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La morte in croce di Gesù è stata poco dignitosa?

I fautori dell’eutanasia e i loro "colleghi" solo apparentemente più moderati, quelli del testamento biologico, giocano tutti i loro argomenti intorno a un concetto-chiave: quello della dignità del morire. Ciascuno, essi dicono, in presenza di gravi malattie invalidanti e incurabili, ha il diritto di scegliere per sé una morte "dignitosa". Non dignitoso, dunque, per essi, è lasciare che la natura faccia il suo corso e che Dio chiami a sé una persona, quando ritiene che sia giunto il tempo; e, imbrogliando le carte, fanno passare per "accanimento terapeutico" anche la normale somministrazione delle cure di mantenimento, nonché l’alimentazione, l’idratazione e la ventilazione di un organismo non più capace di svolgere da sé tali funzioni, ma, per tutto il resto, ancora pienamente efficiente e funzionante (la povera Eluana Englaro, ad esempio, quando venne lasciata spegnersi per disidratazione, cosa che le provocò un arresto cardiaco) aveva ancora le mestruazioni). Per svelare il sofisma dietro cui si nascondono, come sempre fanno e sempre hanno fatto, i radicali e tutti gli altri sostenitori di un siffatto "diritto della persona" e di una tale "battaglia di civiltà", ben decisi, in effetti, a far passare il principio che l’uomo deve essere riconosciuto come il padrone della morte (non potendo esserlo, o non altrettanto bene, pure della vita), è necessario allora fermarsi a riflettere su che cosa sia la "dignità"; solo allora si potrà valutare serenamente e obiettivamente se una certa morte si possa considerare "dignitosa" oppure no. Va da sé che, per un cristiano, le categorie del giudizio non possono che essere profondamente diverse da quelle di una persona irreligiosa: basti pensare alla morte di Gesù Cristo sulla croce, che, al suo tempo, rappresentava, umanamente parlando, il massimo del disonore e della vergogna sociale; ma su questo punto torneremo in seguito: per ora, desideriamo ragionare nella maniera più possibile spassionata e "neutra", non pretendendo, come è giusto che sia, che tutti quanti condividano il punto di vista autenticamente cristiano (senza contare il piccolo dettaglio che anche molti sedicenti cristiani, di fatto, ai nostri giorni non lo condividono più).

L’aggettivo "dignitoso" contraddistingue chi ha il senso della dignità e che, quindi, non si abbassa a comportamenti volgari o arroganti (Sabatini-Coletti); e la "dignità" è la considerazione in cui l’uomo tiene se stesso e che si traduce in un comportamento responsabile, misurato, equilibrato (idem). Prendiamo buona nota di queste definizioni e, in particolare, del fatto che la dignità è la considerazione in cui l’uomo tiene se stesso, dunque è innanzitutto un giudizio dell’uomo su se stesso, e uno stile di vita adeguato a quel giudizio, prima di essere un giudizio che gli altri uomini esprimono a proposito di una certa persona: pertanto, la dignità non può essere data o tolta a qualcuno dall’esterno, come gli si dà o gli si toglie un diploma, una patente, un certificato, perché nessuno dispone di un effettivo potere sulla dignità altrui. Per esempio, una persona non perde la sua dignità se gli altri la sottopongono ad atti offensivi, se la insultano o le sputano addosso, e nemmeno se la picchiano, la torturano o perfino se la uccidono, a meno che lei stessa non si abbassi a comportamenti poco dignitosi, per esempio supplicando di essere risparmiata e mostrando viltà o, comunque, facendo vedere che antepone la propria tranquillità o la propria salvezza a qualsiasi altra cosa, compresa appunto la sua dignità. Una persona, dunque, se è dignitosa, lo è perché possiede il senso della propria dignità, ossia del rispetto che lei per prima deve a se stessa: se non si abbandona a comportamenti volgari, o arroganti, eccetera, non perde la propria dignità, indipendentemente dalle circostanze esterne.

È pur vero che, in una certa misura, peraltro secondaria, nella dignità di una persona entra, e sia pure di riflesso, il giudizio altrui: vale a dire che la dignità di una persona tende a imporsi comunque, ma, se gli altri sono delle persone particolarmente ignoranti, volgari, inconsapevoli, cosa che si verifica facilmente quando si tratta di una folla, perché nella folla emergono gli istinti peggiori degli esseri umani, potrebbero anche non riconoscerla; potrebbero anche vederla là dove non c’è, e non vederla dove, invece, c’è. Tuttavia, ripetiamo, la dignità, quando è realmente presente in una persona, quasi sempre s’impone agli altri, anche loro malgrado. Il suicidio collettivo di un gruppo di trecento gladiatori barbari privò gli spettatori romani dell’atteso divertimento e li deluse fortemente, ma nel loro intimo, crediamo, perfino quei bruti dovettero ammirare la forza d’animo di quegli uomini che, sapendo di dover morire, preferirono farlo da uomini liberi piuttosto che da schiavi, beffando la sadica aspettativa della folla. Resta il fatto principale: che la dignità è una caratteristica della persona di cui lei stessa è giudice ed esecutrice; e che ciò che gli altri, o le circostanze esteriori, possono fare su di lei, non è sufficiente, di per sé, a privarla di essa. Fra le circostanze esteriori vi sono, evidentemente, la malattia e la vecchiaia, ma, in generale, vi è la sofferenza fisica, o, comunque, quella sofferenza — fisica o morale, o sia fisica che morale — che espone la persona agli sguardi altrui, e che la espone in maniera tale che gli altri possono vedere di lei anche le parti e gli atteggiamenti più intimi, sena che lei possa nasconderli. Una persona condannata alla morte di croce, per esempio, veniva spogliata quasi interamente, escluso un panno intorno ai fianchi, a mo’ di perizoma; e così, nuda sotto gli sguardi di tutti, veniva innalzata sul patibolo, in modo che non solo il suo volto, ma tutto il suo corpo, fossero ben visibili in ogni particolare e per ogni istante della lunga e dolorosissima agonia: la morte, infatti, sopraggiungeva per soffocamento, allorché il condannato non aveva più la forza di sostenere il tronco mediante le braccia, e il petto, compresso, impediva ai polmoni d’inspirare l’ossigeno. Ma ciò avveniva dopo un’agonia che durava moltissime ore, a volte dei giorni interi. La morte di Gesù, peraltro, giunse relativamente in fretta — tanto che Pilato ne rimase stupito, quando gliela riferirono -, perché, contrariamente alla consuetudine, Egli era stato flagellato prima di subire la crocifissione: anomalia che si spiega con il tentativo, da parte del procuratore romano, d’impietosire la folla, mostrandole il corpo di Gesù sfigurato dalle frustate e con la fronte coronata di spine, nella speranza che la folla si accontentasse di tale severa punizione e non insistesse con la richiesta di esecuzione capitale. Si consideri, infatti, che la flagellazione era già, di per sé, un supplizio crudelissimo, e che, non di rado, il suppliziato non sopravviveva alla razione stabilita di vergate; i carnefici, infatti, non si servivano di normali fruste ma di flagelli, ossia di fruste formate da strisce di cuoio armate con dei pallini di piombo, per cui ogni singola scudisciata penetrava in profondità nella carne e, prima che il flagello venisse ritirato, interi brandelli di tessuto venivano strappati via, e la perdita di sangue era notevolissima: non di rado il cuore cedeva all’intensità di una sofferenza così intensa e prolungata, e il disgraziato moriva d’infarto.

E adesso parliamo del cancro alla prostata del regista Mario Monicelli, che il 29 novembre 2010 scelse di gettarsi dalla finestra della sua stanza d’ospedale, situata al quinto piano, non avendo potuto, in un Paese così incivile come l’Italia, ottenere la sospensione delle cure mediche e la dolce morte invocata, ed ora, infine, ottenuta, dai fautori dell’autodeterminazione della propria morte (ma anche di quella dei figli minorenni o dei parenti stretti incapaci di esprimere la propria volontà). Il suo suicidio, infatti, all’età di novantacinque anni, non fu il risultato di un gesto improvviso e imprevedibile, ma di una lucida scelta maturata in piena consapevolezza: fu quindi, a tutti gli effetti, un suicidio volontario; e come tale venne salutato, fin da subito, dai suoi ammiratori e da tutti i paladini dell’eutanasia, che ne fecero quasi un simbolo di libertà e, soprattutto, di "dignità". Togliendosi la vita, e sia pure in quel modo drammatico e spettacolare, egli, secondo loro, aveva saputo salvaguardare la propria "dignità", che l’accettazione del decorso naturale della malattia, con le relative sofferenze, avrebbe irrimediabilmente compromesso. Oppure parliamo di Piergiorgio Welby, che, affetto da distrofia muscolare progressiva, e costretto a vivere per mezzo di un respiratore, chiese per anni che l’apparecchio gli venisse staccato e infine, il 20 dicembre 2006, fu "accontentato" da un medico e si spense, dopo aver ascoltato musica di Bob Dylan, circondato dalla moglie, dalla sorella e dai compagni radicali dell’Associazione Luca Coscioni: Pannella, Cappato, Bernardini; il medico venne poi prosciolto, nonostante si sia trattato palesemente di un caso di eutanasia, pratica allora proibita dalla legge, e dopo che il Consiglio Superiore della Sanità, appositamente interpellato dal ministro della Salute, aveva negato che l’uso del respiratore fosse assimilabile a una forma di accanimento terapeutico. In entrambi i casi si è trattato di persone affette da gravi patologie e prive di speranza di guarigione; e in entrambi i casi, e in molti altri dello stesso genere, è stato invocato il diritto della persona a poter "morire con dignità": per cui sorge la domanda se sarebbe stata una morte poco dignitosa, per Monicelli o per Welby, quella prodotta dal naturale decorso delle loro rispettive patologie. Eppure, abbiamo visto che la dignità di una persona non dipende dalla situazione in cui viene a trovarsi, né dal giudizio degli altri; se così non fosse, dovremmo necessariamente concludere che la morte di Gesù Cristo, oltre che dolorosa e umiliante, fu anche priva di qualsiasi dignità.

In effetti, quel che emerge da vicende come quella di Welby, o di Monicelli, e dall’orientamento di moltissime persone pur non direttamente implicate in situazioni analoghe, come si è visto in occasione della vicenda terminale di Eluana Englaro (9 febbraio 2009), è che la cultura della nostra società è tornata ad essere pienamente pagana, come se duemila anni di cristianesimo fossero scivolati via senza lasciare tracce consistenti. Le nostre idee sul suicidio somigliano a quelle di Seneca, di Lucrezio e, se vogliamo avvicinarci al nostro tempo, a quelle di Montaigne. Seneca, per esempio, tanto lodato dai moderni perché fu il solo intellettuale romano a mostrare una franca repulsione verso gli spettacoli dei gladiatori, a proposito della morte volontaria sostenne che è cosa opportuna togliersi la vita, quando il corpo diviene "un edificio putrido e in rovina" (ex aedificio putri ac ruenti) e non riesce ad assolvere le sue normali funzioni (cfr. Epistulae, 6, 58). Monicelli, dopo la morte, ha ricevuto le sole esequie civili e poi il suo corpo è stato cremato; anche quello di Piergiorgio Welby è stato un funerale laico. La Chiesa, da parecchi anni a questa parte, ha smesso di ricordare la gravità del suicidio e le sue implicazioni per la vita eterna; quanto alla cremazione, ormai praticata, in Italia, circa nel 10% dei casi, dopo essersi opposta da sempre, ha dato semaforo verde, a patto che le ceneri dei defunti non diventino dei "gioielli di famiglia" e che la pratica non sia fatta con un sottinteso irreligioso e anticristiano. Il minimo che si possa dire è che, anche su questo fronte, la Chiesa cattolica ha smesso di fare il suo dovere e si è trasformata in una neochiesa "aperta" e permissiva, che tollera consuetudini incompatibili con la fede cristiana e con la sacra Tradizione, al solo scopo di accattivarsi il consenso del mondo e di piacere al maggior numero possibile di persone. Vi è stata, quindi, una tacita o esplicita abdicazione, da parte del Magistero ecclesiastico e della pratica pastorale, rispetto al modo cattolico di porsi di fonte alla morte; abdicazione che nasce dall’avere introiettato le logiche della civiltà moderna, che sono intimamente anticristiane, per cui diventa una questione di lana caprina voler discettare e distinguere se la "morte assistita", oppure la cerimonia della cremazione, sono o non sono fatte con una intenzionalità irreligiosa e anticristiana. Ma certo che l’intenzione è quella: e poco importa se si tratta di una intenzione perfettamente lucida e deliberata, o di una intenzione, diciamo così, implicita e generica: quel che conta è il rifiuto del principio fondamentale del cristianesimo, ossia che Dio soltanto è padrone della vita e della morte; e che la pietosa tradizione della sepoltura è quella che riflette a pieno la fede cattolica nella resurrezione dei corpi, mentre la cremazione risale a una tradizione palesemente pagana, fondata sulla autodeterminazione assoluta dell’uomo di fronte alla morte.

Crediamo di aver mostrato che la dignità del morire non dipende dalle circostanze esterne, per quanto dolorose possano essere; perché le circostanze esterne diventano avvilenti solo se la persona si lascia avvilire, o, nel caso che essa non sia più in grado di esprimere la propria volontà, se i suoi parenti giudicano avvilente il suo stato. Pertanto, conservare o perdere la dignità nelle circostanze avverse, come una lunga e penosa malattia, è prima di tutto un fatto di percezione: se qualcuno si percepisce come spogliato della propria dignità, pretende che ciò sia ragione sufficiente per ottenere il diritto di essere aiutato a morire. Ma la percezione è un fattore soggettivo, e noi, qui, abbiamo bisogno di certezze; meglio non immaginare neppure cosa succederebbe se un genitore percepisse come intollerabile la malattia del figlio minorenne, e l’altro no: andranno in tribunale per vedere quale delle due percezioni dovrà prevalere? Ecco perché dobbiamo tornare al discorso religioso; ecco perché la morale cattolica è necessaria. Essa stabilisce che, al di là di ogni accanimento terapeutico, l’uomo non ha il diritto di decidere quando la sua vita deve avere termine, perché quella decisione spetta unicamente a Dio. Questo è un criterio certo. Anche se non piace ai radicali e alla signora Emma Bonino, che il papa Francesco ha ritenuto di qualificare come una grande italiana

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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