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28 Ottobre 2017La fama di Ray Bradbury (Waukegan, Illinois, 22 agosto 1920-Los Angeles, 5 giugno 2012), in Europa, è legata in larga misura all’uscita del film di François Truffaut Fahrenheit 451, nel 1966, versione cinematografica del romanzo omonimo, pubblicato per la prima volta, a puntate, sulla neonata rivista Playboy, nel novembre-dicembre 1953, e tratto, a sua volta, dal racconto breve The Fireman, uscito anch’esso, per la prima volta, su rivista, precisamente sul numero di febbraio 1951 di Galaxy Science Fiction. Il film ebbe una vasta eco, anche per il nome e per l’indubbia bravura del regista francese; ma già con la traduzione nelle lingue europee del volume antologico Cronache marziane, generalmente considerato il suo capolavoro, che Bradbury aveva scritto prima, nel 1950, la notorietà dell’autore americano aveva cominciato ad affermarsi nel nostro continente (la traduzione italiana di Giorgio Monicelli, per la prestigiosa collana di Arnoldo Mondadori I libri della Medusa, è del 1954).
Bradbury, sia in America che in Europa, viene generalmente considerato come un autore del genere fantascientifico, e da tale cliché raramente è stato liberato. Se i ventotto racconti delle Cronache marziane sono di argomento assai vario, e caratterizzati da un particolare velo di malinconia, un po’ inusuale nella classica fantascienza statunitense, Fahrenheit 451 è di solito ascritto al genere fantascientifico-distopico, poiché descrive una società futura piuttosto angosciante, dominata da una dittatura ferrea, però "mascherata" da un sofisticato paternalismo, e nemica della cultura, al punto che squadre speciali della polizia vanno continuamente in perlustrazione per cercare, raccogliere e incenerire, con i lanciafiamme, ogni genere i libri, ma specialmente i romanzi e i capolavori della letteratura universale: i governanti, infatti, pensano che la lettura sia quanto mai nociva all’umanità, e che essa provochi nel corpo sociale un processo di disgregazione morale estremamente pericoloso.
In entrambi questi libri, e nei numerosi altri pubblicati dall’autore, e tradotti anche in italiano (Il gioco dei pianeti, 1951; Le auree mele del Sole, 1953; L’estate incantata, 1957; Il popolo dell’autunno, 1962; L’albero di Halloween, 1972; Molto dopo mezzanotte, 1975; 34 racconti, 1984; Omicidi di annata, 1986; Constance contro tutti, 2002), come già s’intuisce dai titoli, Bradbury manifesta una vena che non è quella solita del genere fantascientifico, anzi, una vena che solo per convenzione si suole incasellare in quel genere: in effetti, egli è innanzitutto uno scrittore-poeta, pieno di stupore davanti allo spettacolo del mondo, e, nello stesso tempo, portato alla pensosità e all’introspezione, non solo nei confronti del futuro che attende l’umanità, ma anche per il mistero che vi è in fondo all’anima umana, e che i viaggi nello spazio e gli scenari futuri, più o meno sereni, più o meno pessimistici, permettono semmai di comprende meglio, mettendo a fuoco particolari problematiche che erano allo stato latente, ma non già d’influenzare o cambiare in maniera decisiva. Scrittore umanista, Bradbury non crede che le scoperte tecnico-scientifiche possano mutare di segno l’evoluzione dell’umanità, se non in senso negativo, qualora esse non siano accompagnate da un analogo progresso di tipo spirituale, senza il quale gli uomini non saprebbero fare buon uso del potenziale tecnologico di cui eventualmente disponessero. Ecco perché, nei suoi racconti e nei suoi romanzi, gli aspetti propriamente tecnici e scientifici del "genere" occupano un posto modestissimo e rimangono sullo sfondo; al centro, vi è sempre l’uomo, con le sue domande, i suoi bisogni, le sue aspirazioni, la sua sete d’infinito, ma anche con una coscienza abbastanza chiara dei propri limiti. In un certo senso, i racconti extraterrestri di Bradbury descrivono pur sempre una balzachiana Commedia umana che riflette, come attraverso la superficie d’un poliedro dalle innumerevoli facce, l’eterno gioco dei sentimenti e delle passioni dell’uomo, che è fondamentalmente lo stesso e non cambia, anche se proiettato sullo scenario d’un futuro peraltro non troppo lontano. E, dunque, sono storie nelle quali si respira un po’ l’atmosfera incantata della Tempesta di Shakespeare, fatta di pacata saggezza e d’indulgente comprensione per gli umani difetti.
Ora, che Ray Bradbuy sia uno scrittore-poeta il quale ama ambientare le sue storie in una cornice fantascientifica, e non un comune scrittore di fantascienza, è cosa abbastanza largamente ammessa; ma la domanda che vogliamo porre è più specifica, e suona così: è anche uno scrittore essenzialmente religioso? La domanda sorge dopo una lettura non superficiale delle sue opere, tralasciando la cornice esteriore e andando dritti al cuore delle sue tematiche, che hanno tutte, più o meno, a che fare con l’ambito etico e spirituale.
Osservavano, nel loro celebre libro Il mattino dei maghi. Introduzione al realismo fantastico, scritto a quattro mani, Louis Pauwels e Jacques Bergier (titolo originale: Le matin des magiciens, Paris, Librairie Gallimard, 1960; traduzione dal francese di Pietro Lazzaro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1963, pp. 303-305):
Uno dei più bei poemi della nostra epoca s’intitola "Cronache Marziane". L’autore è un americano di una trentina d’anni, cristiano alla maniera di Bernanos, e diffida di una civiltà di robot; è un uomo pieno di collera e di carità. Si chiama Ray Bradbury. Non è, come si crede in Francia, un autore di fantascienza, ma un artista religioso. Si serve dei temi fantastici più moderni, ma se propone viaggi nel futuro e nello spazio è per descrivere l’uomo interiore e la sua crescente inquietudine.
All’inizio di "Cronache Marziane" gli uomini stanno per lanciare il primo grande missile interplanetario. Esso raggiungerà Marte e, per la prima volta, stabilirà contatti con altre intelligenze. Siamo nel gennaio 1999:
"Un momento prima era inverno a Ohio [sic], con le sue porte e le finestre chiuse, i vetri variegati dal gelo, i tetti con le frange di stalattiti… Poi una lunga ondata di caldo percorse la piccola città. Un’enorme ondata di aria bruciante, come se fosse stata aperta la porta di un foro,. Il soffio caldo passò sulle case, sugli alberi, sui bambini. I pezzi di ghiaccio si staccarono, si spezzarono e cominciarono a fondere… L’ESTATE DEL MISSILE. La notizia si propagava di bocca in bocca nelle grandi case aperte. L’ESTATE DEL MISSILE. L’alito infiammato del deserto scioglieva alle finestre gli arabeschi del gelo… La neve cadendo dl cielo freddo sulla città si trasformava in pioggia calda prima di raggiungere il suolo. L’ESTATE DEL MISSILE. Sulle soglie delle porte dai portici grondanti, gli abitanti guardavano il cielo diventare rossastro…".
Ciò che accadde più tardi agli uomini, nel poema di Bradbury, sarà triste e doloroso, perché l’autore non crede che il progresso delle anime possa essere legato al progresso delle cose. Ma, nel prologo, egli descrive quell’"estate del missile" ponendo ‘accento su un archetipo del pensiero umano: la promessa di un’eterna primavera sulla Terra. Nel momento ij cui l’uomo tocca la meccanica celeste e v’introduce un motore nuovo, grandi cambiamenti si verificano quaggiù. Tutto si ripercuote su tutto. Negli spazi interplanetari ove ormai si manifesta l’intelligenza umana, avvengono reazioni a catena che si ripercuotono sul globo la cui temperatura si modifica. Nel momento in cui l’uomo conquista non soltanto il cielo, ma "ciò che è al di là del cielo"; nel momento in cui ha luogo una grande rivoluzione materiale spirituale nell’universo; nel momento in cui la civiltà cessa di essere umana per diventare cosmica, c’è una specie di ricompensa immediata sulla Terra. Gli elementi non schiacciano più l’uomo. Un’eterna dolcezza, un eterno calore avviluppano il globo. Il ghiaccio, simbolo di morte, è vinto. Il freddo si ritira. La promessa di un’eterna primavera sarà mantenuta se l’umanità compie la sua missione divina. Se essa si integra nel Tutto universale, la terra eternamente tiepida e fiorita sarà la sua ricompensa. Le potenze del freddo, che sono le potenze della solitudine e della decadenza, saranno spezzate dalle potenze del fuoco.
È un archetipo diverso dall’assimilazione del fuoco all’energia spirituale. Chi porta quest’energia, porta il fuoco…
Il nostro interrogativo scaturisce dal fatto che c’è, nella narrativa del nostro, un qualcosa che non si risolve mai del tutto sul piano della pura immanenza; personaggi e situazioni si muovono in una realtà che resta sempre dischiusa su una dimensione "altra", non nel senso che ci si aspetterebbe da opere del genere fantascientifico, ossia esotica, aliena, impensabile, ma proprio nel senso più antico e profondo della parola: quello dell’invisibile. Qualunque cosa sia, si tratta di una dimensione che sta "oltre": oltre la sfera fisica, quella esperibile per mezzo dei sensi. E tuttavia si tratta di allusioni, di atmosfere, di una certa qual sensazione: una sensazione d’incompletezza, come di qualcosa che è rimasto a metà, che non ha ricevuto la mano finale. È il noumeno di Kant, la cosa in sé; o, forse, la metafisica classica. Il tutto, come dicevamo, avvolto da un velo di sottile malinconia, come di un mondo crepuscolare, un mondo che ha smarrito qualcosa, ma non sa bene che cosa. Eppure, da quel qualcosa dipende tutto. Perciò nelle pagine di Bradbury bisogna andare oltre il testo, oltre quel che c’è scritto sulle righe; bisogna, in un certo qual senso, cogliere anche il non detto, cogliere ciò che l’autore ha lasciato nella penna. Ma che cosa? E perché lo ha fatto, ammesso che lo abbia fatto? Ecco: l’interrogativo sulla dimensione "religiosa" dell’opera di Bradbury nasce da qui.
Proviamo, anzitutto, a definire l’essenza dell’atteggiamento religioso. Ci sembra che siano due gli elementi caratterizzanti: il senso del limite e il senso del mistero. Colui che possiede questi due elementi, ha un animo naturalmente religioso: sa che l’uomo non può capire o fare tutto; sa che c’è, e ci sarà sempre, qualcosa più grande di lui, al di sopra di lui. Colui che crede nel progresso illimitato, invece, non ha un animo religioso, perché non ha il senso del limite; e colui che non vede misteri, ma solamente problemi, cioè degli ostacoli che si possono superare, degli interrogativi che si possono sciogliere, non ha un animo religioso. Nella narrativa di Ray Bradbury sono presenti entrambi questi elementi, dunque è corretto di parlare di essa come di una narrativa il cui sottofondo è religioso. Non è necessario che tale atteggiamento sfoci in una fede positiva; è sufficiente che il limite e il mistero pongano l’uomo di fronte alla propria finitezza, e, nello stesso tempo, gli facciano avvertire la nostalgia dell’infinito e del luminoso. Se non vi fosse l’infinito e se non vi fosse l’assoluto, l’uomo non proverebbe né il senso del proprio limite, né quello del mistero che lo circonda, così come, se non ci fosse il giorno, nessuno avrebbe piena coscienza di che cosa realmente è la notte. Questo, però, è un passo successivo, di ordine sia spirituale sia logico; e Bradbury, che non è un filosofo o un teologo, ma un delicato scrittore dalla sensibilità quasi crepuscolarista, non lo compie: si ferma prima, decisamente prima. I suoi personaggi, pertanto, rimangono immersi in un’atmosfera di sospensione: hanno intuito che, al di là dell’orizzonte, o forse, semplicemente, oltre la parete della stanza, deve esserci qualcosa d’altro, ma non arrivano neppure a intravederlo: non possono più vivere come prima, perché hanno alzato, per così dire, un piccolo lembo del mistero, ma non sono approdati ad alcuna certezza nuova. Non di rado finiscono per rassegnarsi a vivere in questo limbo, in questa situazione palesemente contraddittoria; e, a volte, la cosa è attraversata da una vena di umorismo, di auto-ironia, come nel racconto Le città silenti, dove l’ultimo uomo rimasto sul pianeta Marte, dopo che tutti se ne sono andati, incontra l’ultima donna, che aveva conosciuto per telefono, ma ne resta talmente deluso, da fuggire e non rispondere più al telefono, quando, di tanto in tanto, esso squilla nel silenzio: evidentemente, la poveretta prova a formare tutti i numeri dell’elenco, nella vana speranza di ritrovare l’amico così repentinamente scomparso. Rassegnazione, certo; ma una rassegnazione abbastanza tranquilla, diremmo accettabile, senza toni cupi o drammatici, che non sono nelle corde del nostro autore. Vi è un sorriso, dietro questa tristezza: un sorriso benevolo, mai un ghigno sarcastico. Perché Ray Bradbury, tutto sommato, guarda al mondo degli uomini (i suoi "marziani") con benevolenza, comprensione, affetto; però, nello stesso tempo, non se ne nasconde i difetti, le meschinità, i limiti, appunto. Ed è dalla percezione di questi limiti che si alimenta la sua visione religiosa del reale. Difficile dire se i suoi personaggi ne siano consapevoli; si direbbe di no, dato che continuano ad avvolgersi nelle stesse dinamiche, e raramente fanno tesoro dell’esperienza. Hanno troppe macchine, forse: e la tecnica, per Bradbury, non è di alcun aiuto alla maturazione interiore, affettiva, umana, se procede da sola, slegata dall’anima delle persone e della società. Diceva Drieu La Rochelle (a proposito di possibili collegamenti fra questo scrittore americano e la cultura francese) che l’uomo moderno, per affrontare le difficoltà nelle quali si dibatte, ha bisogno di ben altro che di macchine; e questa è precisamente l’idea dell’autore di Cronache marziane e Fahrenheit 451. In questo senso, Bradbury è uno scrittore religioso, o quanto meno uno scrittore che rimane aperto all’ipotesi della trascendenza.
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