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Mocha Dick: quando la realtà supera la fantasia

Non è cosa del tutto insolita che un praticante di caccia grossa si venga a trovare, per un insieme di circostanze, nella scomoda posizione di colui che è cacciato: per un subitaneo ribaltamento dei ruoli, la preda è divenuta cacciatore, e il cacciatore, preda. Si tratta di un’esperienza singolare, particolarissima, e, per molti aspetti, sconvolgente: l’uomo, specialmente se si tratta di un cacciatore di professione, che si sente, un po’, il padrone del mondo, e che, con il suo fucile in mano, è abituato a inseguire e a dare la morte agli animali dei quali si è messo in traccia, per la prima volta fa l’esperienza di vedersi catapultato dalla parte opposta dello scenario da lui predisposto: qualcosa non è andato come avrebbe dovuto andare, e quella che pareva una preda assolutamente certa, anche se, forse, non troppo facile (ma a nessun vero cacciatore piacciono le prede troppo facili: esiste una segreta affinità, e quindi una sorta di mutuo rispetto, e perfino una specie di codice cavalleresco, fra i migliori cacciatori e le loro prede: se la preda si lascia abbattere con troppa facilità, il cacciatore non ne ricava alcuna soddisfazione, come se un esperto alpinista venisse condotto in cima alla montagna in elicottero), diventata, da un momento all’altro, la sua inseguitrice. È l’uomo, adesso, a sentirsi braccato, a doversi guardare tutto intorno, a trovarsi in serio pericolo di vita, specialmente se l’animale è ferito e se ritiene di non avere più alcuna via di fuga, perché ciò significa che ha deciso di vender cara la pelle e di lottare fino all’ultimo respiro contro il suo persecutore bipede. In altre parole, adesso è l’uomo a fare l’esperienza della paura: quella sensazione di freddo che attanaglia lo stomaco come una morsa, che fa colare il sudore dalla fronte e che tende a paralizzare la volontà. L’uomo, divenuto preda, si sente come se fosse sotto l’effetto di un incantesimo: dubita perfino, se la padronanza dei propri nervi l’abbandona, di riuscire a servirsi efficacemente dell’arma che stringe fra le mani, e della quale, in condizioni normali, si riteneva espertissimo: e l’odore della paura — che non sfugge mai a un animale sul punto di attaccare – a sua volta stimola l’aggressività della fiera, la quale, celandosi nel fitto del fogliame, non attende altro che una minima imprudenza, una minima distrazione da parte di lui, per balzargli addosso e finirlo con una sola, possente unghiata.

Proviamo, adesso, a spostarci, con gli occhi della mente, da questo scenario tropicale, fatto di foreste, tigri o leoni, in un ambiente completamente diverso: le immense vastità del mare, e, in modo particolare, quelle dell’Oceano Pacifico meridionale, dove si può navigare per migliaia di chilometri senza vedere mai altro che mare e cielo. Siamo al tempo della navigazione a vela, e il mare è ancora popolato da migliaia di giganteschi cetacei: al principio del XIX secolo, una fiorente industria baleniera spingeva decine di navi, europee e americane, a battere le distese oceaniche per dare la caccia alle balene e ai capodogli, per alimentare l’industria della carne e dell’olio che, sui rispettivi mercati, erano molto apprezzati dai consumatori. La flotta baleniera statunitense aveva la sua base principale a Nantucket, nel Massachusetts; scendendo lungo le coste dell’intero continente americano, le navi baleniere giungevano sino alla sua estremità meridionale (non esisteva, allora, il Canale di Panama), e, affrontando coraggiosamente il difficile doppiaggio di Capo Horn, o, più raramente, insinuandosi nel labirinto di bracci di mare che formano lo Stretto di Magellano (rotta assai meno frequentata, anche perché lunghissima: sono 550 km. di navigazione, dal Capo delle Vergini, sull’Atlantico, al Capo Pilar, sul Pacifico), si slanciavano poi nelle acque del Pacifico del Sud, dove le loro prede erano ancora numerosissime e, sovente, navigavano non già solitarie, ma in piccoli branchi. Una vedetta stava sempre all’erta in cima alla coffa, per riconoscere i caratteristici sbuffi di vapore emessi dai bestioni. Dopo di che, la nave si lanciava all’inseguimento, e, giunta vicino all’animale, calava in mare le scialuppe con a bordo gli arpionieri, che avevano il difficile e pericoloso compito di colpire la balena che poi, fuggendo, si trascinava dietro anche l’imbarcazione, mediante la fine legata all’arpione; finché, esausta e dissanguata, si arrendeva, veniva finita e cominciava l’operazione di macellazione.

Ebbene: immaginiamo, adesso, che una balena — l’animale più grande del mondo – da preda, diventi cacciatrice: che sia lei a perseguitare i cacciatori, a distruggere le scialuppe, a scagliarsi, addirittura, contro le fiancate delle navi, sino a sfondarle e a provocarne l’affondamento. Uno scenario alquanto improbabile, diciamo pure romanzesco, non è vero? L’unica cosa che viene alla mente, infatti, è un romanzo, un capolavoro della letteratura universale (ma non subito apprezzato come tale: vivente l’autore, non ne furono vendute che circa 3.000 copie, in un arco di ben quarant’anni!): Moby Dick o la balena, di Herman Melville, del 1851. Chi di noi non ricorda la lucida follia del capitano Achab, nella fattezze dell’attore Gregory Peck, interprete del film del 1956, diretto dal grande regista John Huston? Una follia simbolica, che evoca, a sua volta, un noto aforisma di Nietzsche: Non puoi guardare troppo a lungo nell’abisso, senza che l’abisso finisca per guardare entro di te; cioè, nel nostro caso, chi è ossessionato dal Male e vuole distruggerlo a ogni costo, finirà per essere a sua volta avviluppato e distrutto dal Male. Eppure, la storia narrata da Melville, e così mal compresa dai suoi contemporanei, non è una storia creata interamente dalla fantasia dell’autore; al contrario: è una storia che gli è stata ispirata dalla realtà, e precisamente da due episodi distinti veramente accaduti, ma assai simili fra loro.

Il primo episodio si riferisce alla vicenda della nave baleniera Essex, di Nantucket, la quale, nel novembre del 1820, fu attaccata, in pieno Pacifico meridionale, lontana da qualsiasi terra abitata, da una grande balena alla quale stava dando la caccia. L’animale distrusse la nave con due assalti consecutivi e l’equipaggio, messosi in salvo sulle tre scialuppe, andò alla deriva per settimane: la maggior parte degli uomini andò incontro a una morte terribile, e solo otto su ventotto, infine, si salvarono, non senza aver fatto ricorso ad atti di cannibalismo pur di sopravvivere. Il primo ufficiale, Owen Chase, che fu tra i superstiti, mise poi per riscritto la loro tragica odissea, con il titolo chilometrico Il racconto di Owen sullo straordinario e penosissimo naufragio della nave baleniera "Essex" di Nantucket che fu attaccata e infine distrutta da un grande capodoglio nell’Oceano Pacifico. Melville lesse quel resoconto e venne a conoscenza della storia direttamene dal figlio di Chase, da lui incontrato mentre era egli stesso a bordo di una baleniera, la Acushnet (il che spiega la competenza con cui lo scrittore parla della vita a bordo delle baleniere e descrive le varie operazioni della caccia e della macellazione dei cetacei).

Il secondo episodio, o meglio, la seconda serie di episodi, si colloca a vent’anni di distanza dal primo, ed è altrettanto reale e perfettamente documentata. Ebbe come teatro le acque dell’Oceano Pacifico meridionale, più raramente dell’Atlantico meridionale, e per protagonista una gigantesca balena, soprannominata Mocha Dick, dal nome dell’isola cilena presso la quale venne avvistata la prima volta, nel 1840. Essa attaccò parecchie navi e le loro scialuppe, causando un notevole scompiglio nelle flotte baleniere che battevano quei mari e diventando in breve un’autentica, sinistra leggenda. Forse non tutti gli attacchi che venivano attribuiti a lei erano davvero opera sua; forse si trattava di animali diversi; ad ogni modo, i marinai che raccontavano le sue imprese, nelle bettole dei porti, erano convinti che si trattasse del medesimo capodoglio e nutrivano una sorta di terrore superstizioso nei suoi confronti. Non si sa se, alla fine, quel mostro del mare venne ucciso, oppure se morì di vecchiaia; sta di fatto che nel 1851, poco dopo la pubblicazione del romanzo di Melville, ci fu ancora un altro attacco, questa volta contro la baleniera Ann Alexander, che era colata a picco per le falle apertesi nello scafo, mentre gli uomini avevano dovuto rifugiarsi a bordo delle scialuppe.

Così ha ricostruito la vicenda della famigerata Mocha Dick il biologo ed etologo britannico Jeremy Cherfas nel suo libro Il canto delle balene (titolo originale: The Hunting of the Whale: a Tragedy that Must End, London, Penguin Books, 1988; traduzione dall’inglese di Laura Pignatti, Milano, Edizioni CDE su licenza della Geo,1990, pp. 88-90):

La chiamavano Mocha Dick perché era stata avvistata per la prima volta vicino all’isola di Mocha, al largo della costa cilena. A parte il colore, a contraddistinguere Mocha Dick era una straordinaria ferocia; in genere i capodogli si limitano a nuotare tranquillamente per conto proprio, almeno finché vengono arpionati. Poi ovviamente è possibile che essi si scaglino con forza contro le piccole barchette dei cacciatori. Ma Mocha Dick aveva cambiato la consuetudine: si dice che si aggirasse per il Pacifico alla ricerca di navi baleniere da attaccare.

La leggenda di Mocha Dick ebbe origine da un particolare incidente. Il caso di una balena adirata che aveva attaccato una baleniera. La balena che aveva affondato la "Essex" non era bianca, nei ricordi di Chase. Oltre un decennio dopo il naufragio della "Essex" però storie analoghe si sentivano ovunque. Quello che era stato una rarità ora era diventato un fatto frequente e Mocha Dick divenne il principale argomento di conversazione tra i cacciatori di balene. La lista delle navi che aveva mandato in frantumi come se fossero fuscelli e degli uomini che si era portata via si allungava di mese in mese. Forse tutti gli incidenti di cui Mocha Dick era ritenuta responsabile si erano effettivamente verificati. Forse erano stati anche più numerosi ma erano passati inosservati. Se comunque esisteva una balena di come Mocha Dick, essa non avrebbe potuto assolutamente causare tutti i disastri che le venivano attribuiti. Neanche una mostruosa balena bianca avrebbe potuto percorrere le distanze che Mocha Dick avrebbe dovuto percorrere per essere in grado di causare tutti gli incidenti che i giornali di bordo le attribuivano. Tuttavia Mocha Dock venne ritenuta la balena malvagia per eccellenza e venne ritenuta responsabile di innumerevoli atti infami.

Nel giugno del 1840 la nave baleniera inglese "Desmond"navigava a 215 miglia dalla costa di Valparaiso. Un enorme capodoglio solitario più grande di qualsiasi capodoglio mai visto da tutti i membri del’equipaggio affiorò a due miglia dalla nave. Vennero calate in mare le lance ed iniziò l’inseguimento, ma prima che i cacciatori riuscissero a raggiungerlo, l’animale si voltò e si diresse contro di essi. Più che nero era grigio ed aveva una chiazza bianchissima sulla testa. Gli uomini a bordo delle lance tentarono la fuga, ma il capodoglio raggiunse la prima imbarcazione e la colpì con la testa facendo cadere in mare gli uomini quindi sbriciolò la barca. I naufraghi erano appena saliti sulla seconda barca, quando il capodoglio affiorò proprio sotto di essa. Anche questa barca finì i frantumi. Mocha Dick deve essersi guardata bene attorno prima di andarsene; quando i naufraghi vennero recuperati dalla "Desmond" mancavano due uomini.

Un mese dopo, a 500 miglia di distanza, i cacciatori di balene a bordo del brigantino a palo russo "Serepta" uccisero una balena solitaria. Mentre le barche stavano tornando verso la nave era comparsa Mocha Dick che aveva distrutto a morsi una delle lance ed attaccato una seconda. Il capitano si era nascosto con la sua lancia dietro la balena morta riuscendo ad ingannare momentaneamente il malvagio animale. Gli uomini remarono a più non posso e riuscirono a raggiungere la nave, ma non furono in grado di recuperare il bottino: Mocha Dick aveva sorvegliato la balena morta fino a quando gli uomini della "Serepta" avevano ceduto e se ne erano andati.

Il capitano ella nave baleniera di Bristol "John Day" aveva giurato di uccidere quel mostro se mai gli fosse capitato a tiro o di perdere tutti i suoi uomini e le imbarcazioni nell’impresa. Nel maggio del 1841 egli si trovava nell’Atlantico meridionale quando improvvisamente a meno di 300 metri affiorò Mocha Dick. Il capitano fece calare in mare tre barche che si lanciarono all’inseguimento del mostro. Un secondo di bordo più abile degli altri riuscì a spostare la barca di lato proprio quando la balena stava per raggiungerli ed a conficcarle un arpione nel fianco. La balena impazzita trainò la barca a velocità folle per circa tre miglia, quindi si voltò all’improvviso scagliandosi contro la barca. Mocha Dick colpì la fiancata e quindi inflisse all’imbarcazione un colpo possente con le enormi pinne caudali. Due membri dell’equipaggio erano scomparsi, Mocha Dick si mise in panna ad aspettare.

Le due lance residue ripresero la caccia. Gli uomini di una riuscirono ad afferrare la fune dell’arpione che era tuttora infisso nel fianco dell’animale. Il mostro si immerse nuovamente per tornare a galla con grande fragore proprio dietro la terza barca. L’imbarcazione lunga meno di sette metri effettuò una capriola in aria ma tutti restarono miracolosamente illesi. Il capitano del "John Day" aveva comunque visto abbastanza e dette ordine ai suoi uomini di tornare a bordo della nave che si allontanò abbandonando al suo destino Mocha Dick che spumeggiava agitando furiosamente la coda.

Ma incidenti analoghi a questo se ne verificarono molti altri, dall’Atlantico meridionale a tutti il pacifico fino alle coste del Giappone. Con tutta probabilità essi non furono tutti opera di una stessa balena, nonostante i cacciatori lo affermassero. Dopo un ventennio i racconti riguardanti un malvagio capodoglio bianco improvvisamente cessarono; ciò forse potrebbe essere la ferma del fatto che effettivamente si trattasse di un unico animale. Comunque sia, la cosa non ha grande importanza, perché Mocha Dick ispirò a Melivlle il romanzo "Moby Dick", e questo è quanto conta.

Che dire di questa strana, affascinante, quasi incredibile storia? Ha il sapore arcano del fantastico, eppure è una storia assolutamente reale. Ciò significa che la fantasia, sovente, è meno audace della realtà; e che, come diceva Shakespeare, vi sono più cose fra la terra e il cielo, di quante ne possa sognare tutta la vostra filosofia. Il che dovrebbe renderci, da un lato, più modesti nella nostra pretesa di aver capito quasi tutto del misterioso mondo della natura; dall’altro, più aperti ad accogliere come possibile ciò che, sfidando le nostre abitudini mentali, si presenta come altamente improbabile…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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