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Quella di Egospotami non fu una vera battaglia navale, ma un’astuta aggressione piratesca

È noto che l’episodio risolutivo della Guerra del Peloponneso (431-404 a. C.), che aveva opposto per ventisette anni le forze di Atene e quelle di Sparta, con i rispettivi alleati, fu la battaglia navale di Egospotami (letteralmente: il fiume delle capre), un torrente del Cherosneso Tracico, oggi Penisola di Gallipoli, che sfocia nello Stretto dei Dardanelli. L’evento ebbe luogo alla fine di agosto o nei primi giorni di settembre del 405. Meno noto al grande pubblico è che il fatto d’armi di Egospotami non meriterebbe di esser definito, nel vero senso dell’espressione, una battaglia navale, perché, a rigore, una battaglia navale non ci fu, anche se vi fu, effettivamente, uno scontro decisivo fra le due flotte nemiche, quella ateniese, comandata dallo stratego Conone e da altri quattro ammiragli in subordine, e quella spartana, comandata nominalmente dal navarco Araco, ed effettivamente da Lisandro, il quale, avendo già ricoperto il comando supremo della flotta, secondo le leggi non poteva averlo per la seconda volta. Ma la flotta ateniese, al momento dell’azione, era ferma in porto, sprovvista degli equipaggi, che erano scesi a terra per procurarsi i viveri: di conseguenza, non si combatté in mare, come in tutte le battaglie navali, anzi, praticamente non si combatté affatto: la flotta ateniese, sorpresa a quel modo, venne semplicemente catturata, quasi senza colpo ferire, e la stessa sorte subirono anche gli equipaggi, che vennero poi messi a morte, ad eccezione dei non ateniesi, ai quali fu risparmiata la vita. Questo, almeno è ciò che accadde secondo il resoconto di Senofonte; perché della battaglia esistono due versioni discordanti (anche riguardo alla data: agosto o settembre); l’altra è quella dello storico Diodoro Siculo, un greco di Sicilia che visse nel I secolo a. C. e quindi scrisse la sua opera a ben tre secoli di distanza dai fatti. Ma come fu possibile che un marinaio esperto come Conone si sia lasciato giocare a quel modo, e sorprendere come un novellino? Questa è una di quella domande che tolgono il sonno agli storici perché, probabilmente, non si troverà mai la risposta, o, quanto meno, una risposta soddisfacente. È praticamente da escludere che possano emergere nuove fonti d’informazione, e quelle che possediamo sono troppo imprecise e lacunose, per cui bisogna procedere largamente per ipotesi e congetture.

La flotta spartana di Lisandro, dopo aver attaccato Egina e Salamina ed effettuato una puntata fin sulle coste dell’Attica, volse poi le prore vero l’Ellesponto; la flotta ateniese di Conone salpò in fretta dal Pireo per raggiungerla o tagliarle la strada, ma mancò l’obiettivo e arrivò troppo tardi, quando Lisandro, entrato nello stretto e stabilitosi ad Abido, aveva già preso Lampsaco, per cui a Conone non restò che entrare a sua volta nello stretto e fare base a Sesto, che, però, era un porto decisamente inadatto per una flotta di quelle dimensioni (circa 170 triremi, poco meno della flotta avversaria, che ne aveva 180). Occorreva snidare Lisandro ad ogni costo e distruggere la sua squadra; diversamente, l’Ellesponto sarebbe rimasto chiuso alla navigazione per Atene e i vitali rifornimenti di grano, provenienti dalle città del Ponto Eusino (Mar Nero), non avrebbero potuto giungere al Pireo, e Atene sarebbe stata costretta ad arrendersi per mancanza di viveri (come poi realmente accadde, dopo il disastro navale). Per cinque giorni consecutivi la flotta ateniese uscì da Sesto e si presentò davanti a Lampsaco, sfidando a battaglia quella spartana, ma questa rifiutò ogni volta il combattimento. Secondo Diodoro Siculo, il quinto giorno l’ammiraglio Filocle uscì con sole 30 navi, forse per fare da esca, ma qualcosa nel piano ateniese non funzionò, perché il grosso della flotta rimase inattivo e così gli Spartani, dopo aver sopraffatto l’avanguardia, piombarono sulle altre navi ancora in porto e le catturarono agevolmente.

Il racconto di Senofonte è assai diverso; ne riportiamo il passaggio decisivo (da: Senofonte, Elleniche, II, 1, 27-32, a cura di Maristella Ceva, Milano, Mondadori, 1996, p. 71):

Il quinto giorno da che gli ateniesi avevano cominciato a farsi avanti, Lisandro disse alle vedette che li seguivano per suo ordine di tornare subito indietro da lui e di alzare uno scudo nel mezzo della navigazione appena li avessero visti sbarcare e disperdersi per il Chersoneso, cosa che facevano ogni giorno di più non solo perché andavano a comperare i viveri lontano, ma anche perché disprezzavano Lisandro, visto che non li attaccava. E i suoi ordini furono eseguiti. Lisandro diede subito il segnale di prendere rapidamente il mare, e s’imbarcò anche Torace con la fanteria. Conone, accortosi dell’attacco, diede alle navi il segnale di accorrere con tutte le loro forze. Ma essendo gli uomini sparpagliati a terra, alcune navi rimasero con due soli ordini di rematori, altre con uno e altre ancora completamente vuote; quella di Conone e altre sette intorno a lui riuscirono a salpare in formazione compatta con gli equipaggi al completo, come anche la Paralo, mentre tutte le altre furono catturate da Lisandro vicino alla spiaggia. Prese anche la maggior parte degli uomini dispersi a terra; alcuni riuscirono a fuggire verso le fortificazioni. Quando Conone, in fuga con le nove navi, capì che per gli ateniesi tutto era perduto, approdò ad Abarnide, la rocca di Lampsaco, e vi trafugò le grandi vele delle navi di Lisandro, poi si diresse con otto navi a Cipro, presso Evagora, mentre la Paralo andò ad Atene ad annunziare ciò che era accaduto. Lisandro portò a Lampsaco le navi, i prigionieri e tutto il resto, sorvegliando in particolare, fra gli strateghi, Filocle e Adimanto. Lo stesso giorno in cui portò a termine queste operazioni inviò a Sparta ad annunziare ciò che era accaduto Teopompo di Mileto, un corsaro, che vi arrivò due giorni dopo e riferì i fatti. In seguito Lisandro riunì gli alleati e li invitò a deliberare sulla sorte dei prigionieri. Vi furono allora contro gli ateniesi numerose accuse riguardanti le illegalità già commesse e quelle che avevano decretato di compiere, se avessero vinto: mozzare la mano destra a tutti i prigionieri. Li si accusava inoltre di essersi impadroniti di due triremi, una di Corinto e una di Andro, e di averne gettato in mare tutti gli uomini: lo stratego ateniese responsabile della loro morte era Filocle. Vi furono anche molte altre accuse, quindi si deliberò di mandare a morte tutti i prigionieri ateniesi tranne Adimanto, perché era stato l’unico a opporsi in assemblea al voto sull’amputazione delle mani: del resto, fu poi accusati da alcuni di aver consegnato la flotta al nemico. Lisandro prima chiese a Filocle […] quale punizione meritasse per essersi assunto l’iniziativa di oltraggiare dei Greci, poi lo fece sgozzare.

Il fatto che una flotta esperta come quella ateniese, e una città eroica e geniale come Atene, abbiano dovuto capitolare non in seguito a un leale fatto d’armi e a una battaglia navale nella quale vinse il migliore, ma in seguito a uno stratagemma quasi diabolico nella sua tremenda semplicità, ha un sapore così beffardo, che molti storici dell’antichità classica e molti studiosi di filologia greca, dopo aver letto le pagine di Senofonte relative alla battaglia di Egospotami, non hanno potuto trattenere una sorta di fastidio e d’insofferenza, come se la storia fosse stata ingiusta nei riguardi della polis sacra alla dea Pallade, che compendia in se stessa, da sola, una buona parte della gloria spettante al mondo greco, alla sua arte, alla sua filosofia, a tutte le cose eccellenti che essa ha donato alla civiltà umana. Nello stesso tempo, la perfida astuzia di Lisandro ha suscitato in essi una reazione di sdegno, come se costui, violando le regole classiche della guerra, avesse riportato una vittoria immeritata, oltre che ingloriosa; dimenticando, evidentemente, il notissimo adagio popolare, che conoscono perfino i bambini: In guerra e in amore tutto è permesso.

Un esempio di questo rammarico e di questo senso di attonita desolazione, quasi d’incredulità, è riscontrabile nelle parole di un illustre filologo classico, fra i nostri maggiori, il grecista Raffaele Cantarella (Mistretta, Messina, 25 aprile 1898-Milano, 6 maggio 1977), sui cui libri molti della nostra generazione hanno studiato e hanno appreso ad amare la civiltà greca e ciò che essa ha rappresentato e che, idealmente, ancora rappresenta; parole a commento del brano di Senofonte, che qui riportiamo (da: R. Cantarella-G.Zermini, Autori greci. Nuova antologia rinnovata e ampliata per il Ginnasio, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1977, p. 201):

Quella di Egospotami non fu una vera battaglia navale, ma una astuta aggressione piratesca, un abile colpo di mano compiuto da Lisandro comandante della flotta spartana, contro la flotta ateniese ormeggiata presso la foce del fiumicello Egospotami nel Chersoneso Tracico sull’Ellesponto. Responsabile di tanta sciagura fu il comandante ateniese Conone, che si lasciò ingenuamente sorprendere impreparato a combattere, con le navi sprovviste di uomini. Questa sconfitta segnò il crollo irreparabile della potenza di Atene e l’affermazione dell’egemonia di Sparta: il duello tremendo, combattuto dalle due città rivali nella immane guerra del Peloponneso, volgeva verso il suo triste epilogo.

C’è un senso di fatalità, di amarezza, di sconforto, in queste parole, come se l’ingenuità di Conone e la scaltrezza di Lisandro avessero realmente deciso le sorti della battaglia di Egospotami; come se questa avesse realmente determinato il crollo finale di Atene; e come se il crollo di Atene avesse significato il tramonto della civiltà greca, con la sconfitta della civile Atene e il trionfo della rozza Sparta. Tuttavia, ciascuno di questi tre passaggi non è del tutto giustificato. Forse il tradimento ebbe una parte decisiva nell’esito della battaglia di Egospotami. Sta di fatto che Lisandro, dopo aver fatto tagliare la gola a Filocle e aver ordinato l’uccisione dei 3.000 prigionieri ateniesi, per vendicare l’uccisione, contro le leggi di guerra, dei prigionieri spartani catturati in precedenza, risparmiò invece la vita di Adimanto, per cui corse voce che costui avesse tradito, e Conone, più tardi, ottenne che venisse istruito un processo a suo carico. È possibile, peraltro, che gli fosse stata risparmiata la vita perché era stato l’unico a opporsi alla decisione dei suoi colleghi, di far tagliare le mani ai nemici catturati. Che poi la battaglia di Egospotami sia stata realmente decisiva, questa è una di quelle asserzioni che, stabilite da lunghissimo tempo, non vengono più sottoposte al vaglio della critica; ma è possibile, se non addirittura probabile, che la guerra fosse già perduta per Atene, precisamente da quando la spedizione in Sicilia era fallita tragicamente, ed essa vi aveva perso il fiore della flotta e dei suoi soldati. Ironia della sorte: Alcibiade, che, col suo tradimento, aveva determinato il disastro in Sicilia, perdonato dai suoi compatrioti e di nuovo al comando di una flotta, poi di nuovo congedato, si trovava proprio in una sua villa del Cherosneso quando la flotta ateniese vi approdò, e diede subito il consiglio di lasciare Sesto, che non aveva un porto adatto e dove non era facile procurarsi i viveri per gli equipaggi; consiglio che, se fosse stato ascoltato, avrebbe probabilmente risparmiato agli Ateniesi il disastro. Infine, è proprio vero che la sconfitta di Atene segnò il tramonto della civiltà greca? Senza dubbio, la trentennale guerra del Peloponneso fu devastante per le poleis greche, per la loro economia, perfino per la loro crescita demografica; e Sparta, senza dubbio, per le caratteristiche della sua costituzione e della sua struttura sociale, era inadatta a svolgere la funzione di guida, tanto è vero che Tebe gliela tolse sul campo di battaglia, pochi anni dopo, subendo a sua volta la stessa sorte; finché il mondo greco cadde in potere di Filippo il Macedone, e le poleis persero la loro effettiva indipendenza. Ma fu la sconfitta di Atene, la causa di quel declino? È lecito dubitarne. I filologi classici innamorati della Grecia, e soprattutto di Atene, tendono a esagerare i fatti specifici e le singole personalità; nel caso di Cantarella, che non era uno storico, ma un filologo con la tendenza a leggere la storia con gli occhi della letteratura, sia gli errori di Conone, sia l’astuzia di Lisandro, sembrano esser state sopravvalutate, come se una guerra si vincesse o si perdesse solo per un colpo di fortuna, o di sfortuna, dei comandanti. Lo stesso vale per il ruolo svolto dalla Grecia nella nascita della civiltà europea, che egli giudicava non solo decisivo, ma esclusivo. Eppure la civiltà europea ha diverse radici: oltre a quelle greche ci sono quelle romane, poi quelle cristiane (e, indirettamente, giudaiche), poi quelle celtiche e soprattutto germaniche, per via delle migrazioni dei popoli; infine quelle arabo-bizantine. Tuttavia per Cantarella, come per molti altri uomini di cultura innamorati del "miracolo greco", la Grecia è stata la sola origine della civiltà europea, anzi, dell’intera civiltà occidentale, il che è antistorico; come lo è il pensare che la sconfitta militare di Atene abbia potuto "spegnere" la fioritura della civiltà greca. Questa è una forzatura romantica del concetto di civiltà. Le cause del tramonto della civiltà greca sono infinitamente più varie e complesse: economiche, sociali, forse anche culturali e spirituali…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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