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Bisogna salire, Giuseppe Fanciulli

Giuseppe Fanciulli (Firenze, 8 marzo 1881-Castelveccana, Varese, 18 agosto 1951) è uno scrittore ingiustissimamente dimenticato. E diciamo uno scrittore, non uno scrittore per ragazzi, anche se è vero che egli ha dedicato la sua vita operosa e la sua cospicua produzione letteraria ai giovani e soprattutto agli adolescenti, con un limpido, onesto progetto educativo nella mente, sostenuto da un semplice, ma altissimo senso morale: perché lo scrivere per un pubblico giovanile appartiene a una particolare scelta dell’autore, ma è cosa secondaria rispetto al fatto di scrivere, in sé e per sé, e di fare della scrittura la propria missione fra gli uomini. Le ragioni di tale dimenticanza sono sia di ordine stilistico e formale, sia contenutistico, o, per dir meglio, ideologico. Egli ha una concezione tradizionale della parola scritta, aliena da sperimentalismi di qualunque tipo; e ciò che vuole trasmettere ai suoi lettori è un senso di pulizia, di ordine, di bene, un invito alla vita buona e operosa, al lavoro, alla famiglia, agli affetti; inoltre, una esortazione all’onestà, all’amore degli uomini e della Patria, e a quello di Dio, termine e fine della vita umana. Ce n’era più che a sufficienza, nel clima venutosi a creare in Italia dopo la Seconda guerra mondiale, e, più in generale, nelle tendenze che si erano gradualmente diffuse in Europa nella prima metà del XX secolo (e che il regime fascista, certo alla sua maniera, aveva cercato di ancorare a dei saldi valori tradizionali, respingendo, per quando possibile, il materialismo, il nichilismo, l’ateismo, l’edonismo sfrenato e dissoluto, nonché un certo cosmopolitismo foriero di omologazione e perdita delle radici), perché il Nostro diventasse, quasi da un giorno all’altro, insopportabilmente rétro e gli venisse decretato l’ostracismo. Come se non bastasse, Fanciulli aveva professato una sincera, anche se probabilmente ingenua, adesione al fascismo, tanto è vero che nel 1940 pubblicava, con la Società Editrice Internazionale di Torino, una biografia di Italo Balbo in chiave eroica (più malaccorta di così: in quel’anno il trasvolatore atlantico moriva, abbattuto dalla nostra stessa contraerea sui cieli della Libia); e, cosa più imperdonabile di tutte, nel Paese dei voltagabbana di professione, non volle fare ammenda e non cercò di riciclarsi come scrittore antifascista, ciò che tantissimi altri fecero, anche più compromessi col fascismo di lui, con la massima disinvoltura e con risultati sbalorditivi quanto a carriera, prestigio e successo economico.

Sarebbe troppo lungo, in questa sede, ricordare la sua vastissima opera letteraria, che abbraccia romanzi, racconti, biografie, storie della letteratura e redazione di antologie per la scuola media, e che si estende al mondo dei fumetti, del quale egli vide l’importanza e ne comprese per tempo le grandi possibilità educative, tanto da collaborare per anni al Giornalino della Domenica e da svolgere poi la funzione di direttore, dopo la morte di Vamba, alias Luigi Bertelli. Ormai solo le persone anziane ricordano ancora di aver letto qualche suo brano sui libri di scuola, o il titolo di qualcuno dei suoi numerosi romanzi, fra i quali L’Omino turchino, Libro di Natale, Fiore, Lisa-Betta, Gente Nostra, La Festa di Spinacino, Glorie d’Italia, La vita degli Angioli (una biografia di San Filippo Neri), pervasi da un caldo senso di umanità, da una limpida fede religiosa e da una vena di fierezza nazionale che in qualunque altro Paese, tranne l’Italia, e specialmente i Francia o in Gran Bretagna, sarebbe considerata come assolutamente normale, né verrebbe bollata con l’etichetta, pressoché infamante, di "nazionalismo". Addirittura, il pubblico di oggi, dopo settanta anni di lavaggio del cervello da parte della cultura dominante, progressista e "resistenziale", arriverebbe a chiedersi come potesse un cattolico come Fanciulli conciliare la propria fede con il nazionalismo e il fascismo; perché, nell’immaginario odierno, il fascismo è inestricabilmente legato al nazismo, e questo alle camere a gas, per cui ne deriva che qualsiasi persona abbia mai provato la benché minima simpatia per il fascismo, doveva essere press’a poco un criminale a piede libero. Onore e gloria, invece, ai "compagni" scrittori di estrazione marxista, che ebbero il merito di schierarsi subito dalla parte giusta della barricata: quella che nella sola patria del comunismo fece milioni e milioni di vittime. E i critici più feroci e implacabili, qualora il none di Giuseppe Fanciulli venisse, miracolosamente, ripescati dall’oblio, sarebbero — non ne dubitiamo neanche per un attimo — i cattolici progressisti e di sinistra, i quali, davanti a quell’uomo mitissimo e profondamente buono, perfino candido nella sua bontà (ma non buonista, perché il buonismo è un’altra cosa e si addice più ai cattivi che ai "troppo buoni", ossia agl’ingenui), senza dubbio si straccerebbero le vesti e proclamerebbero, con alte strida, che uno scrittore cattolico non può aver mostrato simpatie fasciste in buona fede; che costui è indegno d’essere chiamato cattolico; e che anche a lui tocca una parte di responsabilità morale per l’impiego dei gas durante la guerra di Etiopia, il varo delle Leggi razziali, la tragedia della Seconda guerra mondiale (provocata unicamente dal Tripartito, è chiaro), dell’Olocausto e anche della bomba atomica.

Riservandoci di riprendere, in futuro, il discorso sull’opera imponente di questo scrittore, per fare ammenda, a nome della sua Patria, del vergognoso silenzio in cui essa è stata lasciata scivolare, mentre venivano acclamati ed applauditi dei veri e propri cattivi maestri, seminatori di confusione e di disordine morale preso quel pubblico di giovani da lui tanto amato, vogliamo qui fermare l’attenzione su di una brevissima prosa inserita, insieme ad altre, nella antologia per le Scuole di Avviamento professionale Giorni operosi, da lui curata per la S.E.I. nel 1932; una prosa intitolata Bisogna salire (pp. 414-415), titolo che ci aveva subito incuriositi, mentre scorrevamo con l’occhio l’indice del grosso volume di settecento pagine, così ben rilegato che, sui banchi dei mercatini, lo si trova ancora intatto, a quasi novant’anni di distanza (allora i libri di scuola erano fatti per durare, come tutto il resto, mentre oggi sono fatti perché gli studenti li vendano appena dati gli esami):

Pochi gusti sono tanto diffusi e comuni tra gli uomini come quello di arrampicarsi su per i monti e arrivare in cima. C’è chi preferisce la funicolare alle scarpe ferrate, alla cordata e alla piccozza; e c’è chi si contenta di scalare poggi, per i quali non sono necessarie né funicolari né scarpe ferrate. Non importa: sono variazioni di un gusto medesimo. L’importante è il riconoscere questa necessità del salire, qualunque sia l’altezza o il mezzo dell’ascesa.

Questa preferenza si afferma in un’altra uniformità di giudizio: cioè nell’ammirazione, nella simpatia che si ha per il montanaro. Può essere un’ammirazione di maniera; vale a dire diretta a un tipo più o meno oleografico, creato dalla pigra fantasia tradizionale; e può darsi che a far i montanari davvero, moltissimi di quegli ammiratori cittadini on reggerebbero nemmeno per un mese dell’estate, nemmeno per un giorno dell’inverno. Ma anche questo conta poco. Conta invece l’osservare che gente diversissima, gente cittadina, riconosce una umanità superiore nelle creature che vivono lassù, a tu per tu con le nere ombre delle foreste, col luccichio dei ghiacciai, il rombare dei torrenti, e i silenzi infiniti dei cieli stellati.

Abbiamo visto tante volte, lungo le bianche vie della pianura, un ragazzo salire di balzo sul montino di sassi lungo la proda, e, orgoglioso, agitare le braccia "di lassù"; abbiamo visto altri ragazzi applaudire quello che più presto era arrivato sul montino, e meglio si reggeva "a quell’altezza".

Non vi pare un gran segno? E non è chiaro il significato? Bisogna salire; ce lo dice una voce profonda, comune ad ogni anima. Ascoltatela e seguitela, voi giovani che avete le forze intatte. Cercate l’aria libera delle altezze, anche quando la pigrizia vi trattiene in basso; cercate le parole eterne nelle immense pagine aperte sulle valli, dinanzi agli orizzonti sconfinati; e nel fulgore possente della creazione, sentitevi più vicini al Creatore!

Né vi sgomenti la lunghezza della via, o la pochezza delle vostre forze; ogni passo che sale è bello e buono. E voi sapete, scommetto, anche quale è l’ottimo, per quella voce che parla in ogni coscienza; è il passo diretto a conquistare le vette della bontà, a superare le forze oscure che sono in noi, e raggiungere, nella più pura luce, il limite donde si riguarda la via percorsa con legittimo orgoglio. Salite!

Senza dubbio, alla luce della cultura del sospetto, che, da Marx e Freud in avanti, è diventata d’obbligo, un brano come questo, in realtà tutt’altro che banale, susciterà il fastidio, la noia e l’irrisione dei nostri bravi intellettuali progressisti, i quali vi troveranno l’ingenuità, se non l’ipocrisia "borghese", di una predica a buon mercato, generica e melensa, e, soprattutto, ignara dei veri problemi della vita, ai quali soltanto va rivolta l’attenzione delle persone, innanzitutto dei giovani: il lavoro, il guadagno, i diritti civili, la giustizia sociale, le pari opportunità dei sessi e l’emancipazione della donna (in quegli anni oscuri non si parlava ancora, purtroppo, di diritti dei gay e di matrimoni e adozioni omosessuali), mentre tutto il resto è roba buona per addormentare le coscienze e far appisolare la sacra indignazione davanti allo spettacolo delle tante cose che ci sarebbero da fare per creare una società adulta e progredita.

Giuseppe Fanciulli svolge un pensiero lineare e condivisibile, partendo una semplice constatazione: tutti sono attratti e quasi affascinati dal salire, dal raggiungere la vetta, non importa di cosa, se della montagna più alta della terra o di un modestissima collina, durante una gita domenicale fuori porta. Perfino un bambino che cammina lungo la via, se vede un mucchio di pietre, prova l’istinto di balzarvi su ed esultare: Sono in cima!, mentre i compagni lo guardano con ingenua ammirazione, mista a una sottile punta d’invidia. Ne deduce che vi è un istinto, nell’uomo, a salire, e a vedere nell’atto della scalata un qualcosa di simbolico: il simbolo della salita dal buio verso la luce, da ciò che è ordinario a ciò che è eccezionale, dalla banalità all’autenticità. Salire la vetta è una metafora della conquista di se stessi. Vera, comunque, sul piano psicologico, l’affermazione che il montanaro ispira istintivamente simpatia, in quanto abitante delle altezze; aggiungiamo che una parte almeno della popolarità che circonda le truppe alpine trova la sua spiegazione in questa spontanea associazione mentale. L’abitante della pianura, o delle paludi, o delle coste marine, o delle isole, non gode affatto di una istintiva simpatia paragonabile a quella riservata all’alpigiano. Si pensi al nonno di Heidi, nella celebre serie di cartoni animati televisivi (il vecchio dell’Alpe, nome che viene pronunciato con un misto di rispetto e soggezione); oppure ad alcuni eroi del cinema, come, per ricordarne uno fra i tanti, il montanaro Zaccaria Teller, interpretato da Spencer Tracy, nel film di Edward Dmytrky La montagna del 1956 (e ispirato al romanzo di Henry Troyat La neve a lutto), a sua volta ispirato a un fatto di cronaca vera, il disastro aereo del Malabar Princess, del 1950, in cui perirono tutte le 48 persone che viaggiavano a bordo. Giuseppe Fanciulli, da buon cattolico, interpreta questo istinto del salire e questa ammirazione per colui che sale come un richiamo di Dio agli uomini, come un invito a cercaLo, a dirigersi verso di Lui, purificandosi e vincendo in se stessi le resistenze degli appetiti terreni, dell’egoismo, della pigrizia, di tutto ciò che li fa volare bassi. L’istinto del salire diventa allora la rivelazione di un profondo bisogno umano, la nostalgia di Dio, il bisogno di completare se stessi in Dio, di trovare in Lui il significato ultimo della propria vita. Non c’è bisogno di ricordare l’importanza della montagna, come luogo simbolico di purificazione e d’incontro con Dio, in tutte le religioni, e specialmente nel cristianesimo: il Sinai, l’Oreb, il Tabor, la montagna delle Beatitudini, il monte della Trasfigurazione, quello dell’Ascensione; perfino il Calvario è una piccola collina, comunque un luogo elevato, da cui il Sacrificio di Cristo sembra voler abbracciare l’universo intero. Tale istinto, per Fanciulli, deve essere assecondato, stimolato, lodato dagli adulti verso i giovani: la capacità di salire diviene allora una metafora della loro volontà di puntare a uno scopo alto nella vita, di darle un nobile significato, voltando le spalle al vivacchiare e al tirare a campare di chi non vuole sobbarcarsi fatiche, né rischi. Perché la vita è una battaglia – concetto, questo, oggi malauguratamente archiviato — e i giovani devono esserne consci; devono sapere che nulla essa regala, senza sforzo personale, sacrificio, capacità di soffrire; e che nulla di buono vi si ottiene, se non è stato conquistato con le proprie forze, la propria generosità, la propria disciplina. Un’adolescenza rammollita, viziata, trascorsa senza mai affrontare una difficoltà, né sottoporsi a un impegno, magari oneroso, o sobbarcarsi una responsabilità, fosse pure quella di prendersi cura delle piante di casa, o del cane, o del gatto, o dell’uccellino in gabbia: un’adolescenza nella quale l’istinto del salire non viene sollecitato, ma tutto viene offerto dagli adulti come se fosse dovuto, rischia di trasformarsi nell’anticamera di una vita infelice, fallimentare. No: i moderni sono affascinati dallo scendere, non dal salire; dal buio, non dalla luce. Si credono capaci di esplorare gli abissi tenebrosi, con le loro sole forze (Freud), ma dimenticano il monito di Nietzsche: Se guardi troppo a lungo nell’abisso, alla fine sarà l’abisso che guarderà dentro di te…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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