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Se la modernità è un progetto, per fare cosa?

In parecchi hanno provato a definire cosa sia la modernità, quale la sua essenza. 

Una delle definizioni più accreditate è quella di Jürgen Habermas, il quale l’ha descritta come un progetto (e sia pure incompleto): un progetto che nasce, o che, quanto meno, si consolida, con l’illuminismo. Il noto geografo e antropologo David Harvey, nel suo fondamentale studio The Condition of Posmodernity , del 1990 (titolo italiano:  La crisi della modernità, traduzione di Maurizio Viezzi, Milano, Il Saggiatore, 1993, pp. 25-26), così riassume il concetto:

Benché il termine "moderno" abbia una storia molto più lunga alle spalle, ciò che Habermas ["Modernity: an incomplete project", 1983] chiama il PROGETTO della modernità emerse nel XVIII secolo. Tale progetto consisteva in uno straordinario sforzo intellettuale da parte dei pensatori illuministi al fine di "sviluppare una scienza obiettiva, una morale e un diritto universali e un’arte autonoma secondo le rispettive logiche interne". Si trattava di utilizzare l’accumulazione della conoscenza generata da molti individui che lavoravano liberamente e creativamente con l’obiettivo dell’emancipazione umana e dell’arricchimento della vita di ogni giorno. Il controllo scientifico della natura prometteva la libertà rispetto alla povertà, ai bisogni e all’arbitrarietà delle calamità naturali. Lo sviluppo di forme razionali di organizzazione sociale e di modi di pensiero razionali prometteva la liberazione dall’irrazionalità del mito, della religione, della superstizione, la liberazione dall’uso arbitrario del potere e dal lato oscuro della nostra stessa natura umana. Soltanto grazie a un tale progetto potevano rivelarsi le qualità universali, eterne e immutabili dell’umanità tutta. Il pensiero illuministico [faccio qui riferimento a Cassirer, "Die Philosophie der Aufklarüng", Tubinga 1932] abbracciava l’idea di progresso, e cercava attivamente  di giungere a quella rottura con la storia e la tradizione che la modernità propugna. Si trattava, in particolare, di un movimento laico che perseguiva la demistificazione e la desacralizzazione della conoscenza e dell’organizzazione sociale al fine di liberare gli esseri umani dalle loro catene…

Potremmo continuare, e citare, oltre ad Habermas e Cassirer, molti altri autori, i quali, più o meno sulla medesima lunghezza d’onda, che poi è quella della cultura oggi dominante, sviluppano concetti assai simili; crediamo però che basti. Qui siamo già in presenza di un florilegio più che sufficiente a comprendere quanto la modernità, come tutti i miti, viva del proprio mito, con la sola, notevole differenza, che essa non si ritiene un mito, che, anzi, si considera il primo movimento della civiltà umana mirante alla distruzione di tutti i miti e della stessa visione mitica dell’uomo e del cosmo; e che su tale inconsapevolezza si gioca appunto la partita tra essa e le sue inevitabili, clamorose contraddizioni: talmente gravi che alcuni transfughi parlano ormai da tempo, con Jean-François Lyotard (1979), di una condizione postmoderna, ossia di un situarsi nella modernità con la coscienza dei suoi limiti e delle sue aporie, e con la volontà, più o meno chiara, di oltrepassare tali limiti e di affrontare e risolvere tali aporie.

Un progetto, dunque; benissimo. Tale progetto consisteva in uno straordinario sforzo intellettuale da parte dei pensatori illuministi. Oddio, "straordinario sforzo intellettuale" forse è un po’ troppo: dove sono questi grandi filosofi illuministi, capaci di "sforzi straordinari"? Voltaire, Diderot, Rousseau, sono grandi filosofi? Suvvia, non scherziamo. Hume, allora? Dipende cosa s’intende con la qualifica di filosofo. Hume è stato, senza dubbio, un grande: un grande distruttore. Pochi sono stati più bravi di lui nel distruggere le certezze plurisecolari del pensiero occidentale; ma più in là di questo, non è andato. Lui stesso se ne è reso conto e ha criticato gli scettici radicali, mostrando la futilità delle loro concezioni, dal momento che anch’essi, alla fine, devono tornare coi piedi per terra e adattarsi alla vita di ogni giorno, proprio come tutti gli altri. Ma la verità è che nessuno ha aperto la strada allo scetticismo radicale più di Hume, un vero genio della distruzione. Il vero pensiero, tuttavia, è sempre, prima di tutto, creativo; chi sa solo distruggere non è un vero pensatore, è solo un macellaio, un demolitore all’ingrosso. E chi resta, allora: Kant? Certo, Kant è il pensatore illuminista che vola più alto di tutti: ma sempre entro il medesimo orizzonte (e, in questo, è meno creativo, meno interessante e anche meno profondo di Vico). E anche Kant, dopotutto, la cosa più impegnativa che ha fatto, è stata interamente di segno negativo: demolire la metafisica e ridicolizzare lo spiritualismo. Kant ha castrato secoli e secoli di filosofia, gettando via quel che era sempre stato l’ambito essenziale del pensiero: tutto qui.

E a che cos’era finalizzato, poi, quello "straordinario sforzo intellettuale"? Secondo Habermas, esso era finalizzato a sviluppare una scienza obiettiva, una morale e un diritto universali e un’arte autonoma secondo le rispettive logiche interne. E allora vediamo. Sviluppare una "scienza obiettiva"? Strana espressione: la scienza pre-moderna che cos’era, che cosa voleva essere: una scienza soggettiva? E Aristotele, per esempio, cos’era stato: uno scienziato e un epistemologo soggettivista? Forse, più che "obiettiva", Habermas intendeva: una scienza materialista e meccanicista. Allora sì, che ci capiamo; allora i conti tornano. Ma una scienza materialista e meccanicista non è una scienza obiettiva; anzi, è il suo esatto contrario: è una scienza radicalmente ideologizzata; una scienza che rifiuta aprioristicamente tutto ciò che non rientra nel suo paradigma costitutivo. Andiamo avanti; una morale e un diritto universali. Motivo: per superare le limitazioni imposte dalle morali di derivazione religiosa e il diritto di origine statale. Qui sono le radici dell’illuminismo: nel deismo dei liberi pesatori e nel giusnaturalismo cosmopolita, fondato sulle (balorde) teorie contrattualistiche circa l’origine della società. I philosophes pretendono di accreditare la duplice persuasione che la morale si può e si deve costruire a tavolino, perché è frutto di una razionalità connaturata all’essere umano (cosa, questa, tutta da dimostrare), oltrepassando, così, le divisioni create dalle morali prodotte dalle diverse religioni; e che gli uomini vengono al mondo già dotati di diritti naturali, che la società dovrebbe solo codificare ed imporre formalmente: concetto assurdo perché intrinsecamente contraddittorio (la natura non conosce diritti; i diritti sono creazioni sociali). E infine si voleva sviluppare un’arte autonoma. Autonoma da cosa? Dalla tradizione? Dalle regole, dai canoni, dagli stili? Se è così, vediamo adesso dove questa idea ci ha portati: al soggettivismo esasperato e alla celebrazione del brutto, del deforme, del repellente, fino alla Merda d’artista di Piero Manzoni, spacciata per opere d’arte. In ogni caso, il fatto che la scienza, la morale, il diritto e l’arte dovessero svilupparsi, secondo gli illuministi, secondo le rispettive logiche interne, non aggiunge un elemento di chiarezza, semmai di ulteriore confusione, e denota una colossale ingenuità, o una colossale arroganza intellettuale: chi stabilisce quali sono le regole interne di questi ambiti del pensiero e della creatività umana?

Si trattava, secondo la visione illuminista, fatta propria dalla moderna cultura dominante, che è neoilluminista e altrettanto smaccatamente auto-referenziale, di utilizzare l’accumulazione della conoscenza generata da molti individui che lavoravano liberamente e creativamente con l’obiettivo dell’emancipazione umana e dell’arricchimento della vita di ogni giorno. Che la conoscenza si "accumuli", questo è un concetto controverso (perché non stiamo parlando di mattoni, o di patate, ma di qualcosa d’immateriale e di qualitativo, non di quantitativo), ma facciamo finta che non lo sia: facciamo finta che sia pacificamente riconosciuto da tutti, o da quasi tutti. Che questi "accumulatori" (o "spalatori"?) di cultura siano molti e che lavorino liberamente e creativamente, è opinabile: molti, rispetto a che cosa? E poi, prima del XVIII secolo nessuno pensava e agiva liberamente e creativamente? Erano tutti schiavi e tutti banalmente ripetitivi? Certo, questa è l’immagine che l’illuminismo voleva dare delle epoche precedenti, e specialmente del Medioevo; ma la cosa sarebbe tutta da dimostrare. Sarebbe da vedere, infatti, se gli architetti che hanno costruito le cattedrali gotiche, erano meno liberi e meno creativi dei philosophes che compilavano le voci della Encyclopédie. Ma lasciamo da parte la questione, che richiederebbe uno spazio apposito, e concentriamo l’attenzione sulla meta di tutto ciò: l’emancipazione umana e l’arricchimento della vita di ogni giorno. Emancipazione da che cosa? E arricchimento della vita, in che senso? I philosophes rispondono: emancipazione dall’ignoranza, dall’oscurantismo e della superstizione, insomma da tutto ciò che tiene avvinto e umiliato il pensiero; e arricchimento della vita in senso totale, complessivo, sia per l’individuo che per la società, anzi, specialmente per questa, essendo la pubblica felicità la loro meta finale. E come non sentirsi commossi, inteneriti, davanti a una legione di pensatori, scienziati, artisti, giuristi e moralisti che marcia compatta per donare agli uomini la pubblica felicità? Bisogna avere un cuore di pietra, per non apprezzare un così nobile slancio, un così disinteressato altruismo. Ma proseguiamo.

Il controllo scientifico della natura prometteva la libertà rispetto alla povertà, ai bisogni e all’arbitrarietà delle calamità naturali. Il dominio sulla natura, dunque, era visto come la via per liberare l’uomo dalla povertà, dai bisogni e dalle catastrofi naturali, significativamente considerate come qualcosa di "arbitrario", il che tradisce una mentalità pazzamente antropocentrica: come se terremoti ed eruzioni vulcaniche dovessero rispettare una disciplina, o un codice di comportamento, dettato dall’agenda delle priorità umane rispetto al pianeta Terra. Vale la pena di notare che il marxismo ha ereditato al cento per cento questa mentalità, che vede nella natura un avversario da domare e nella scienza uno strumento di potere: per Marx la natura non umana è cattiva, perché irrazionale, la macchina è buona, perché razionale: basta che le macchine siano nelle mani giuste, ossia quelle del proletariato, e il mondo diventerà un Paradiso terrestre. Che, poi, è la prosecuzione della vecchia utopia scientista di Francis Bacon: Knowledge is power, sapere è potere.

Lo sviluppo di forme razionali di organizzazione sociale e di modi di pensiero razionali prometteva la liberazione dall’irrazionalità del mito, della religione, della superstizione, la liberazione dall’uso arbitrario del potere e dal lato oscuro della nostra stessa natura umana. Un pensiero razionale e una società razionalmente organizzata: ecco la via maestra per instaurare quel Paradiso in terra, che un dio geloso ha negato agli uomini. E dunque: guerra al mito, alla religione, alla superstizione, forme deteriori accomunate dall’irrazionalità (anche i miti di Platone? ma il culto della scienza che salverà il mondo, non è esso stesso un mito?); solo così il potere verrà restituito alla sovranità popolare, sottraendolo all’arbitrarietà della tirannia, e solo così verrà esorcizzato anche il lato oscuro della stessa natura umana (che esiste, dunque, Rousseau permettendo). Teniamo presente questa idea: il nostro lato oscuro, l’inconscio, attende dai lumi del pensiero strumentale la liberazione da se stesso. Non manca che il mago capace di una simile liberazione: che arriverà, alla fine, anzi, ne arriveranno due: Freud e Jung, materialista il primo, (falsamente) spiritualista il secondo. Et voilà, il cliente è servito: ce n’è per entrambi i gusti.

Riassumendo: l’illuminismo è stato un movimento laico che perseguiva la demistificazione e la desacralizzazione della conoscenza e dell’organizzazione sociale al fine di liberare gli esseri umani dalle loro catene. Di nuovo: quali catene? Quelle della mancanza di libertà del pensiero. Ad opera di chi? Del libero pensiero. Un perfetto circolo chiuso, di un ottimismo a tutta prova e di un candore addirittura disarmante. Lo scopo ultimo, poi, liberare gli esseri umani, non è forse così alto e così nobile, da giustificare qualsiasi sacrificio (compresi quelli di ordine logico?). E da dove partire, per realizzarlo, se non dalla demistificazione e dalla desacralizzazione della conoscenza e della organizzazione sociale? Insomma, per costo è scontato che la conoscenza e l’organizzazione sociale sono inviluppate in una rete malefica, fatta d’inganni e illusioni: demistificando e desacralizzando, si ottiene la contemporanea liberazione sia dai falsi poteri ultraterreni, sia dai falsi poteri (e saperi) di questo mondo. Insomma: una liberazione totale. Che bello.

C’è solo un problema. Se la modernità è un progetto, i progetti si fanno in vista di qualcosa che si vuol costruire, non di qualcosa che si vuole liberare. La liberazione non è un progetto, ma un atto della volontà; dunque non si progetta la liberazione, ma si progetta qualcosa il cui scopo è produrre la liberazione, e in vista del quale ci si vuole liberare. Perché anche la liberazione, come tutto, ha bisogno di un perché. Se si elude la domanda sul perché, si rischia di progettare a vuoto: di progettare una macchina che non serve a nulla, o meglio, che serve solo a giustificare e ad alimentare se stessa. E così è stato l’illuminismo: non ha liberato un bel nulla, perché ha creato nuove e più tenaci forme di asservimento. Il suo è un peccato di origine: nel momento in cui ha preteso di porsi non come una nuova mitologia, ciò che in realtà era, ma come la fine di tutte le ideologie, ha tradito l’uomo, al cui servizio dichiarava di porsi, e così ha tradito anche se stesso…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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