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Giuseppe Savino, elogio della scrittura “pulita”

Può capitarvi di andare al mercatino e di trovarvi fra le mani un libro cartonato, di circa 200 pagine, dalla modesta apparenza, con una copertina poco vistosa: una bambina bionda con le mani giunte in un gesto di preghiera, gli occhi azzurri dallo sguardo concentrato, "pulito", e, sullo sfondo, niente; solo il titolo, La storia incantata, e il nome dell’autore: Giuseppe Savino. È, chiaramente, un libro per bambini: più o meno ingiallito; ma, se anche apparisse nuovo di zecca, si capirebbe al primo colpo d’occhio che è un libro di circa settant’anni fa: nessuna casa editrice, oggi – ai tempi di Harry Potter e di Daniel Pennac con la sua fata Carabina – pubblicherebbe un libro con quella copertina, quella semplicità, quella "ingenuità". Infatti, sfogliandolo, si scopre che l’anno di pubblicazione è il 1952, ad opera delle Edizioni S.A.S. di Torino, Corso Regina Margherita, numero 1. Per chi non lo sapesse, era una casa editrice cattolica, ma "laica", come le Edizioni S.A.I.E. (Società Azionaria Internazionale), nate nel 1954 — lo stesso anno della R.A.I. – per impulso del beato don Giacomo Alberione, e come la S.E.I. (Società Editrice Internazionale), quest’ultima dei salesiani, ubicate rispettivamente al numero 2 e al numero 176 dello stesso viale torinese.

Per tutte e tre queste case editrici, per ciò che hanno offerto al lettore italiano, e specialmente ai bambini e ai giovani, negli anni decisivi del boom economico, allorché si trattava di mostrare che la Chiesa aveva una identità, una linea e una prospettiva ben diverse da quelle del materialismo edonista e consumista che allora stava prendendo piede nel nostro Paese, proviamo un’ammirazione ed una gratitudine sconfinate. Non sono pochi i libri meravigliosi di cui la nostra infanzia e adolescenza di sono nutrite, e questo proprio mentre la marea di fango del politicamente corretto stava dilagando nell’editoria e contribuiva a portare fuori strada, intellettualmente e moralmente, milioni di giovani. Mentre celebravano i loro dubbi, osceni trionfi, scrittori pornografici come Moravia e Pasolini, e filosofi scalcagnati e distruttivi come Sartre e i suoi imitatori nostrani, libri come la serie de I cinque sbarazzini di Enid Blyton, della S.A.I.E., o come Trent’anni nella Terra del Fuoco, del missionario Alberto Maria De Agostini, della S.E.I., sono stati assai più che una boccata d’aria fresca in mezzo alla palude malarica: sono stati fonte di gioia, di belle fantasticherie, di ore serene, di pensieri lieti e positivi, tutte cose di cui il pubblico moderno aveva e ha un bisogno immenso. E la nostra ammirazione e la nostra gratitudine crescono ancora di più, e si tingono di struggente nostalgia, vedendo che cosa sono diventate l’editoria e la stampa "cattoliche" dei nostri giorni: perché il malcapitato che entra in una libreria paolina dei nostri giorni e vede esposti i libri "teologici" di Vito Mancuso e di Enzo Bianchi, o lo sciagurato cattolico che acquista L’Avvenire e vi trova, per sua edificazione e consolazione, le vignette di Sergio Staino, ateo militante e "storico", nonché presidente onorario dell’Uaar, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, nelle quali Gesù Cristo appare come un povero fesso, per giunta dall’aria semiaddormentata, che, per secoli, quelle anime nere dei preti hanno strumentalizzato, facendone addirittura un dio, per i loro turpi ed inconfessabili interessi, o che vede, in prima pagina, un immenso spot pubblicitario a favore della legge sullo ius soli, ebbene, costoro non possono sapere, se hanno meno di quaranta o cinquanta anni, che le cose non sono sempre state così, e che vi fu un tempo nel quale la stampa cattolica era davvero cattolica, e l’editoria cattolica non smerciava libri modernisti facendoli passare per cattolici, ma offriva ai lettori, e specialmente ai bambini, e ai loro genitori che volevano regalare delle sane lettura ai loro figli, dei libri, dei romanzi, dei saggi, nei quali si respirava il profumo del pulito, la gioia della bellezza e dell’armonia, il conforto della coscienza sgombra dalle sozzure – e quel che è peggio, addirittura demoniaco – il compiacimento per le sozzure, che è tipico di certa pseudo cultura moderna, fatta passare per arte, per letteratura, per filosofia, mentre è solamente spazzatura ed immondizia, che ha inquinato e avvilito innumerevoli lettori. E ciò non per negare che si possa parlare anche delle cose brutte, ma altro è parlarne e altro è rotolarsi nel fango.

Dunque: se vi capitasse in mano il libro di Giuseppe Savino La storia incantata, acquistatelo. È una bella, commovente lettura; soprattutto edificante e colma di poesia, delicatezza d’animo, sentimenti gentili: parte dalla leggenda dell’asfodelo e vola nei regni della fantasia. E fatelo leggere ai vostri figli, se ne avete; o regalatelo a qualche bimbo. Forse non lo leggerà; pazienza: l’importante è provarci, offrire delle occasioni, in modo che i bambini e i ragazzi sappiano che esiste anche un altro modo di vedere il mondo, non solo quello materialista ed edonista; non solo quello freudiano, che dà per scontata la sozzura insita nell’uomo; né quello pasoliniano, che inneggia al vizio; oppure, per restare nell’ambito della letteratura per l’infanzia — un genere pressoché estinto, dacché si è voluto fare del bambino un precoce vecchietto, carico di tutti i vizi della vecchiaia — che non c’è solo Gianni Rodari, uno scrittore immensamente gonfiato e sopravvalutato, solo perché piaceva alla sinistra, detentrice del monopolio culturale, e perché prendeva le fiabe a pretesto per inneggiare al comunismo, cosa che gli è valsa la dedicazione d’innumerevoli scuole elementari e medie, vie e piazze del bel Paese là dove ‘l sì suona; ma che c’è anche altro. O, almeno, che c’era: visto che bisogna andare indietro di settant’anni per trovare una letteratura sana e formativa per il pubblico dei più giovani. Ma così è: del resto, lo abbiamo detto continuamente: la modernità è una malattia, una malattia come la peste: o se ne guarisce, o se ne muore — in senso spirituale, s’intende. Il guaio è che i morti si contano a milioni, ma non sanno di essere morti; se ne vanno in giro, convinti, convintissimi d’essere vivi e vegeti, anzi, d’essere pieni di vita: e invece puzzano di cadavere, perché sono già – intellettualmente e moralmente — in avanzato stato di putrefazione, e mandano un fetore insopportabile. Chi ne è guarito, invece, è vaccinato per sempre: e non potrà mai più vedere il mondo come lo vedeva prima, cioè come lo vedeva quand’era ammalato anche lui, come gli altri, e sprofondato anche lui, come gli altri, nella pestifera palude. Così, colui che è malato di modernità, se si trova per le mani un libro come questo, dirà: Ma guarda che roba! Com’erano sempliciotti, com’erano ingenui, com’erano bacchettoni i nostri nonni!, e lo rimetterà sul banco, con un’alzata di spalle, senza degnarlo più nemmeno d’un pensiero. Chi ne è guarito, invece, non appena avrà sfogliato le sue pagine, e ammirato i bellissimi disegni di un illustratore per l’infanzia, o forse di una illustratrice, così modesta da non essersi neanche firmata, o si è firmata con uno pseudonimo che, oggi, è quasi impossibile identificare, capirà di aver trovato un tesoro, e si affretterà ad acquistarlo e a portarselo a casa, tenendolo ben stretto sotto il braccio — come si fa, appunto, coi tesori preziosi, che si teme di poter sciupare anche solo involontariamente.

Quanto all’autore, buio assoluto: abbiamo provato a fare una ricerca in rete, ma niente: pare che non sia mai passato sulla terra, che non abbia camminato su piedi umani, che sia stato un’entità inafferrabile, di cui i suoi contemporanei non si sono neppure accorti. Giuseppe Savino: e chi era costui?, potremmo chiedere, parafrasando don Abbondio, alle prese con il buon Carneade. Nessuno lo sa: ma non è una lacuna della nostra cultura; ne sono sparite le tracce. Non gli hanno eretto busti, né dedicato scuole e piazze; non gli hanno riservato nemmeno una minuscola nota bio-bibliografica da qualche parte. E va bene: ne faremo a meno. A noi basta il libro che ci ha lasciato: forse non sarà un capolavoro, ma è un piccolo tesoro di poesia, e glie ne siamo grati. Difficile farne una sintesi: è una storia incantata che si snoda nei regni della fantasia, con inesauribile inventiva, passando da una scena all’altra, da un quadro all’altro, alternando frequenti poesie in versi alle pagine di prosa, però — e qui sta il segreto, e, nello stesso tempo, la bravura dell’autore — senza smarrire mai il legame con la realtà, e precisamente con la dimensione morale: tutto è occasione per una riflessione sulla condizione dell’uomo, sulla gioia della bontà, e anche sul mistero del male, ma trattato, quest’ultimo, con mano lieve, come si addice alla giovane età dei lettori cui il libro è destinato. Insomma, non è una scorribanda nei regni dell’immaginazione che rimane fine a se stessa; è molto di più: è una elevazione dell’anima verso i buoni sentimenti, verso l’aria pura e la luce, verso Dio, ma eseguita con lievità, con delicatezza, con tocco soave, senza moralismi a buon mercato e senza colpi bassi di genere emotivo. E se una lacrima sgorga sul ciglio del giovane lettore, cosa che può accadere — se pure i bambini di oggi sanno commuoversi e il loro cuore non si è indurito a forza di giochi elettronici violenti e disumani — ciò accade perché vi è un fondo di generosità e di altruismo nell’anima umana, che libri come questi son capaci di risvegliare; mentre altri libri, e film, e spettacoli musicali, che non esitiamo a definire infernali, fanno esattamente il contrario: stuzzicano, accarezzano e sobillano la parte malvagia che sonnecchia in fondo all’anima.

Impossibile, quindi, rendere un’idea della vicenda, così come è impossibile selezionare una pagina particolarmente meritevole di attenzione e di riflessione: non c’è; il libro — metà romanzo, metà fiaba — andrebbe letto tutto, anche per gustare le numerose illustrazioni, in bianco e nero e a colori, per a maggior parte firmate Gian — ma c’è anche un’altra mano, che si firma Salelli, a quanto pare -, non meno poetiche e suggestive della parola scritta. Perciò, ne prendiamo una, letteralmente a caso, e ci permettiamo di riportarla, come un piccolo assaggio e un invito alla lettura; vi si parla, con sensibilità e poesia, di un grande mistero, che ai bambini non deve essere taciuto: quello del piacere maligno di sporcare le cose belle, e che ha sempre un prezzo: la perdita dell’innocenza (pp. 24-26):

La fontana ciangottava correndo lontano; poi riprendeva, trillando, il suo canto.

La nube vi si specchiava dal cielo.

L’uccello scendeva a baciarla rapido, sorbendo, con il becco, un rosario di gocciole vive.

Talvolta, un Angelo si fermava un istante, seduto sul sasso muschiato, e sorrideva, ascoltando quella voce; e non partiva mai senza aver posto le sue mani sulla fontana, raccogliendole come un cuore.

L’acqua s’animava, allora; come d’una fiorita di rose. La canzone risonava più pura. Il rivoletto correva più rapido; saltellando fra i sassi, giocondo d’insolita festa.

Poi, un giorno…

Un Angelo bello, come i raggi del sole mattutino, scosse il capo, e con un sospiro volò lontano.

E vennero, invece, strane creature ch’io non avevo mai vedute.

E chi usciva dal cavo d’un albero, chi dal ventre d’un fungo, chi dalla fessura d’un sasso; chi saltava dall’orlo d’un baccello risecchito, e chi dal guscio infranto d’una noce…

Uscivano, con un brusio di fuoco, e crescevano rapidi e rattorti, come la fiamma. Uscivano, come dall’arnia vengono le vespe. Ondeggiavano, un momento, come le lucciole, le sere d’estate; poi scoppiavano in lingue di fuoco, per modellarsi di fuoco dentro la figura d’un capro.

E tosto. Impuntavano i piedi zoccoluti d’unghia spessa; si drizzavano, con le mani di scimmia, pelose; laceravano i rami fioriti, per farsene corone ai capelli, per infiggerle a due minuscole corna attorcigliate…

Con la piccola coda sferzavano i fianchi…

Come fu pieno il prato e la selva, si misero a danzare, tenendosi per mano, e levando un diavolìo di polvere e di urla.

Impaurito, io mi tenevo nell’ombra d’un albero.

Vedevo i fiori rinchiudersi, come allo scoppiar della tempesta.

O quando passa, con gli occhi lucenti, il serpe freddo e strisciante.

Udii il loro grido: "Finalmente, finalmente!".

Poi si mossero, tutti, a calpestare l’erbe e i fuori; a intorbidare i ruscelli; ad atterrare i nidi; a scerpare le frondi…

E corsero alla fontana.

La fontana cantava

Risero.

S’ammiccarono con i loro piccoli occhi maligni, e si diedero scagliar sassi e fango dentro l’acqua.

Sentivo il tonfo duro delle pietre, e il flagello straziante del terriccio… La fontana difendeva la sua voce. Gorgogliava e balzava minacciosa di spruzzi…

Di tratto in tratto, i satirelli smettevano la loro tracotante impresa e ascoltavano.

– Canta?

– Deve piangere!

– E ricominciavano, con più ira.

– La voce si faceva sempre più fioca. Poi, tacque.

– E quelli si dispersero, in fretta, nell’aria, per il bosco, come se temessero.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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