Il sacerdote deve insegnare agli uomini a conoscere Dio; ma se fa tutto il contrario?
15 Agosto 2017
Bisogna salire, Giuseppe Fanciulli
16 Agosto 2017
Il sacerdote deve insegnare agli uomini a conoscere Dio; ma se fa tutto il contrario?
15 Agosto 2017
Bisogna salire, Giuseppe Fanciulli
16 Agosto 2017
Mostra tutto

Scopo della vita umana è fuggire il dolore?

L’indirizzo che potremmo definire epicureo, e che, nella filosofia moderna, è stato rappresentato soprattutto da Schopenhauer, sostiene che l’uomo razionale, nella vita, non deve farsi guidare dalla ricerca del piacere, obiettivo impossibile perché assolutamente irrealistico, ma dalla volontà e, naturalmente, dalla capacità di evitare i dolori e di scansare tutto ciò che procura all’animo afflizioni, malinconie, noia e tristezza.

Scriveva, infatti, il filosofo di Danzica nei suoi Aforismi per la saggezza del vivere, pubblicati postumi trascegliendo alcune parti di Parerga und Paralipomena (titolo originale: Aphorismen zur Lebensweisheit; traduzione dal tedesco di Ervino Pocar, Milano, Silva Editore, 1968, pp. 126-129):

Come suprema norma di ogni saggezza nella vita considero una sentenza pronunciata da Aristotele, di passaggio nell"Etica Nicomachea" (VII, 12): […] "quod dolore vacat, non quod suave est, persequitur vir prudens"; che si potrebbe tradurre: L’uomo ragionevole cerca non il piacere, ma l’assenza di dolore). La verità di quest’affermazione è fondata sul fatto che ogni godimento e ogni felicità è di natura negativa, il dolore invece di natura positiva. […] Quando tutto il corpo è sano tranne un piccolo puto ferito o altrimenti dolorante, quella salute del tutto non si affaccia alla coscienza, ma l’attenzione è rivolta costantemente al dolore del punto leso, e il benessere della complessiva sensazione di vita scompare. Ugualmente quando tutte le nostre faccende vanno in senso favorevole, salvo una che si svolge contrariamente alle nostre intenzioni, questa, a che se di minima portata, ci frulla continuamente per il capo: pensiamo spesso a questa e poco a tutte quelle altre, più importanti, che procedono favorevolmente. Ora, in entrambi casi, ciò che è danneggiato è la volontà, la prima volta come si oggettiva nell’organismo, la seconda come si oggettiva nelle aspirazioni dell’uomo, e tutte e due le volte vediamo che il suo soddisfacimento ha sempre un effetto negativo e non è quindi sentito direttamente, ma tutt’al più giunge alla coscienza per via di riflessione. L’essere invece ostacolata è un che di positivo che quindi si annuncia da sé. Ogni godimento consiste solo nell’allontanamento di quell’ostacolo, nella liberazione di esso, ed è quindi di breve durata.

Su di questo si basa dunque la sullodata norma aristotelica che c’invita a rivolgere la nostra attenzione non già ai godimenti e alle piacevolezze della vita, bensì a evitare per quanto sia possibile i suoi innumerevoli mali. Se questa via non fosse la giusta, dovrebbero essere false, come invece sono vere, anche le parole di Voltaire: "le bonheur n’est qu’un rêve, et la douleur est réelle". Perciò chi voglia trarre le somme della sua vita dal punto di vista eudemonologico deve fare i conti non in base alle gioie ricevute, ma in base ai mali evitati. Anzi, l’eudemonologia deve cominciare con l’insegnamento che il suo nome stesso è un eufemismo e che per "vivere felicemente" bisogna intendere soltanto "vivere meno infelicemente", dunque in modo sopportabile. Certo, la vita non è per essere goduta ma per essere sopportata e sbrigata […]. Nella vecchiaia è già un conforto quello di avere dietro le spalle le fatiche della vita. Perciò la sorte più felice tocca a colui che passa la vita senza eccessivi dolori sia spirituali sia fisici; non già a colui che ha avuto in sorte le gioie più vive o i maggiori godimenti. Chi voglia misurare da questi ultimi la felicità di una vita ricorre a un metro sbagliato. I piaceri infatti sono e rimangono negativi: che rendano felici è un’illusione nutrita dall’invidia a suo proprio castigo. I dolori invece vengono sentiti positivamente: la loro presenza è quindi la misura della felicità della vita. Se all’assenza di dolori si aggiunge ancora l’assenza della noia, si può dire che la felicità terrena è essenzialmente raggiunta, poiché tutto il resto è una chimera. Ne segue che non si devono mai acquistare piaceri con dolori, neanche col solo pericolo di essi, perché altrimenti si pagherebbe una cosa negativa e quindi chimerica con una positiva e reale. Si è invece in guadagno quando si sacrificano i piaceri per sfuggire ai dolori. In entrambi i casi è indifferente che i dolori seguano i piaceri o viceversa. È in realtà la più grande stoltezza voler trasformare questa valle di lacrime in un luogo di delizie e fissare per meta, invece che la maggior possibile assenza di dolori, i godimenti e le gioie, come pur fanno molti. Era assai meno colui che con lo sguardo troppo accigliato considera questo mondo come una specie d’inferno e bada quindi a procurarsi in esso una camera a prova di fuoco. Lo stolto corre dietro ai piaceri della vita e si trova ingannato: il saggio evita i mali. Ma se anche questo non dovesse riuscirgli, la colpa è del destino, non della sua stoltezza. Intanto fin dove riesce non si trova ingannato, poiché i mali che ha evitato sono sommamente reali. Anche qualora li avesse evitati con eccessivo impegno sacrificando senza bisogno qualche piacere, in fondo non avrà perduto nulla, poiché tutti i piaceri sono chimerici e il rattristarsi per averne trascurato qualcuno sarebbe meschino e anzi ridicolo.

Il non riconoscere questa verità, la quale cosa è favorita dall’ottimismo, è fonte di molte sciagure. Mentre infatti siamo scevri di dolori, i desideri irrequieti ci prospettano le chimere di una felicità inesistente e ci inducono a seguirla: in questo modo ci attiriamo il dolore che è innegabilmente reale. E allora ci lamentiamo di aver perduto lo stato privo di dolori, che rimane dietro a noi come un paradiso perduto, e desideriamo invano di poter annullare ciò che è avvenuto. Sembra dunque che un demone maligno ci inviti sempre a uscire dallo stato scevro di dolore che è in realtà la suprema felicità, mediante le immagini illusorie dei desideri.

Senza farne l’esperienza il giovane crede che il mondo ci sia per essere goduto, che sia la dimora di una felicità positiva, che sfugge soltanto a coloro che non possiedono l’abilità d’impadronirsene. In ciò lo confortano romanzi e poesie, come pure l’ipocrisia per cui il mondo sempre e ovunque si ammanta di apparenze esteriori […]. Di lì in poi la sua vita è una caccia più o meno ponderata alla felicità positiva che, come tale, sarebbe composta di piaceri positivi. E si arrischiano i pericoli, ai quali ci si espone. Allora questa caccia ad una selvaggina che nemmeno esiste conduce di solito a un’infelicità positiva e molto reale. Questa si presenta in forma di dolori, sofferenze, malattie, perdite, preoccupazioni, povertà, vergogna e mille altre miserie. La delusione arriva troppo tardi.

Se invece, seguendo la norma qui considerata, il piano della vita è diretto a evitare le sofferenze, ad allontanare dunque la miseria, la malattia e ogni bisogno, la meta è una meta reale: allora si può ottenere qualche cosa, e precisamente tanto più quanto meno questo piano è turbato dall’aspirazione alla chimera della felicità positiva.

Eppure, proprio il fatto che il piacere è di natura negativa, ossia che — ordinariamente, ma non sempre: e qui Schopenhauer generalizza e semplifica troppo, per meglio sostenere il suo punto di vista – non vi facciamo caso, se non quando esso viene ostacolato e guastato dal sopraggiungere del fastidio e del dolore, può essere letto in un senso diametralmente opposto alla lettura che ne fa il filosofo tedesco: cioè non come prova del fatto che noi siamo votati a una cronica infelicità, in quanto strutturalmente incapaci di godere, ma come prova, appunto in via negativa, che noi siamo fatti per la gioia (non per il piacere in senso materiale, che è una cosa ben diversa): al punto che tale è il nostro normale stato di esistenza, e, se non vi facciamo caso, come quando tutto l’organismo è sano, in riposo e tranquillo, è perché tale è la nostra vocazione, nel senso letterale del termine: ciò a cui siamo chiamati. Se così tante persone sono, invece, infelici, o se lamentano di essere tali (le due cose non necessariamente coincidono) potrebbe non dipendere dal fatto che la natura ci ha destinati all’infelicità, come pensano sia Leopardi che Schopenhauer, ma piuttosto dal fatto che gli uomini, in generale, non hanno compreso cosa sia il dolore, quale ruolo svolga nella loro vita, quali porte possa aprire, quali mete ulteriori possa indicare, quali facoltà possa in essi destare, e, a dirla tutta, quali benedizioni possa far scendere su di loro, beninteso se vissuto con la retta disposizione dell’anima e non sopportato come una maledizione ingiusta e immeritata.

Inoltre la citazione di Voltaire, da parte di un pensatore come Schopenhauer, risulta un po’ penosa: come se la bella principessa dovesse cantare le lodi di un brutto ranocchio, credendolo più affascinante di lei e sperando di ricavarne un po’ di luce riflessa. Voltaire è quel signore che ha detto, fra l’altro (citiamo a memoria): Voglio che il mio servo, il mio stalliere, il mio sarto e mia moglie credano in Dio; spero, così, di essere un po’ meno derubato e un po’ meno cornuto. A parte l’estrema rozzezza di quest’uso grettamente utilitaristico della religione, oltretutto rivolto solo agli altri (quanto a se stesso, il filosofo illuminista non si preoccupa di credere o non credere), ciò che qui emerge è una visione cinica e rassegnata dell’esistenza: il massimo che si può sperare è di essere ingannati e traditi dagli altri in misura tale, da non averne a soffrire troppo; ma, in generale, non c’è da farsi illusioni: tutti gli uomini (tranne, forse, me) sono una massa di mascalzoni e d’imbroglioni, e tutto quel che si può fare è di regolare la quantità delle loro mascalzonate e dei loro inganni entro un limite ragionevole, vale a dire sopportabile. Che si possa vivere senza ingannare o essere ingannati, questa è una cosa che non viene neanche presa in considerazione: sarebbe una colossale ingenuità, assolutamente sconveniente per degli uomini di mondo come i philosophes del XVIII secolo. Ma di questo radicale pessimismo antropologico, non viene tentata alcuna spiegazione: lo si dà come cosa scontata e dimostrata, mentre nulla, in filosofia, è scontato e dimostrato, se prima non è stato provato, o almeno sostenuto, con argomenti razionali. Questa, pertanto, è una cattiva filosofia; ed è triste che un filosofo come Schopenhauer abbia sentito il bisogno di appoggiarsi all’autorità di una siffatta guida: ciò non depone a favore della serietà e della profondità del suo ragionamento sul piacere e sul dolore.

Schopenhauer abbozza un minimo di argomentazione per spiegare il suo pessimismo esistenziale, ma non si può dire che esca dal piano psicologico e che s’innalzi sul piano filosofico: e ciò appare evidente dal fatto che non si prende nemmeno il disturbo di definire cosa sia il dolore (quanto a noi, per la chiarezza della discussione, diciamo subito che il dolore è un setaccio che separa la parte nobile dell’anima dalle scorie). Tutto il suo modo di considerare la questione del dolore non oltrepassa mai i limiti di una speculazione soggettiva e non eccede mai il punto di vista del singolo, restando in una prospettiva generale puramente materialistica. Quando afferma, ad esempio, che la vita è un inferno e che la sola cosa possibile al saggio è di procurarsi una camera a prova delle fiamme; e quando, poi, si premunisce dalle smentite, ammettendo che neppure ciò potrebbe rivelarsi sufficiente, nel qual caso la colpa della sofferenza sarebbe da addebitarsi al destino, ci sembra che non proceda affatto con autentico rigore filosofico. È troppo comodo tenersi la scappatoia pronta e scaricare la colpa di quel che non funziona sul destino. La vera saggezza dovrebbe esser capace di costruire una camera a prova di fuoco, senza eccezioni; oppure dovrebbe avere abbastanza coraggio e sufficiente onestà da riconoscere che una tale camera, in effetti, non esiste. Forse il vero saggio non è un ingegnere, uno specialista di materiali incombustibili e isolanti, ma un essere umano che ha compreso come il dolore abbia un significato e che questo significato non si troverà mai fuggendo davanti ad esso, o cercando di fuggire, ma attraversandolo con piena lucidità e con vigile consapevolezza. Ma tutto dipende dalla prospettiva materialistica di Schopenhauer, la quale rende inesplicabile ciò che, assumendo una differente prospettiva, apparirebbe invece sufficientemente chiaro, e perfino logico e necessario.

A nostro avviso, gli errori del ragionamento di Schopenhauer sono tre:

1) non aver distinto, con sufficiente chiarezza, fra lo scopo della vita e il piano della vita, finendo per identificarli. Ma avere un piano di vita non significa che esso coincide con lo scopo di essa. È molto più verosimile che il piano di vita sia solo la strategia con la quale ci si prefigge di realizzare lo scopo. Per lui, il giusto piano di vita consiste nell’arte di scansare sistematicamente i dolori. A quanto pare, non gi viene in mente che, come scopo, ciò sia un pochino misero.

2) non aver distinto fra piacere e felicità, identificando anch’essi, da buon sensista. È lo stesso errore di Leopardi. Se il piacere fosse la condizione necessaria per la felicità, egli avrebbe ragione su tutta la linea. Ma esistono delle prove positive che la premessa è sbagliata: di fatto, noi vediamo delle persone felici, quantunque vivano in condizioni oggettivamente dolorose, sia sul piano fisico che morale. Ciò dimostra che la felicità non dipende dal piacere, se non per gli animi più rozzi e superficiali; i quali, non appena perdono il piacere, si lamentano di essere infelici.

3) aver pensato che il senso della vita consiste in ciò che si fa e in ciò che si subisce, ignorando del tutto che, indipendentemente dalle cose che si fanno o che ci accadono, vi è un significato in esse, e anche nel fatto di affrontarle e di viverle. Ad esempio, Schopenhauer deplora che i giovani, bramosi di felicità, vadano a caccia di una selvaggina inesistente: ma non lo sfiora l’idea che la caccia stessa è una felicità, e che il vero cacciatore, capace di godere delle proprie azioni, non è necessariamente colui che torna a casa con il carniere pieno, ma colui che ha saputo godere delle emozioni della caccia, e perfino della sua aspettativa, e messo alla prova la propria abilità, che non si misura unicamente in termini di selvaggina catturata, ma soprattutto di intima soddisfazione e di giusta valutazione di sé.

Schopenhauer, però, è un grande psicologo, e vi sono, anche in questa pagina, alcune preziose osservazioni psicologiche, meritevoli della massima attenzione. Quando osserva, ad esempio, che il giovane crede che il mondo ci sia per essere goduto, e che in ciò lo confortano romanzi e poesie, come pure l’ipocrisia per cui il mondo sempre e ovunque si ammanta di apparenze esteriori, dice due grandi verità e si mostra osservatore lucido e finissimo. Anche qui, però, da una giusta premessa egli trae delle conclusioni arbitrarie e discutibili. Per lui, ciò che dovrebbero fare gli adulti, o meglio ancora i vecchi, è far capire ai giovani che nel mondo non esiste alcuna felicità positiva, e che, se vogliono almeno godere di una felicità negativa, devono sfuggire i dolori come si fugge la peste, anche a costo di rinunciare a tutta una serie di piaceri. Conclusione precipitosa e assai maggiore della premessa. Inoltre, non ci pare che egli abbia colto a sufficienza l’estrema, decisiva importanza dell’educazione, quale risulta dal suo stesso ragionamento. È chiaro che una migliore educazione dei bambini e dei giovani sarebbe capace di restituire al mondo intero un po’ più di felicità, o, secondo il suo modo di vedere, di togliervi un bel po’ d’infelicità. Ma, di nuovo, il ragionamento è debole, perché manca una chiara definizione dell’oggetto. Che cos’è la felicità? Non è il piacere: è lo stato di benessere e di pace dell’anima con se stessa. E come la si ottiene? Schopenhauer risponde: scansando i dolori ad ogni costo, anche a costo di perdere la possibilità del piacere. Noi rispondiamo: vivendo così come vuole la nostra chiamata, facendo quel che va fatto ed evitando quel che va evitato, non per il nostro piacere, ma per essere fedeli a noi stessi, cioè al compito che ci è stato affidato quando siamo stati chiamati all’esistenza.

Quanto all’educazione, è vero che il giovane crede che il mondo ci sia per essere goduto, e che molte cose, nel mondo degli adulti, tendono a rafforzarlo in tale convinzione, anche per squallide ragioni di profitto commerciale (moda, cinema, musica leggera, automobili sportive, industria del sesso, eccetera); ma è altrettanto vero che da ciò discende il dovere dell’adulto di elaborare e mettere in pratica un vero progetto educativo, ciò che dovrebbe partire, ovviamente, dalla famiglia – ed è ben per questo che essa, oggi, è nel mirino delle forze aventi quale scopo finale la dissoluzione morale e sociale -, ma investire anche la scuola e ogni altro aspetto della vita associata, per non parlare della Chiesa. Il fatto che gli adulti siano, oggi, latitanti su questo terreno, è il più grave atto di accusa che si possa rivolgere nei loro confronti. E il fatto che la Chiesa, oggi, troppo spesso, nella persona dei suoi rappresentanti, predichi una morale estremamente rilassata e un atteggiamento sostanzialmente edonista, è un vero e proprio tradimento, sia nei confronti del Vangelo, sia nei confronti dei fedeli, e specialmente di quelli che dovrebbe custodire con maggiore attenzione, cioè i giovani. Infatti, una società educante che sia degna di questo nome, dovrebbe far capire loro che l’adolescenza non l’età del piacere, ma l’età dell’eroismo, proprio perché i giovani sono traboccanti di energia e il loro sguardo non è stato ancora del tutto offuscato dal disincanto del mondo, ma conserva alcune scintille della trasparenza infantile. Ma come far loro capire questo, se la filosofia dominante della nostra società è quella di accostarsi alla vita come ad un gigantesco lunapark, e se gli adulti, per primi, ne danno l’esempio nella maniera più sconfortante?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.