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Mihail Sadoveanu, limpida eco d’un mondo sparito

Quanto è stata fortunata la nostra generazione, quella dei nati negli anni ’50 del Novecento: ha avuto tutto, buoni esempi, buoni valori, buona educazione, buona cultura, perfino buoni giocattoli, buoni fumetti, buon cinema e buona televisione; e ha avuto i modelli viventi ai quali ispirarsi, buoni genitori, buoni professori, buoni sacerdoti, buoni lavoratori e professionisti, addirittura (incredibile dictu) buoni politici, almeno in parte. Davvero, non le è mancato nulla; se poi non ha saputo fare buon uso di tutto ciò, deve rimproverare solo se stessa, non qualcun altro: è la generazione che ha ricevuto ogni ben di Dio, specialmente in senso morale e intellettuale, ma che ha dissipato quasi tutto nella maniera più stupida, e che ha saputo lasciare, dietro di sé, poco o niente, e quel poco quasi solo in senso materiale.

Prendiamo la stampa: quanti buoni libri ha avuto da leggere, nel tempo della sua fanciullezza e adolescenza. C’erano delle signore case editrici che pubblicavamo libri al prezzo più economico possibile e mettendo la cultura a disposizione di tutti: di tutti quelli che avessero un minimo di buona volontà. Al prezzo di una birra o di una coppa di gelato, un ragazzo poteva acquistare una edizione economica dei grandi classici della filosofia e della letteratura, o un manuale scientifico o un saggio storico, imbandendo a se stesso un vero e proprio banchetto intellettuale. Fra queste signore case editrici c’erano (c’erano, purtroppo: usiamo il verbo al passato non per il gusto della nostalgia, ma a ragion veduta) le Edizioni Paoline. Aleggiava su di esse lo spirito geniale del loro fondatore, don Giacomo Alberione (Fossano, Cuneo, 4 aprile 1884-Roma, 26 novembre 1971). Parliamo di quelle prima della stagione conciliare e, poi, per pochi altri anni ancora, ossia prima che le micidiali novità allora varate giungessero a far sentire i loro tristi effetti. Non troveremo mai espressioni abbastanza ammirate per elogiarle e per ringraziarle dell’eccezionale opera di promozione culturale e spirituale da esse svolta fra gli anni ’50 e i primi ani ’70, ripubblicando o pubblicando per la prima volta, in veste economica e accessibile a tutte le tasche, opere come La città di Dio di sant’Agostino, gli splendidi volumi della collana Pyschologica, i capolavori della letteratura universale, specie per un pubblico di giovanissimi. C’erano delle collane di letteratura per ragazzi che presentavano dei bei volumi, rilegati e tuttavia economici, come I classici della gioventù, o la 500 EP, o I Capolavori (questi ultimi, addirittura in cofanetto), oltretutto illustrati da eccellenti pittori o disegnatori. C’era una ricca collana, il Filo d’erba, che, per poche lire al volume, offriva un vastissimo assortimento di opere, in brossura e in formato tascabile, di ogni letteratura, comprese quelle, tradotte per la prima volta, dei Paesi dell’Est europeo: polacchi, bulgari, romeni, accanto ai francesi, agli inglesi, ai russi, ai tedeschi, agli spagnoli; sempre scelti con cura, sempre selezionati con il criterio dell’eccellenza letteraria, e, nello stesso tempo, della limpidezza morale. A differenza di quel che avviene oggi, un adulto che voleva fare un regalo a suo figlio, a suo nipote, al suo figlioccio di battesimo, poteva andare a colpo sicuro: non c’era alcun veleno nascosto, alcuna trappola mascherata dietro la bravura artistica. Crescendo, il ragazzo avrebbe potuto curiosare anche al di fuori, sperimentare e farsi una opinione di altri autori e altre tematiche: intanto, però, aveva ricevuto delle basi perfettamente sane, anche se, oggi, senza dubbio, alcuni di quei libri farebbero storcere il naso ai preti progressisti e ai teologi neomodernisti: basti dire che fra essi c’era anche Léon Bloy, il re del politicamente scorretto nell’ambito della cultura cattolica. E, pur nella modestia dell’apparenza, motivata dalla preoccupazione di tenere il prezzo basso, erano libri ben curati, ben tradotti, ben presentati: e questo mentre certe spocchiose case editrici comunistoidi e massoniche, delle quali non occorre fare il nome, tanto ci siamo capiti benissimo, offrivano ai "compagni" i loro volumi con gli autori d’obbligo della vulgata marxista, sontuosamente rilegati, aprezzi letteralmente proibitivi, tanto che nessun operaio avrebbe mai potuto permettersi di acquistarli: alla faccia della coerenza e con buona pace della solidarietà della classe lavoratrice.

All’interno del Filo d’erba c’era una scelta, quanto mai ricca, di autori della letteratura romena, allora pressoché sconosciuti al pubblico italiano: non quelli, per lo più mediocri, dell’ultima generazione, cioè dell’era staliniana, ma i classici del XIX e della prima metà del XX secolo, riflesso di un popolo fedelmente ancorato alle proprie radici contadine, fiero e cosciente di sé, ben deciso a tenersi unito alla propria latinità e al proprio sentimento religioso; autori senza tempo, che parlano agli uomini di sempre, e che, infatti, non hanno peso nulla della loro attualità (anche se non hanno più trovato, almeno da noi, case editrici disposte ad investire su una letteratura "minore", in ossequio alle logiche della globalizzazione, ossia della americanizzazione dell’economia mondiale), mentre i tanto decantati "classici" dell’era marxista sono caduti nell’oblio e ben difficilmente ne riemergeranno mai più, visto che, caduti i regimi che li puntellavano artificiosamente, e in gloria dei quali profondevano le loro lodi, non hanno più nulla da dire ad alcuno. Quelle traduzioni dal romeno facevano capo al Seminario di lingua romena dell’Università di Roma, diretto dalla professoressa Rosa Del Conte, ella stessa valente traduttrice, e, forse, la massima esperta di letteratura romena esistente nel nostro Paese. I fortunati ragazzi italiani degli anni ’60 hanno potuto così leggere, nella prima traduzione nella nostra lingua, degli autori che, altrimenti, nessuno si sarebbe mai preso la briga di far loro conoscere, e così hanno scoperto l’anima ricca e sensibile di quel nostro popolo fratello dell’Europa centro-orientale, allora languente sotto la pluridecennale dittatura di Nicolae Ceausescu: Agirbiceanu, Caragiale, Rebreanu, Sadoveanu, Slavici, Stancu, Zamfirescu (Petrescu era reperibile nella collana I Capolavori, oltre che negli ottimi classici della U.T.E.T.). Il più presente era, com’è giusto, Mihail Sadoveanu (Pascani, Moldavia, 5 novembre 1880-Bucarest, 19 ottobre 1961), il patriarca di quella letteratura, il più rappresentativo di tutti e quello che meglio ha saputo interpretare l’anima della sua gente, semplice e profonda nello stesso tempo, dolce e robusta, sognante e concreta, piena di malinconia. C’erano parecchi suoi titoli, che comprendevano alcuni dei più noti capolavori, a cominciare da La scure e L’osteria di Ancutza (questi, per la verità, già tradotti, anni prima, dalla Mondadori), scelti fra gli oltre 100 romanzi di questo Balzac della letteratura romena, del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci altra volta (cfr. il nostro articolo: È sospeso tra fantastico e reale il mondo incantato di Mihail Sadoveanu, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 28/07/2015).

Si prenda, ad esempio, questo semplice, ma splendido scorcio notturno, sotto la luce argentea della luna, nel racconto lungo Il vortice di Valinash (da: Mihail Sadiveanu, Il vortice di Valinash; titolo originale: Bulboana lui Vălinaş; versione dal romeno di Ida Garzonio, Francavilla, Chieti, Edizioni Paoline, 1966, pp. 31-35):

Maddalena sapeva che doveva sorgere la luna. Altrimenti, avrebbe avuto paura attraverso il buio, sul sentiero sotto i pini, lungo la riva del fiume. Celata nella svolta, all’ombra, aspettò qualche momento, per essere sicura che Mateieş non la seguisse. Sorrideva maliziosamente nel buio e i suoi occhi neri luccicavano come giochi di onde.

Poi si mosse rapida, calandosi sulla costa a picco lungo la riva della Bistriţa, e si incamminò in un boschetto. Quando entrò sotto l’ombra degli abeti, le sembrò di avere gli occhi chiusi: non vedeva più nulla. Il cuore incominciò a batterle. Quando uscì dall’altra parte, come da una grotta d’ombra, le sembrò di trovarsi su un’altra sponda.

La luna piena, rossa, si mostrava sui boschi tra un alone violaceo, e sulla Bistriţa si tese un ponte oscillante di squame d’oro che scivolava verso monte, sul filo della corrente, tra lei e la luna. Una sorgente sussultò all’improvviso da un corno di roccia: sembrava nascosta, in agguato. I suoi passi risuonarono un poco sul bianco sentiero. Una rondine d’acqua volteggiò stridula due volte e passò di là violando sul filo dell’acqua; qui la Bistriţa si allargava in una grande ansa e riposava lenta, invasa ai rami dei salici. Maddalena si fermò con un piccolo grido, e subito cominciò a ridere: due braccia l’avevano afferrata alle spalle, e sotto l’orecchio sinistro sentì i baffi sottili e morbidi di Ilie Bădişor.

– Eri tu, bădìţă? Che paura mi hai fatto!

Il giovine le si mostrò in luce: più alto di lei, col cappello tondo sulla nuca, il mantello corto sulle spalle, la scure sotto il braccio.

La prese con un braccio come un cucciolo e gli occhi gli splendevano negli incavi fondi.

Davanti a loro, sotto la luna, turbinava l’antico, misterioso vortice di Valinash. Il gorgo portava il nome di un giovane sconosciuto, d altri tempi. Di lui, più nessuno si ricordava, ma la sua memoria durava in una canzone che si cantava per tutta la montagna. L’aveva cantata molte volte anche Maddalena con le amiche alle riunioni di veglia, ed ora, al braccio di Ilie, pensava che anche lei aveva trovato un bel giovane come nell’antica canzone.

– Sono venuta un po’ in ritardo, bădìţă… – mormorò piano la fanciulla.

– Appunto: che cosa è successo? — chiese inquieto il giovane, avvertendo qualcosa nella sua voce.

– Niente. Ho incontrato il notaio. Ma gli sono sfuggita. L’ho mandato a parlare con la zia… – incominciò a ridere, divertita. Poi, la voce le s’incupì: _ Ha cercato di fermarmi anche ieri…

Il giovane rimase zitto. Lei gli si aggrappò al collo, nascondendo la fronte sul petto di lui. – Sono molto triste, Ilie bădìţă. Dice che ti farà richiamare.

– Chi? Il notaio?

– Sì. Ma io gli ho detto che non è possibile. È vero che non è possibile?

– No, non è possibile — rispose, esitando, Ilie. — Mia madre è vedova.

– Certo! Lui, solo cattiverie pensa. Quando lo vedo, mi viene voglia di sputare e di fuggire, come davanti al diavolo. Ha stordito anche la zia Paraschiva. Anche lei mi riempie la testa con ogni sorta di chiacchiere, che mi porterà all’altare e mi terrà come una principessa; mi farà vestiti come in città e scarpette di vernice. Ma io non mi curo delle sue chiacchiere — proseguì con tenera grazia spalancando su di lui gli occhi lucenti di pianto. — Io voglio bene a Bădişor. — Il giovane si curvò verso gli occhi di lei, pieni d’ombra. La ragazza ebbe un breve riso e poi continuò con sdegno: – La zia potrebbe giocarmi uno scherzo; potrebbe perseguitarmi, picchiarmi e forzarmi a sposare quel bruttone. Ma non osa, perché si sta godendo lei il mio podere, che mi stato lasciato dai miei genitori, e vende gli abeti che mi appartengono. Io fingo di non accorgermi, purché mi lasci in pace. Ma perché non parli e sei cos’ pensieroso? Quando andrai a Piatra? È vero che ci andrai tra poco?

– Come lo sai?

– Da nessuno. Lo capisco e me ne accorgo da me. Ti ho visto, oggi, dalla collina, mentre legavi le zattere.

– Non è per questo che sono triste, Maddalena. Tra una settimana sarò di ritorno.

-Purché tu torni sano e salvo, bădìţă Ilie! Per una settimana io sarò molto triste. Se almeno piovesse, così non uscirei più di casa!

Il ragazzo sorrise. E lei cin gesto fanciullesco gli diede una cornata con la fronte: – Lo vedo che ridi, sai! No, non deve piovere, così non correrai pericoli sull’acqua. Quando sarai di ritorno, io lo saprò e ti aspetterò qui. Non amareggiarti per altre cose. Sempre girando e cercando, invecchierà quel povero signor Mateieş! Lui passa la vita con la gente di città e con i forestieri che hanno invaso la montagna. Si cerchi una cittadina! Che vuole da me? Io sono una ragazza semplice. E da un anno, da quella festa a Probajeni, voglio bene a un altro. Dillo, Bădişor, che anche tu mi vuoi bene! Il ragazzo non trovava che risponderle. La accarezzava come una bambina e si sentiva morire d’amore per lei.

La luna li illuminava in pieno. Si ritrassero più in ombra, sulla sponda del fiume, sotto un salice. Sul chiarore del vortice si delineò la loro ombra nera, come se l’avesse all’improvviso suscitata l’incantesimo della solitudine.

Non si muoveva nemmeno una foglia. Tutta la valle taceva, fino alle nebbie misteriose lassù, sulle vette. Il vortice sembrava immobile. La fanciulla continuava a bisbigliare, ricordando gli inizi del loro amore. Le piaceva parlare così, come un uccellino che pigolasse sotto l’ala di Bădişor.

Un anno fa, quando aveva ballato — paurosa, col cuore in gola e gli occhi bassi — per la prima volta la "hora", era ancora una fanciulletta timida. Là, a Ponoare, sotto gli abeti presso l’osteria di Bulbuc, aveva scorto tra i giovani Ilie.

Vediamo riuniti in questa pagina i caratteri essenziali dell’arte di Sadoveanu: il senso poetico della natura primitiva, il sentimento di profonda umanità che pervade la sua gente, la capacità di rendere l’eterno dramma della vita umana con una scioltezza di scrittura e una fluidità narrativa veramente eccezionali: quel perfetto equilibrio di leggerezza e pensosità, che solamente i grandi riescono a raggiungere, senza sforzo apparente.

Ecco qui due giovani, poveri, che si amano: lui è uno zattiere, che conduce i carichi di legname giù per la Bistriţa, un affluente del Siret lungo quasi 300 km. che attraversa il Maramures, la Bucovina e la Moldavia, e la cui valle superiore, negli anni in cui è collocata l’azione, ossia i primi del Novecento, era ancora selvaggia e in gran parte ricoperta di fittissimi boschi (fra parentesi, nel racconto di Sadoveanu c’è una segheria dove lavora una squadra di operai italiani, così come italiano è l’ingegner Juvani, uno dei quattro amici che si ritrovano quasi ogni giorno all’osteria dell’ebreo Leizer, per bere il vino e chiacchierare all’ombra degli abeti; gli altri tre sono il sindaco, il pope e il notaio, quello stesso che fa inutilmente la corte a Maddalena). Ma c’è anche il terzo incomodo, un pezzo grosso del paese, quasi un don Rodrigo della società moderna, che ha messo gli occhi sulla ragazza e la vuole ad ogni costo; anche a costo di assoldare un sicario per eliminare il moroso di lei, Ilie, facendolo perire nel vortice di Valinash, un punto particolarmente pericoloso del fiume. Perché quello dello zattiere, oltre che duro, era anche un mestiere pericoloso: non più di quello del minatore, forse, almeno a quei tempi; ma certo assai più di quasi tutti gli altri lavori manuali, un vero e proprio relitto di epoche passate, quando le ferrovie non esistevano e le strade erano così cattive, che la via migliore per trasportare a valle il legname delle montagne era quella, semplice e naturale, ma, ovviamente, impervia e un po’ rischiosa, dei fiumi.

Ah, dirà qualcuno: una storia d’altri tempi, una storia anacronistica, che non ha niente da dire a un italiano della società del benessere! Niente affatto: la generazione di cui parlavamo, che cominciava a leggere libri negli anni ’60, poteva ancora ascoltare dai genitori e dai nonni il racconti degli zattieri sui fiumi italiani; sul Piave, ad esempio, la fluitazione del legname è stata la via di trasporto principale fino alla vigilia della società industrializzata, cioè fino agli anni ’40 (nel 1942, sul Boite, affluente di destra del Piave, ebbe luogo l’ultima menada delle zattere), allorché si è spenta rapidamente, non senza lasciare parecchie tracce della sua esistenza (a Belluno, per esempio, nel sobborgo denominato Piave, la chiesa di San Nicolò ospitava l’antichissima confraternita degli zattieri). Ed ecco perché il racconto di Sadoveanu, e, più in generale, i romanzi di questo autore e degli altri scrittori romeni, tradotti in quegli anni dalle gloriose Paoline, avevano molto da dire al lettore italiano: descrivevano una civiltà, quella contadina, ancor viva e vegeta, quando da noi era già entrata in agonia. Fu proprio in quegli anni, infatti, che la nostra civiltà contadina agonizzò è venne a morte, nel silenzio assordante della nostra cultura: che, dominata dagli intellettuali marxisti, o succube di essi, non dedicò neppure uno sguardo a quell’evento decisivo, o, se lo fece, se ne compiacque, e girò pagina senza rimpianti: il marxismo, per affermarsi, aveva bisogno di operai di fabbrica, meglio se specializzati, non di contadini, e meno ancora di pastori, boscaioli, zattieri: tutta gente infida e pericolosa, perché potenzialmente anarchica, o, peggio, piccolo borghese. E invece, quante cose avrebbe potuto imparare, la generazione italiana degli anni ’50, se avesse letto di più, e con maggiore attenzione, i romanzi di Sadoveanu, Rebreanu, Petrescu, Zamifrescu; soprattutto, quante cose avrebbe potuto imparare su se stessa. Davvero, non c’era molta differenza tra il mondo delle montagne boscose della Moldavia, descritto da Sadoveanu, coi suoi boscaioli, i suoi pecorai, i suoi carrettieri, i suoi osti, la sua gente semplice, uomini e donne, e il mondo rurale, per esempio, del vecchio Friuli, o meglio ancora, della Carnia, dove c’erano paesi ove non esisteva ancora la strada asfaltata per arrivarci, né la luce elettrica, né l’acqua corrente nelle camere, e dove ancora c’erano uomini e famiglie che partivano lontano, per guadagnarsi il pane, i più fortunati in Svizzera, gli altri in capo al mondo, in Argentina, nelle segherie e nelle fattorie della Patagonia e persino della Terra del Fuoco. Leggendo gli scrittori romeni e riscoprendo, con essi, il mondo delle campagne, avremmo potuto, forse, rendere più umana la transizione verso la piena società industriale, evitando la dispersione e la dissoluzione dell’immenso patrimonio spirituale e morale della civiltà contadina.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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