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3 Settembre 2017Il dramma dell’artista e quello dell’amore frustrato ne La luce che si spense di Kipling

Rudyard Kipling: ecco uno scrittore che non smette di essere un segno d contraddizione per le generazioni a venire; che non smette di provocarci con la sua brutale franchezza e che non smette di sfidare la nostra ipocrisia politicamente corretta; uno scrittore che è stato molto più artista, molto più intellettuale, molto più autentico, di ciò che la maggior parte dei critici e dei lettori ammaestrati siano mai stati disposti ad ammettere; infine, un gigante della letteratura fra XIX e XX secolo, quando i giganti (ma alcuni coi trampoli) affollavano la scena e lui, frettolosamente etichettato come "scrittore per bambini" (per via di Kim e dei due Libri della giungla) o come cantore dell’imperialismo britannico (soprattutto per via della poesia, indirizzata a Teddy Roosevelt dopo la conquista americana delle Filippine, The White Man’s Burden), mentre la verità è che non fu né l’uno né l’altro, o lo fu solo in via marginale. Kipling, per il critico letterario e per il comune lettore del Novecento, è come un oscuro rimorso di coscienza: è stato pressoché rimosso, non ha fatto scuola, non ha avuto discepoli, non ha lasciato imitatori: ma perché non aveva nulla da dire ai posteri, o perché era di una misura troppo grande per essere recapito dai suoi contemporanei, e, ancor più, dai posteri? Se si pensa a come vanno a ruba, nelle librerie, romanzi assolutamente inutili e superflui, come quelli di Umberto Eco (tanto per fare un nome), o siano stati incensati e riveriti altri, assolutamente brutti e pornografici (come quelli di Alberto Moravia), si resta ancor più stupiti che gli anni passino, senza che qualcuno si decida a sdoganare Kipling: Kipling il razzista, il guerrafondaio, il barbaro, così come lo ha dipinto, falsamente, la cultura politicamente corretta, tutta progressista e buonista, tutta egualitaria e umanitaria, ma solo con l’occhio sinistro e a patto di non compromettere le proprie poltrone e i propri privilegi accademici. Per tutti questi insetti, questi quaquaraqua, questi vermiciattoli abituati a strisciare secondo i desideri del potere di turno, pur proclamando, o proprio perché proclamano, sterili velleità di fierezza e indipendenza, Kipling è troppo maschio, troppo virile: non potrebbero arrivare a capirlo veramente, neanche se lo volessero. A loro piace Hemingway, che è un falso duro; mentre Kipling è un duro per davvero, e va giù con le parole come un pugile va giù pesante con i pugni. Quel che ha da dire, non chiede il permesso per dirlo; e quando descrive la vita, non lo fa mettendosi prima i guanti, per non sporcarsi le mani: lo fa con la franchezza devastante di uno che non ha paura di nulla, nemmeno delle verità più sgradevoli, anche per lui. Non gli piacciono i fronzoli, né i giri di parole; non gli piacciono gli scrittori che girano intorno alle cose, che le adornano di fiocchi e lustrini: chi non ha il fegato di guadare le cose dritto in faccia, par che dica, è meglio che lasci perdere la letteratura e si cerchi un altro mestiere. Virginia Woolf, per questo, non lo poteva soffrire: ed è, secondo il nostro punto di vista, uno dei più alti elogi che gli si possano fare. È anche un uomo coerente, uno che rifiuta le onorificenze che gli vengono offerte dalla politica: mentre tanti, al suo posto – diciamolo pure: praticamente tutti – si sarebbero affrettati a intascarle e a profondersi in ringraziamenti. Al tempo stesso, non è mai artefatto, le sue non sono pose; e il fatto che sia uno scrittore "duro", quasi indigesto, non toglie che sappia essere anche improvvisamente caldo, romantico, perfino commovente. C’è un qualcosa di meridionale, di latino, in questo scrittore inglese nato in India e cantore della razza anglo-sassone: perfino nell’aspetto fisico, in quegli occhialetti da professore di provincia alquanto miope, s’intravede un figlio di Albione quanto mai fuori dagli schemi. E così nei personaggi dei suoi romanzi e racconti, perfino quando si tratta di militari della gloriosa regina Vittoria, che lottino al Passo di Khyber per tener lontani i guerrieri afghani dall’India, la gemma dell’Impero britannico, o che stiano marciando attraverso le savane del Transvaal, per affrontare i Boeri di Paul Kruger, vi è sovente qualcosa di disordinato, d’irregolare, di poco edificante: non sono i marziali esponenti della razza bianca in piena espansione, con le uniformi impeccabili e lustre fino all’ultimo bottone, ma degli uomini problematici, addirittura dei cialtroni, che tirano avanti alla meno peggio, si ubriacano, bestemmiano e pasticciano quasi come se fossero dei portoghesi o dei levantini.
Nella vasta e multiforme produzione letteraria di Kipling, c’è un romanzo che non ha mai avuto molto successo, non ha mai veramente "sfondato", ed è rimasto alquanto indietro, nella notorietà e nell’apprezzamento sia della critica che del pubblico rispetto ai libri più famosi; e questo anche dopo che, nel 1939, ne è stata tratta una versione cinematografica abbastanza spettacolare, sotto la direzione del regista William A. Wellmam e interpretato da due star famose e fotogeniche come Ronald Colman e Ida Lupino. Le ragioni di questa incomprensione non crediamo risiedano tanto nel soggetto, a metà fra il romanzo di formazione e la classica storia d’avventura, amore e morte, quanto negli effetti di un cliché affibbiato al Nostro, quale autore, appunto di romanzi esotici e avventurosi, sicché la critica non ha mai voluto prendere seriamente in considerazione il tema centrale dell’opera, che non coincide col soggetto, né con la trama: è il tema della vocazione dell’artista e della sua fedeltà a se stesso e all’arte, in un mondo — quello moderno, dominato dalla massificazione e dalla dittatura "anonima" del cosiddetto uomo della strada, cioè di quella cosa artificiale che è l’opinione pubblica — che non lascia davvero molti spazi di autonomia a chi vuol seguire la propria ricerca e puntare al massimo della "professionalità", concetto che, in Kipling, finisce per coincidere con l’onestà interiore (quella che Umberto Saba chiamerà la poesia onesta). Ci sono due maniere, quindi, di fare l’artista e di essere artista: inseguire e vezzeggiare i gusti, grossolani e banali, del grande pubblico, oppure andare dritti per la propria strada, senza piegarsi a compromessi, né cercare scorciatoie, anche a costo di affrontare l’incomprensione, la solitudine e, naturalmente, le inevitabili difficoltà economiche. Ma, accanto a questo tema, ve n’è un altro, che, nella seconda parte del romanzo, diviene sempre più importante: quello dell’amore frustrato e sprecato. Il protagonista della storia, Dick Heldar, è un giovane pittore che lavora per le riviste anche come corrispondente di guerra; ha ricevuto una sciabolata al capo, nel Sudan, che gli ha compromesso il nervo ottico; sicché, un poco alla volta, diventa cieco, e infine piomba nel buio per sempre. Dick è disperatamente innamorato, fin da bambino, di Maisie, che, però, pur provando molta tenerezza e amicizia per lui, non vuole sposarlo, anche perché, pittrice a sua volta, ha deciso di dedicare la sua vita interamente all’arte (inoltre si suggerisce che abbia una relazione con un’altra donna). A un certo punto, nella vita di Dick entra Bessie, una donna di strada dall’animo puro, come certe prostitute di Dostoevskij, la quale accetta di fargli da modella per un quadro che dovrà essere il suo testamento spirituale, visto che la luce dei suoi occhi si va irrimediabilmente spegnendo: il ritratto della Malinconia, che sarà, in effetti, il ritratto di Maisie. Bessie, che nella sua vita difficile non è mai stata trattata con gentilezza, si affeziona a Dick, e soprattutto s’innamora segretamente del suo amico Torpenhow; ma un po’ alla volta, durante le sedute per il ritratto, si rende conto che il pittore la sta solo usando, e che arriva a provocarla perché assuma un’espressione sdegnata e inquieta, secondo il modello che ha in mente, e intanto le "impresta" le fattezze del volto di Maisie. Questa è una dura umiliazione e quasi una tortura per la donna, che deve anche assistere al progressivo lasciarsi andare di Dick, il quale, sentendo la vista venirgli meno, sovente si ubriaca e si trascura nella persona; e che come se non bastasse, la ostacola nel suo sentimento per Torpenhow. Quando però il lavoro è finito, il pittore ne è molto soddisfatto, perché in esso ha trasfuso il suo intimo tormento, la disperazione di non poter avere Maisie, e realizzato un’opera in cui ha immortalato il viso amato di lei, purtroppo irraggiungibile. Bessie, invece, detesta quella tela e, in un momento di rabbia, la distrugge, versandole sopra dell’acquaragia. A Maisie, che Dick, svegliatosi completamente cieco, ha invitato per ammirare il suo capolavoro, non basta il cuore per dirgli che il quadro è irrimediabilmente rovinato; lo farà Bessie, pentita, in un secondo momento. Dick, stranamente, reagisce con molta calma e considera l’evento come un segno del destino. Ora che non ha più nulla, né Maisie, né la possibilità di dipingere, riparte per il Sudan con il fedele Torpenhow e si prende una pallottola in fronte, morendo fra le sue braccia.
Questo, in verità, è il finale definitivo del romanzo, quello che conoscono i lettori di oggi. Molti, però, non sanno che il romanzo, in origine, aveva due finali diversi e addirittura opposti. The Light that Failed fu pubblicato dapprima su una rivista, The Lippincott’s Monthly Magazine, nel gennaio del 1891, e poi, nello stesso anno, in volume: nella prima versione Maisie decide di accettare l’offerta di matrimonio di Dick e il romanzo, quindi, si chiude con un lieto fine; nella seconda, quella che è rimasta come definitiva, invece, Dick, disperato per non aver potuto avere Maisie e anche per la perdita della vista, che chiude per sempre la sua carriera d’artista, cerca e trova la morte nella campagna militare del Sudan. Le ragioni per cui Kipling ha voluto cambiare la conclusione della vicenda non sono chiare, ma a noi sembra che, dal punto di vista della coerenza interna del romanzo, la scelta del finale tragico sia più giustificata dell’altra. Tutta la vicenda dell’amore di Dick per Maisie, che riceve un particolare pathos dal capitolo iniziale, ove i due sono rappresentati bambini, affidati alle cure di una specie di megera, si snoda sotto il segno della malinconia; e lo stesso Dick, introverso, pensoso, assetato di verità e insofferente delle convenzioni, appare come un eroe tragico, votato a un destino d’infelicità. Rinunciando alla facile soluzione di far svolgere a Bessie un ruolo di compensazione affettiva, Kipling mostra il suo rifiuto delle soluzioni più facili e gradite al pubblico e il rigore di scrittore che, nelle cose che racconta, non cerca presa a buon mercato, ma la verità dei sentimenti. Peraltro, in filigrana appare anche un altro tema, diciamo così, strindberghiano (e ibseniano): quello della donna moderna, in carriera, sostanzialmente frigida, preoccupata del proprio successo e poco disposta a dividere la vita con un uomo, sia pure un perfetto cavaliere, animato da sentimenti veri e profondi. Inoltre, s’intuisce che fra le ragioni del rifiuto dell’amore di Dick vi è in Maisie una componente lesbica, che richiama, anch’essa, un aspetto tipico di certe donne di Strindberg, nonché di Dostoevskii (cfr. il nostro precedente lavoro Quando la donna è il cattivo genio dell’uomo (e di se stessa), pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/07/2008). Al Dostoevskij dei Ricordi dal sottosuolo rimanda anche il rapporto, complesso e ambiguo, fra Dick e Bessie; mentre la figura di questa può forse aver influito sulla genesi del romanzo di Stephen Crane Maggie, una ragazza di strada, del 1893.
Il tema centrale de La luce che si spense resta, comunque, la questione dell’autenticità dell’arte e dell’artista, che viene sviluppata in maniera specifica nei dialoghi fra Dick e Torpenhow. Questi è un corrispondente di guerra che, avendo fatto amicizia con il pittore, lo invita ad unirsi a lui per illustrare gli episodi della guerra nel Sudan contro il Mahdi, per mezzo delle sue tavole (a quell’epoca la fotografia era ancora agli inizi e le riviste si servivano largamente dell’opera di disegnatori e pittori, anche per illustrare fatti di attualità). Dick ottiene un successo straordinario e se lo gode a lungo, venendo sempre più incontro ai gusti corrivi del pubblico e degradando, quasi prostituendo, il suo talento artistico, con pitture retoriche e ad effetto, molto lontane dalla realtà delle cose. Torpenhow è un po’ la sua coscienza critica e lo rimprovera per questo; sarà solo attraverso una graduale crisi interiore, la quale s’intreccia con l’altalena delle sue speranze riguardo a Maisie, che Dick ritornerà al suo ideale giovanile di un’arte vera e pura, libera dai compromessi e dalle richieste del mercato. In ogni caso, sul tappeto c’è una grossa questione, che allora, agli esordi della società di massa, stava venendo di grande attualità: la possibilità che un’arte autonoma potesse sopravvivere nel bel mezzo di una società dominata dalle logiche ferree del mercato. E quel che Dick e Torpenhow discutono a proposito della pittura, vale, evidentemente, per tutte le altre forme d’arte, dall’architettura alla musica, dalla scultura alla poesia, alla stessa narrativa. Kipling, pertanto, qui sta affrontando un tema che era centrale anche per la sua personale riflessione e per la sua coscienza di uomo e di artista; e la sua posizione si riflette ora nelle idee di Torpenhow, sempre molto coerenti e scevre da compromessi, ora in quelle di Dick, assai più altalenanti, che subiscono la forte tentazione del successo commerciale. In maniera più diffusa, il tema dell’autenticità dell’arte attraversa però non solo le discussioni con Torpenhow, ma tutte le pagine del libro, dalla prima all’ultima: inseguendo il suo sogno di bellezza e purezza, Dick insegue l’amore per Maisie e quello per l’arte. Ed è significativo che egli vada incontro a una duplice sconfitta: come se nel mondo non ci fosse più spazio per essi. La cecità di Dick diventa così l’allegoria di una civiltà, quella moderna, che chiude gli occhi davanti all’aspirazione al vero, al bello, al buono e al giusto…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels