
Al bivio: o cristiani, o storicisti
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24 Settembre 2017Nel periodo fra le due guerre mondiali la cultura europea, già malata di svariati morbi intellettuali e spirituali, afflitta dalla peste di avanguardie deliranti, confusa da pensatori discutibili e imbruttita da artisti amanti dell’osceno, dell’orrido e del deforme, ha subito anche il flagello di filosofie che, con la pretesa di razionalizzare e chiarire tutto, riducendo ogni questione umana ad un problema puramente matematico, di fatto hanno condotto una campagna senza quartiere contro tutti i valori tradizionali sui quali si reggeva da secoli, ed era fiorita e cresciuta, la nostra civiltà, allo scopo di denigrare, delegittimare, ridicolizzare ogni forma di pensiero profondo, spirituale, intrinsecamente morale, per sostituirlo con un Logos strumentale e calcolante quale noi, oggi, lo vediamo dominare e trionfare, mentre fornisce incentivi e giustificazioni ai peggiori abusi della tecno-scienza e alle più ciniche manovre per meticciare l’Europa e sostituirne la popolazione, la religione e la civiltà con altre popolazioni, un’altra religione e un’altra civiltà, come se queste cose fossero intercambiabili, simili a pezzi di plastica o di alluminio.
Molti di quegli intellettuali della crisi erano ebrei i quali, lasciando l’Europa e trasferendosi nelle democrazie anglosassoni, Inghilterra e Stati Uniti, hanno creato le basi perché le loro idee, dopo la Seconda guerra mondiale, mediante il prestigio, il potere e la ricchezza delle potenze vincitrici, si diffondessero in ogni angolo dell’orbe terracqueo e s’imponessero come la cultura dominante destinata a fornire le basi per la politica odierna della globalizzazione totalitaria. La caratteristica fondamentale di molti di costoro era l’irrequietezza, mista a disprezzo per ogni tradizione e a un diffuso sentimento di scontentezza esistenziale, talvolta più o meno ben dissimulato dietro una veste logica e razionale. Fra questi irrequieti e scontenti c’era il filosofo Dagobert Runes, ebreo nato vicino a Czernowitz nel 1902 (quando la Bucovina, attualmente divisa fra Ucraina e Romania, era ancora una provincia dell’Impero austro-ungarico), studente di filosofia a Vienna e poi emigrato negli Stati Uniti nel 1926, dove scelse di naturalizzarsi americano e fece una brillante carriera come direttore di riviste specializzate e come direttore dell’Institute for Advanced Edication di New York, città ove sarebbe morto nel 1982. Amico di personaggi celebri come Albert Einstein, promotore della cultura europea progressista e di sinistra, o, come era in uso dire, sino a pochissimi anni fa, "antifascista" (mai, però, "anticomunista"), ebbe spiccati interessi filosofici e fu seguace del neopositivismo o empirismo logico, la corrente nata per emanazione dal cosiddetto Circolo di Vienna e il cui programma consisteva nell’applicazione alla filosofia di una rigorosa metodologia scientifica, in modo da delimitare ciascun problema conoscitivo entro un rigoroso quadro logico, con particolare attenzione alla filosofia del linguaggio, in modo da ridurlo a delle proposizioni dotate di senso compiuto, per le quali è possibile pervenire ad una soluzione puramente razionale e oggettiva, eliminando tutte le ambiguità che derivano, appunto, da un uso inappropriato o irrazionale del linguaggio nella formulazione delle questioni.
Nella sua multiforme attività di curatore editoriale, traduttore di opere straniere (anche di Marx, sulla questione ebraica) e promotore culturale, Runes è stato anche autore di opere di erudizione filosofica, tanto fortunate quanto prive di originalità, di spessore critico e di profondità speculativa, alcune tradotte anche in italiano. Fra queste ricordiamo un grosso Dizionario di Filosofia di circa mille pagine (titolo originale: The Dictionary of Philosophy, New York, The Philosophical Library, 1942; tradizione di italiana di Aldo Devizzi, Milano, Aldo Martello Editore), dal quale, tanto perché il lettore possa farsene un’idea, ci sembra utile riportare una delle "voci" relative agli esponenti del pensiero filosofico, quella dedicata a Søren Kierkegaard (p. 496); ci sembra infatti un buon metodo, per farsi un’idea della qualità di un’opera filosofica che ci si trova fra le mani, e il cui autore non è ben conosciuto, scegliere il suo giudizio, o, meglio ancora, la sua presentazione, che egli pretende essere obiettiva, di un altro pensatore che conosciamo abbastanza bene:
KIERKEGAARD, Sören (1813-1855). Pensatore religioso danese la cui influenza, sino ai tempi recenti, fu limitata soprattutto ai circoli scandinavi e tedeschi. Le sue opere sono ora tradotte ed il suo pensiero è fatto rivivere dai pessimisti sociali contemporanei. L’eternità, egli sostenne, è più importante del tempo; il peccato è peggiore della sofferenza; l’uomo è un egoista e deve sperimentare la disperazione; Dio è al di là della ragione e dell’uomo; il Cristianesimo si oppone a questo mondo, al tempo e alla ragione dell’uomo; i paradossi sono il risultato inevitabile delle riflessioni dell’uomo; l’etica cristiana è realizzabile soltanto nell’eternità. Kierkegaard fu allevato in un austero ambiente cristiano; egli reagì contro la religione ortodossa e le filosofie ufficiali (soprattutto l’hegelismo). Fu un individualista, una personalità sensibile e malinconica che soffrì di gravi frustrazioni [segue l’elenco delle opere principali di Kierkegaard e una sommaria bibliografia critica su di lui].
La prima cosa che viene in mente a chi legge questa "voce" è che si tratti di uno scherzo. Ma poi, ragionando sulla assoluta non filosoficità della forma mentis americana (a meno che si voglia considerare filosofia il pragmatismo) e sulla incredibile disinvoltura, per non dire la chutzpah, come dicono gli ebrei, cioè l’immensa sfacciataggine, di certi intellettuali europei, i quali, piovuti negli Stati Uniti negli ani ’20 e ’30 del secolo scorso, vedono prese per oro colato anche le baggianate più insulse che escono loro di bocca, solo perché hanno un sapore vagamente intellettuale (oh, you are a philosopher!, esclamano, ammiratissimi, i frequentatori dei salotti buoni newyorkesi, davanti a un semplice motto di spirito o alla declamazione di un aforisma celebre), essa comincia ad inserirsi in un paesaggio culturale definito e ad acquistare un certo significato, sia pur delirante. Certo è che, a un lettore del tutto digiuno di filosofia, che prenda in mano il Dizionario del Rines e se lo legga, per tutte le sue mille pagine, con pazienza, metodo e buona volontà, cercando mandare a memoria quante più cose possibile, il ritratti di Kierkegaard che ne emerge — e lo stesso discorso si potrebbe fare per altri autori e per altre correnti filosofiche — sarebbe tanto plausibile e veritiero, quanto un cielo stellato di Van Gogh può essere preso per buono come la rappresentazione esatta e fedele del cielo stellato, quale è riprodotto negli atlanti celesti ad uso degli astronomi e degli astrofili. A cominciare dal nome di battesimo, trascritto in maniera erronea, e dalla definizione di "pensatore religioso", mentre Kierkegaard è stato anche un pensatore religioso, ma anche, e non meno, un filosofo di gran razza, quale pochi altri ne ha avuti l’Europa, specialmente nelle Briciole di filosofia e nella Postilla conclusiva non scientifica alle briciole di filosofia, tutta la "voce" è viziata da un pressapochismo pari solo alla estrema soggettività, per non dire gratuità, non solo dei giudizi, ma anche delle espressioni che vengono adoperate. L’espressione il suo pensiero è fatto rivivere dai pessimisti sociali contemporanei suona alquanto misteriosa, per non dire balzana (pur facendo la tara ai possibili infortuni della traduzione dall’inglese); la precisazione che fu allevato in un austero ambiente cristiano sa di biografismo psicologistico, come dire: che cosa volete aspettarvi da un uomo cresciuto in un ambiente così?; e la "conclusione", di sapore psicanalitico, che fu un individualista, una personalità sensibile e malinconica che soffrì di gravi frustrazioni, sembra quasi voler spostare il discorso sul piano medico e psicopatologico. In poche righe, una vera collezione di banalità, luoghi comuni e forzature pseudo freudiane; quasi come per il nostro Giacomo Leopardi: eh, se non avesse avuto la gobba, magari sarebbe stato un po’ meno pessimista…
Ma il piatto forte è là dove Runes si produce in una serie di lapidarie definizioni, in forma quasi di catechismo, dei punti nodali del pensiero kierkegaardiano. Egli li presenta, non troppo velatamente, con l’aria di dire: vedete che razza di originale che era costui?; ma il bello è che, paradossalmente, e benché la sua intenzione fosse diametralmente opposta, tali definizioni colgono sostanzialmente nel segno e sottolineano la possente originalità, la coerenza e il vigore del pensiero di Kierkegaard, il grande nemico della modernità, della società di massa, del giornalismo, del principio quantitativo, e, naturalmente, del cristianesimo edulcorato, svirilizzato e addomesticato che, nella sua Danimarca, luterana e filistea, veniva spacciato per moneta buona, in maniera non dissimile da come oggi anche la neochiesa pseudo cattolica di papa Francesco spaccia per buona la moneta falsa. Curioso: questo cittadino della Mitteleuropa, formatosi ai tempi di Francesco Giuseppe, prima in uno sperduto villaggio rurale ai margini della steppa, che oggi si trova in Ucraina, poi nella Vienna imperiale, nello spiegare in poche righe al suo nuovo pubblico americano che vive all’ombra dei grattacieli di Manhattan, chi sia stato Kierkegaard e cosa abbia detto di durevole nella storia del pensiero europeo, ci ha azzeccato più di quanto lui stesso, probabilmente, non immaginasse. Ed ecco i punti forti del "catechismo" kierkegaardiano secondo Dagobert Dunes:
1) L’ETERNITÀ È PIÙ IMPORTANTE DEL TEMPO. Certo che lo è: per qualsiasi cristiano che sia appena degno di questo nome, le cose stanno esattamente così. Il tempo è importante per gli storicisti; per i cristiani, quel che conta davvero è l’eternità. Oltre alla Bibbia, questa è la sintesi del messaggio contenuto nella Divina Commedia, nelle cattedrali medievali, nell’arte e nella musica sacra.
2) IL PECCATO È PEGGIORE DELLA SOFFERENZA. Ovvio. Il peccato è la morte dell’anima; la sofferenza è la prova che rende l’anima più gradita a Dio e più conscia del legame con Lui, se accettata pienamente come parte della volontà divina, e offerta al Padre come una primizia. Il cristiano non vede nella sofferenza un nemico da combattere e, possibilmente, sconfiggere, ma la via alla Redenzione, come lo è stata per Cristo. Non solo: il cristiano integrale cerca la sofferenza, quale riparazione ai peccati del mondo; i grandi santi lo hanno fatto, si sono caricati sulle spalle una croce non loro, eroicamente e silenziosamente, accettando di soffrire al posto dei malvagi, affinché si pentano, e come aiuto alle pene delle anime del Purgatorio.
3) L’UOMO È UN EGOISTA E DEVE SPERIMENTARE LA DISPERAZIONE. Altra verità assiomatica. L’antropologia cristiana è pessimista: non perché l’uomo sia stato creato cattivo, ma perché la sua natura si è corrotta in seguito al Peccato originale. Finché non tocca le soglie della disperazione, questo grande egoista non si mette in discussione, non si converte, non si domanda neppure quale sia lo scopo della vita terrena. È dal pessimismo antropologica che scaturisce, logica e necessaria, la Redenzione di Cristo. Qui non stiamo parlando solo di Kierkegaard, ma di qualsiasi cristiano.
4) DIO È AL DI LÀ DELLA RAGIONE E DELL’UOMO. Altra verità lapalissiana. E questo è uno degli aspetti che meno piacciono ai modernisti, i quali, appunto perché infastiditi da un Dio che è al di sopra di loro e che si sottrae, almeno in parte, alla ragione umana (al punto da farsi uomo, morire e risorgere: scandalo per i greci e bestemmia per i giudei!), vogliono sostituirlo con un cristianesimo gnostico e intellettualistico, che, di cristiano e di cattolico, ha solamente il nome.
5) IL CRISTIANESIMO SI OPPONE A QUESTO MONDO, AL TEMPO E ALLA RAGIONE DELL’UOMO. Tanto vero, che risulta oggi intollerabile. È questo il punto cruciale delle attuali derive eretiche e apostatiche della neochiesa modernista e progressista: la contrapposizione al mondo. Il mondo desidera ciò che è simile a lui, cioè il peccato e l’indulgenza verso di esso; ma il cristianesimo è tutto un richiamo alla conversione, cioè a un rifiuto delle logiche del mondo, dei suoi vizi e delle sue vanità. Ed è proprio su questo aspetto che lavorano senza posa i modernisti, per rendere compatibile il mondo con il Vangelo: cosa non solo impossibile, ma assolutamente blasfema. E, di nuovo, la cosa che più sta a cuore al mondo è di evitare ogni sofferenza; ma Cristo, a san Pietro che gli diceva, quando Egli parlava della sua Passione, Questo non ti accadrà mai!, ha risposto con molta durezza: Via da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini.
6) I PARADOSSI SONO IL RISULTATO INEVITABILE DELLE RIFLESSIONI DELL’UOMO. Certo: per Kierkegaard, la riflessione conduce al paradosso: non perché la ragione sia una beffa, ma perché sospesa è la condizione dell’uomo: sospesa fra il non senso del mondo e la pienezza della vita divina. L’uomo deve fare una scelta per l’uno o per l’altra; finché resta imprigionato nella logica del finito, continuerà a battere la testa contro il muro della sua condizione ambivalente.
7) L’ETICA CRISTIANA È REALIZZABILE SOLTANTO NELL’ETERNITÀ. Anche questo è un punto-chiave del Vangelo, forse il meno compreso o comunque, il meno facilmente accettato. Chi accoglie il Vangelo, ma con riserva, non arriva ad accettare la sua affermazione più "scandalosa": quella riassunta da Gesù Cristo nella frase: Il mio Regno non è di questo mondo. I cattolici progressisti e modernisti, impegnati e di sinistra, vorrebbero assistere al trionfo del Bene già qui, sulla terra, e magari, modestamente, essere loro a realizzarlo. Non vien loro in mente che, così, si mettono loro al posto di Dio; né che gli uomini, da soli, non sono capaci di fare nulla di buono (cfr. Giovanni 15, 5).
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