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Ciò che resiste quando una civiltà è allo sbando

Che cosa possiamo, che cosa dobbiamo salvare dal naufragio della nostra civiltà, del nostro modo di pensare, di vivere, di amare, di lavorare, di pregare, affinché le future generazioni possano trovare dei pozzi d’acqua pura e fresca, e non dei pozzi avvelenati, per dissetarsi e ristorarsi durante la lunga e difficile traversata del deserto che sarà il loro destino quando lo stato delle cose sarà giunto al punto di rottura?

Famiglia, proprietà, lavoro e religione: questo è quanto ha salvato dal naufragio completo la civiltà romana e le ha permesso di rinnovarsi, con la mediazione della Chiesa, e di tenere a battesimo, prima di esaurirsi del tutto, una nuova civiltà mondiale, quella cristiana medievale: assai più della tanto decantata trasmissione della filosofia e della letteratura latina attraverso l’opera, senza dubbio encomiabile e preziosissima, dei monaci amanuensi e, poi, dei maestri delle arti liberali nelle scuole vescovili e nelle facoltà universitarie.

Questo aspetto è stato ben colto e descritto da Francesco Calderaro (in: Antologia storico letterario critica, Torino, S.E.I., 1961, vol. II, pp. 8-9):

La romanità, che sopravvive nei cinque secoli dalla rovina di Roma al Mille, nel suo ordinamento e nel suo spirito si ritrova nella famiglia. Romane erano le consuetudini, le norme dei rapporti giuridici che regolarono le popolazioni italiane. Le figure giuridiche del "pater familias" e della donna, figlia, moglie, madre, vedova, continuarono, com’erano state concepite nei tempi romani, nella società e nel diritto: madre era libera nel governo della casa,vedova era insignita della "patria potestas". La famiglia continuò ancora ad essere il lievito del buon pane.

Delle arcate che reggevano l’antica società romana, se uno dei piloni era quello della famiglia, l’altro era fu l’ordinamento della proprietà privata. Anche questo pilone restò saldo e continuò a reggere anche dopo che l’Impero era caduto. La costituzione della proprietà fondiaria, le sue forme e i modi di trasmissione, che è quanto dire la parte più rilevante di un ordinamento giuridico, si conservarono romane. Famiglia e proprietà furono le due grandi riserve che tramandarono il diritto romano, formando il fondo del nuovo diritto italiano, che, come la lingua romanza, è ramificazione del vecchio tronco.

Ed è romana la tradizione di tecnicismo del quale si colgono i segni là dove, pure in tempi rozzi e poveri, si mura, si tesse, si tinge, si fonde un metallo, si costruisce una nave, dovunque spira, sia pure lieve, un soffio d’arte. Delle esperienze tecniche tramandate di generazione in generazione, anche se la maggior parte, più che per il tempo, per le guerre e per la povertà, era perduta, ciò che restava era romano, ed era bastevole a dare nuova vita. Costruire era una necessità: né la rozzezza germanica, né la stessa concezione della vita, che i Germani avevano avuto avanti la conquista, avrebbero fornito architetti e muratori. Teodorico che si fa costruire un palazzo, una chiesa e un mausoleo, e Liutprando che riconosce e favorisce la comunità dei maestri comacini, s’inchinano, così facendo, alla civiltà romana, desiderosi di abbandonare la loro rozzezza. Una romanità vive nel lavoro di un artigiano, legato alla tradizione.

Altra e ben più gagliarda forza di resistenza morale diede la Chiesa alle popolazioni italiane disperse e oppresse…

La prima volta che nell’alto Medioevo la parola "popolo" tornò, dopo i tempi di Roma, ad avere un valore concreto fu proprio quanto significò unità religiosa, e sant’Ambrogio invoca "Salvum fac populum tuum, Domine". Il significato è sopravvissuto in molte campagne d’Italia: popolo è unità e comunità di fedeli in un dato luogo intorno alla loro Chiesa. Questo cemento unì il disperso popolo italiano, ebbe presa più tenace e salda quando quel popolo, unito dalla sua fede, si trovò a lottare per vivere, nel lavoro comune, ad arginare fiumi, a bonificare terre paludose e boscose, a costruire case e chiese, a lavorare in officine, ad esercitare commerci, a navigare, a combattere nelle città vescovi simoniaci, nelle campagne feudatari, nei mari d’Italia Saraceni e pirati, e finalmente a combattere lo straniero imperatore.

È il momento quello in cui il popolo italiano è attore della sua storia.

Nel disordine morale dell’età barbarica, nella concezione e nell’applicazione cruda e brutale del diritto della forza, un ordine morale resiste: è il Cristianesimo. La rivoluzione che esso aveva compiuto ai suoi inizi nel modo romano pagano continua ora di fronte alla società barbarica; ed è storia del Cristianesimo e della civiltà.

Roma, salva dai barbari, poté svolgere meglio la sua missione, conservando e diffondendo ideali morali e religiosi e per l’Italia e per il mondo. La Chiesa, provvidenzialmente ebbe nell’età barbarica due grandi papi: Leone I (+ 461) e Gregorio Magno (+ 604).

La situazione odierna ricorda per diversi aspetti quella vissuta dalla civiltà tardo-antica, specie in Italia, ch’era stata la culla dell’ultimo impero universale dell’antichità, quello che in un certo senso ricapitolava tutti gli altri ma nel quale prima che iniziasse il suo declino irreversibile il cristianesimo aveva immesso linfa nuova e vita nuova, fornendogli il mezzo per sottrarre la civiltà, della quale era portatore, al destino degli altri. Il naufragio completo di quella civiltà fu evitato, e la grande idea di Roma continuò a vivere, fino a dar vita a un nuovo impero e d una nuova civiltà, grazie alla solidità della famiglia romana, del diritto romano, del lavoro romano e delle fede cristiana, la quale offrì gli strumento perché il popolo rimanesse saldo, pur nelle gravissime difficoltà morali e materiali di quell’ora oscura.

E oggi?

Anche la civiltà moderna sta agonizzando, un po’ come la civiltà romana del tardo Impero; con la differenza non lieve che questa è una anti-civiltà, non è mai stata una vera civiltà perché non ha mai saputo costruire alcunché sulla base di valori, ha puntato tutto sul progresso quantitativo e materiale e non ha mai saputo neppur amare la vita, e infatti si è specializzata in tutto ciò che va contro la vita e contro la natura; e che la sua spinta iniziale è stata meramente negativa, in quanto ha voluto opporsi tenacemente, programmaticamente, implacabilmente, alla civiltà che l’ha preceduta, e della quale ha deciso di far sparire anche il ricordo: quella dei secoli cristiani. La civiltà cristiana non è sorta a quel modo. È sorta opponendosi, in molte cose, alla civiltà precedente, quella greco-romana, poiché aveva dei valori propri che contrastavano fortemente coi vecchi, primo fra tutti la dignità e la libertà della persona, anzi l’idea stessa di persona, pressoché sconosciuta agli antichi; però, dove possibile e dove opportuno, non ha preteso di cancellare il pensiero e i modi di vita, anzi ha adottato ciò che in essi vi era di buono e di sano (la famiglia naturale; il diritto; quasi tutta la cultura, la scienza e la filosofia), realizzando una sintesi originale e mirabile, che culmina nell’immenso edificio speculativo di san Tommaso d’Aquino. E ciò sulla base dell’idea, tomista appunto, o per meglio dire squisitamente cristiana, che la grazia perfeziona la natura, non l’abolisce. Nulla di ciò che la ragione naturale e la morale naturale approvano è disprezzato o rigettato dalla ragione e dalla morale cristiana.

La cosiddetta civiltà moderna è entrata in conflitto, sin dall’inizio, con la natura – della quale ha teorizzato la sottomissione mediante una guerra incessante – e quindi, fatalmente, anche con la stessa ragione naturale. Tutto il pensiero moderno non è che una negazione ostinata, un assalto furioso e implacabile contro la ragione naturale e pertanto, come logica conseguenza, contro se stesso, contro la vita, contro il principio di realtà. Di qui il rifiuto della metafisica; di qui il fastidio per ogni trascendenza; di qui la folle pretesa che la ragione possa spiegare il mondo partendo dall’io soggettivo, e assegnando a questo la facoltà di stabilire il vero e il falso, il buono e il cattivo, il bello e il brutto: così, soggettivamente, o, quel che è ancor peggio – se possibile – invocando una falsa oggettività, che in realtà scaturisce solo, né potrebbe essere altrimenti, viste le premesse, dai deliri di un io che ha reciso il legame ontologico con il reale e gioca a fare il legislatore assoluto se non addirittura il creatore; e intanto si confonde e si perde nel labirinto dei suoi falsi pensieri e smarrisce la stessa strada di casa.

Né bisogna stupirsi se questo falso pensiero, ebbro di onnipotenza, frenetico, smanioso di dominio, di profitto e di vantaggi materiali – il pensiero strumentale e calcolante che in nulla somiglia al Logos che illumina l’oscurità del mondo perché si lascia guidare dal puro desiderio del vero, che è appunto il suo fine naturale – ha prodotto e produce una falsa scienza, una falsa economia, una falsa tecnica, una falsa medicina, un’arte degenerata, e tutto ciò che accompagna gli uomini moderni, tragici seguaci del pifferaio magico, nella loro marcia allucinata verso il precipizio della menzogna, della follia, dell’ingiustizia, della crudeltà eretta a sistema e bugiardamente chiamata civiltà e progresso. Come si vede nel caso emblematico dell’aborto volontario, che da crimine contro Dio e contro l’uomo viene eretto ad emblema delle conquiste civili, della libertà e della dignità della donna, mentre ne è il tradimento peggiore.

La civiltà cristiana è sorta integrando la rozzezza barbarica ed innalzandola a un superiore ideale di vita. Ma la barbarie moderna è di altro tipo e non è integrabile, perché funzionale alla modernità stessa: è, in gran parte, una barbarie interna, un imbarbarimento di cose, persone e istituti che avevano raggiunto un alto grado di perfezione. Si prenda il caso della poesia e dell’arte: oggi è impensabile un Dante, come è impensabile un Giotto, e come è impensabile un pubblico capace di leggere e apprezzare Dante e ammirare Giotto, non perché, o non solo perché, siano venute a mancare delle competenze che, comunque, potrebbero essere recuperate, e si sia interrotto un dialogo fra artista e pubblico che potrebbe essere rivitalizzato, ma perché, da molto tempo, con una presunzione e una ostinazione degne di miglior causa, si sono volute distruggere le condizioni spirituali da cui nasce la vera poesia e la vera arte, cioè la nostalgia e il desiderio del bello; e al loro posto si sono sparsi in abbondanza, senza tregua, i semi del culto aberrante del brutto, del mostruoso, del tetro, del crudele, di tutto ciò che è innaturale e che contrasta con la vera natura dell’uomo, la quale include il bisogno di bellezza, bontà e verità e che languisce disperata se si vede costretta a stare lontano da esse.

Pertanto, alla domanda iniziale, che cosa si deve cercar di salvare dal naufragio generale affinché i nostri figli e i nostri nipoti trovino delle fonti d’acqua pura presso le quali dissestarsi, la risposta non può essere che questa: ben poco. O meglio, bisogna salvare ciò che dell’altra civiltà, non quella di cui siamo figli, e che le si è sovrapposta come un tumore, come un organismo parassita, ma di cui erano figli i nostri avi, fino a pochissime generazioni fa, sopravvive ancora: il desiderio del vero, del bene e del bello; l’aspirazione a trascendere la realtà materiale in nome dei bisogni spirituali; la capacità di trasformare le sconfitte, le sofferenze, i dolori di cui la vita è sempre prodiga, in elementi che ci purificano, ci migliorano, ci avvicinano a Dio e danno un significato più elevato a tutto il nostro orizzonte esistenziale. In breve, occorre salvare, per amor loro, l’idea che la vita è una cosa buona, ma non è tutto e non si riduce alle sue componenti biologiche; che l’uomo non è un mammifero evoluto a caso e che ha perso i peli, divenendo più brutto della scimmia; che egli non è un ospite abusivo della Terra, né un molesto parassita, anche se talvolta si comporta come tale: ma che, al contrario, è la più splendida delle creature, nonostante ogni debolezza e ogni imperfezione, perché fatto a immagine di Dio, e a Lui tanto caro, che Questi non ha esitato a farsi uomo per mostrare a noi la via del ritorno.

Pertanto, tutto ciò che va in questa direzione: ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo che servono ed esprimono, per quanto possibile, il vero, il buono e il bello, e rafforzano il radicamento dell’uomo nell’ordine della natura, ordine che, nel caso dell’uomo, include il superamento della solitudine, della disperazione della morte, poiché il destino cui egli è chiamato consiste nel raggiungere la luce che trasfigura ogni cosa e conferisce un alone di verità, bontà e bellezza a ciascuna creatura, anche la più umile, tutto ciò è gradito a Dio ed è utile agli uomini, e specialmente alle future generazioni che si accingono a compiere la difficile, ma indispensabile traversata del deserto. Il mondo attuale diventa ogni giorno più lercio, più sordido, più invivibile: presto verrà il tempo, anzi è già arrivato, in cui nessun galantuomo potrà abitarvi e conservare la propria innocenza. L’elemento satanico che è alla base della modernità non si accontenta della nostra sottomissione esteriore: ci vuole pervadere interamente, cuore, mente e anima, per far di noi i suoi spregevoli complici e servi. I nostri figli diranno no, e di fatto molti già l’hanno detto: per fuggire dal novello Erode, nel deserto, verso la vita.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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