neochiesa: sta facendo credere ai fedeli che tutti i peccati verranno perdonati da Dio, anche senza pentimento, conversione e riparazione; anzi, che i peccati, in definitiva, non contano nulla, visto che non ci sarà alcun giudizio, ma tutte le anime saranno chiamate in paradiso (udienza generale del papa del 23 agosto scorso).

E non è ancor finita. Nell’omelia di Santa Marta del 4 settembre 2017, il papa Francesco è arrivato a riportare queste parole di san Paolo: io mi vanto dei miei peccati; ma san Paolo non ha mai detto o scritto una frase simile. Semmai, l’Apostolo scrive, nella Seconda lettera ai Corinzi (12, 5): Di me stesso non mi vanterò, se non delle mie debolezze. Ora, una cosa è dire di "vantarsi", evidentemente in senso autoironico, delle proprie debolezze, per far risaltare ancora di più il concetto che, se c’è qualcosa di buono in noi e in quel che facciamo, il merito spetta solamente a Dio; e un’altra, totalmente diversa, è dire di vantarsi davanti a Dio dei propri peccati. La prima affermazione è perfettamente ortodossa; la seconda è eretica e blasfema. E non si tratta solamente d’ignoranza. Certo, il papa ha dimostrato continuamente di essere un sudamericano ignorante, oltretutto dotato della sensibilità e della delicatezza di un elefante dentro un negozio di cristalli; ma ha mostrato anche di essere una persona abile e furba, molto attenta a forzare pian piano la dottrina cattolica, ma tenendosi sempre un centimetro, o un millimetro, al di qua dell’aperta e manifesta eresia. In questo caso, però, è andato oltre: perché attribuire a san Paolo una frase come quella di vantarsi davanti a Dio dei propri peccati, è né più né meno che prendere l’Apostolo delle genti a garante di uno stravolgimento intenzionale, e perciò diabolico, della vera dottrina: far passare l’idea che il peccato è qualcosa di cui l’uomo si può "vantare" di fronte a Dio. Concetto che, a ben guardare, viene sapientemente utilizzato pure nel tristemente famoso § 303 di Amoris laetitia, in cui testualmente il papa scrive: Ma questa coscienza (cioè la coscienza soggettiva) può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del vangelo (sta parlando del concubinato dei divorziati); può anche riconoscere con sincerità e onestà che ciò per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. Straordinario. Qui il concetto stesso del peccato sparisce, come sparisce il coniglietto sotto il cilindro ad opera del prestigiatore; viene sostituito da espressioni come "la complessità concreta dei limiti" e viene descritto come una realtà che "non è ancora pienamente l’ideale oggettivo": laddove, si noti, la dottrina morale cattolica diventa un "ideale" e non più un dovere ineludibile, e il peccato grave diventa un qualcosa che "non è ancora" tale ideale, ma, evidentemente, poco ci manca che lo sia. Ma la cosa più grave di tutte, e veramente intollerabile, è che Dio stesso viene chiamato in causa per approvare ciò che il peccatore gli offre "con sincerità e onestà", vale a dire il suo peccato. E non glielo offre con il fermo proponimento di vincerlo, e magari di vincerlo, come insegna la dottrina cattolica, appunto con l’aiuto di Dio; no: glielo offre come ciò che, in quel momento, si può offrire "generosamente" a Dio: alla faccia della generosità. Ricapitolando: l’uomo peccatore rimane nel peccato, e offre il suo peccato a Dio, non perché Dio lo aiuti a liberarsene, ma perché Dio lo gradisca quale offerta "generosa", e dunque lo approvi e lo santifichi. Così l’uomo rimane felicemente nel peccato, e Dio diventa il santificatore dei peccati umani, invece che il Redentore. Inutile dire che, in questa prospettiva, Gesù Cristo è morto sulla croce per nulla; per nulla è stati tradito e abbandonato dai suoi stessi discepoli; per nulla è stato insultato, flagellato e incoronato di spine; per nulla è stato sepolto ed è risorto il terzo giorno. Non c’era alcun bisogno, in realtà, che prendesse su di sé i peccati degli uomini, perché i peccati non sono più tali, o, se pure lo sono ancora, diventano qualcosa di accettabile, che non solo la chiesa, ma Dio stesso approva ed avalla.

E adesso vorremmo rivolgerci a tutti gli ammiratori di papa Francesco e a tutti quei "cattolici" i quali guardano a Paglia, a Galantino, a Sosa Abascal, come a dei normali pastori; a tutti quelli che sono in buona fede, beninteso, e che pensano, sbagliando, che un papa non può essere eretico ed apostata, e che dei vescovi e dei superiori di ordini religiosi, a loro volta, non lo possono. A quei cattolici in buona fede vorremmo chiedere: siete davvero convinti che non ci sia nulla di strano nel pontificato di Francesco? Davvero pensate che espressioni come quelle da noi ora riportate siamo compatibili con il retto esercizio del magistero ecclesiastico? Ve la sentite di avallarle, di prenderle per buone, di inserirle nella mappa ideale della vostra fede cattolica, come parole chiarificatrici e vivificanti, quali dovrebbero essere le parole del papa e dei suoi pastori? Davvero, se siete in buona fede, se v’importa qualcosa di Gesù Cristo, non vi par di sentire una certa qual puzza dell’inferno?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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