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L’uomo è un “impossibile” che deve realizzarsi

Considerato nella sua fondamentale dinamica interiore, l’uomo ci appare, da qualunque lato lo consideriamo, come una creatura strana, contraddittoria, "impossibile". Non ha una natura determinata, è un essere in divenire, può diventare qualsiasi cosa, può spaziare fra possibilità radicalmente diverse, con una libertà che, a quanto ne sappiamo, non è consentita ad alcun altro vivente. La pianta o l’animale non possono rinunciare ad essere ciò che sono, non possono abdicare alla loro condizione; l’uomo, sì: può farsi meno che uomo, può farsi bestia o addirittura demone. D’altra parte, egli può anche innalzarsi molto al di sopra dei suoi simili e, apparentemente, a ciò che la sua stessa natura parrebbe consentirgli. In teoria, dovrebbe morire di fame o di sete, se non beve e non mangia per qualche giorno; in pratica, sappiamo di alcune grandi mistiche che hanno vissuto per moltissimi anni senza mangiare, né bere (Teresa Neumann, Marthe Robin). Potremmo fare tanti altri esempi di superamento del proprio limite: non solo in senso biologico, ma anche psichico e spirituale. Maria de Agreda, una mistica spagnola del XVII secolo, ha convertito al cristianesimo gli indiani dell’odierno Texas senza aver mai lasciato le mura del proprio convento, in Europa: ciò dimostra che nemmeno lo spazio è una barriera insuperabile per certi uomini, o donne, eccezionali. Dunque, l’uomo non ha una "natura" definita. Ha degli istinti, questo sì: ma sono proprio del tutto naturali, come quelli degli altri animali? Difficile crederlo, perché, così come lo conosciamo, cioè nelle società più o meno civili, l’uomo non somiglia affatto agli altri animali. Egli può restare all’interno d’un angusto perimetro esistenziale, oppure può slanciarsi verso le vastità immense che sono al di fuori; può degradarsi o trascendersi, toccare gi abissi della perdizione o le vette della santificazione: e, pur fra mille difficoltà, resta il padrone della propria evoluzione (o della propria involuzione), e dipende da lui, da lui come singolo individuo, come essere personale, unico e irripetibile, imprimere questa o quella direzione alla propria esistenza.

Il fatto di non avere una natura ben definita rende l’uomo la più fragile e la più forte di tutte le creature viventi. La più fragile, perché i suoi impulsi ed istinti lo pongono sovente in contraddizione con le sue convinzioni e i suoi valori, e accendono in lui un angosciante, irrisolvibile senso di colpa; questo può innescare una spirale depressiva, che può spingerlo fino alla disperazione e al suicidio, cosa che negli animali si verifica sempre e solo a livello di gruppo, e, a quel che ci è dato di sapere, solo per poche specie, quando le condizioni esterne si sono fatte intollerabili e una ulteriore riproduzione causerebbe un male assolutamente certo per la nuova generazione, se vedesse la luce. In generale, la disperazione non sembra faccia parte delle possibilità dell’animale che vive in natura: la si osserva in certi animali selvaggi che vengono allevati in cattività, ossia che sono costretti, assai bruscamente, a vivere in maniera artificiale, contro la loro natura.

Ma che cosa caratterizza la condizione umana, in maniera essenziale? Uno degli elementi fondamentali, forse quello più importane di tutti, è la costane tensione verso una meta generale: la felicità. Tutti gli uomini, fin dal principio della loro esistenza, aspirano ad essere felici: se, per caso, qualcuno non condivide questa aspirazione, possiamo affermare con certezza che si tratta di una rara anomalia, anzi, di una vera e propria patologia, perché l’uomo è l’essere che insegue la felicità. E poco importa che lo sappia o non lo sappia, in termini lucidamente razionali: di fatto, non c’è uomo sano che non desideri essere felice e che non tenda istintivamente verso di essa, e che non si ritragga prontamente di fronte al suo contrario, l’infelicità.

Il problema, naturalmente, è capire in che cosa consista la felicità, dove risieda, e quali siano i mezzi idonei a raggiungerla, o, se si preferisce, a realizzarla in se stessi. È certo, infatti, e comunemente accettato, che essa non risieda in qualche cosa di esterno all’uomo, ma nella sua stessa interiorità: propriamente parlando, non è una cosa, ma uno stato, una condizione dell’essere. Perciò, per esprimersi in maniera esatta, non si dovrebbe chiedere a una persona se abbia trovato, o meno, la felicità nella sua vita, ma se abbia trovato la felicità di essere, ossia se abbia fatto l’esperienza di vivere la felicità in se stesso.

Ha scritto il filosofo Julían Marías nel suo libro La felicità umana. Un impossibile necessario (titolo originale: La felicidad humana, Madrid, Alianza Editorial, 1987; traduzione dallo spagnolo Grazia e Luigi Ferrero de G. V., Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni Paoline, 1990, pp. 24-27):

Quasi tutti riconoscono che la felicità non esiste in questo mondo, che in definitiva risulta impossibile; tuttavia l’uomo è l’essere che ha bisogno di essere felice. Questa è la situazione e questo è il problema che affrontiamo: bisogna prendere il toro per le corna  e vedere dove ci porta.

L’uomo, nonostante tutto, non rinuncia ad essere felice. La differenza tra la vita animale e la vita umana è decisiva.  Non sembra che si possa dire dell’animale che è felice o infelice; ma se le condizioni oggettive della sua vita gli sono favorevoli ha una vita piacevole, sembra soddisfatto. L’animale domestico è più complesso, perché in lui si è operata, in maggiore o minor grado, un’assimilazione all’uomo; la sua condizione animale è turbata dall’intervento dell’uomo, soprattutto quando esiste un’"amicizia" con l’uomo. Nell’animale domestico che ci si limita a usare o sfruttare (vacche, capre, pecore, maiali, galline, muli, asini ecc.) l’assimilazione all’uomo è minima. Il problema si pone con i cosiddetti "animali da compagnia" (cani, gatti ecc.). Un rapporto analogo si può avere con il cavallo da sella, il mulo o l’asino. Con questo tipo di animale si ha rapporto molto interessante – e inquietante – che turba la condizione animale nel suo stato di purezza; questo animale si "contagia" d’umanità, partecipa in modo strano alla vita umana alla quale è associato.

Con questa riserva l’animale, se le cose gli sono favorevoli, è contento e basta. L’uomo no: è quasi sempre scontento. Ogni tipo di uomo (anzi, ogni singolo uomo) ha bisogno di cose molto diverse per essere felice; inoltre, intende diversamente l’essere felice. Sentirsi o no felici dipende dall’epoca, dal paese, dal tipo umano, dal caso individuale e dalle singole fasi della vita. Il tema della felicità presenta difficoltà intrinseche molto serie. 

L’uomo, in verità, non ha una natura, e parlare di "natura umana" è molto equivoco. L’animale sì ha una natura, cioè un repertorio di comportamenti che vengono dalla sua condizione genetica e che possiamo descrivere: il dizionario descrive ciò che è fisicamente un animale e il suo particolare tipo di comportamento; ma per l’uomo non è così. Se ci dicono che non facciamo una vita "naturale", dobbiamo riconoscere che è vero; abitiamo in case, mangiamo pietanze cucinate, beviamo bibite artificiali, fumiamo, viaggiamo in veicoli meccanici, leggiamo giornali e libri, parliamo per telefono, guardiamo la televisione, assistiamo a conferenze; niente di ciò è naturale. Ma se qualcuno ci persuadesse da domani a condurre una vita naturale, che faremmo? Che cos’è naturale?Abitare in caverne oppure sugli alberi? Cacciare, pescare? Mangiare erbe o frutti selvatici? Ciò che l’uomo fa non deriva da una natura: deve sceglierlo, immaginarlo e poi tentare di realizzarlo, con esito positivo mo negativo.

La felicità non è dunque una condizione "naturale", perché non abbiamo una vita v"naturale" né sappiamo quale potrebbe essere; capiamo che una vita è felice quando possiamo dire che è la migliore possibile, la migliore a cui si può aspirare. Orbene, questo è un carattere formale e non ci illumina molto: che cos’è il meglio, che cosa si intende, in ciascun caso, per "meglio"? Se questo concetto non si riempie di contenuto non è altro che una formula vuota.

Potremmo tentare di avvicinarci maggiormente al problema e dire che la felicità consiste nel godere e possedere la realtà. Ma che cos’è la realtà? Ci sono molte cose reali, ne siamo attorniato, ma solo "la" realtà? è difficile determinare ciò che le cose reali hanno di realtà. Non è chiaro neppure il significato del verbo "possedere". Posiamo pensare che si tratti della percezione: vedere, udire, toccare sono forme di possesso, toccare soprattutto; ma si tratta di un possesso di "cose"; il mondo è posseduto dallo sguardo; mangiare è un’altra forma di possesso, come lo sono l’unione sessuale e la conoscenza. Si può anche intendere l’identificazione di chi possiede con la cosa posseduta; ma per quanto concerne il possesso della propria realtà? In che grado posseggo me stesso? Questa formula – godimento e possesso della realtà – non è più una formula astratta, ci accosta alla felicità in concreto, ma non c’illumina a sufficienza.

è per questo che la scontentezza è propria dell’uomo, il quale potrebbe essere definito l’animale scontento. E di tale scontentezza bisogna chiedersi il perché in modo più preciso. La risposta più probabile sarebbe: perché le cose vanno male (in Spagna lo si pensa sempre, senza alcuna esitazione). Questo, in fondo, serve da consolazione, poiché pensiamo che se le cose andassero bene saremmo contenti. Ciò che è grave è il fatto che quando le cose vanno bene, perlomeno in linea generale, ci accorgiamo che nonostante tutto non siamo contenti; cogliamo, cioè, l’aspetto imperfetto, precario, deplorevole della vita, e non sappiamo a che cosa o a chi darne la colpa, perché le cose "vanno bene".

Esiste quindi una contraddizione: una scontentezza inevitabile, inesorabile e, insieme, l’assoluta necessità d essere felice, poiché non vi rinunciamo, non vi possiamo rinunciare. Tutto ciò sembra indicare che l’uomo è "impossibile", e in effetti è così. L’essere uomo consiste nel tentare di essere ciò che non si può essere, ed è questo che chiamiamo, con un verbo stupendo, "vivere". Questa parola non ha lo stesso significato quando viene applicata alla pianta, all’animale o all’uomo. Vi è una contraddizione interna nella condizione stessa dell’uomo: egli si muove nell’ambito della contentezza, ma la sua proprietà è inevitabilmente la scontentezza. 

Concordiamo su molte cose; tuttavia, quel che non viene qui messo sufficientemente in evidenza è che, se una natura umana non esiste – perché sarebbe una contraddizione in termini, l’uomo non essendo che in parte una creatura naturale -, ne consegue che nemmeno l’istinto della felicità è un istinto nel vero senso del termine, non è un qualcosa di naturale. Infatti, a quel che possiamo vedere, gli animali non lo possiedono: gli animali non cercano la felicità, non ne sentono né il desiderio, né la mancanza; sempre con la debita eccezione degli animali domestici da compagnia, specialmente il cane, per i quali valgono le osservazioni giustamente fatte dall’Autore sopra citato. In un certo senso, il bisogno di felicità proprio dell’uomo è la testimonianza di una nevrosi, di un contrasto insanabile fra l’istinto animale, che si accontenterebbe di avere il ventre sazio e una sufficiente dose di sonno per riposare, e il bisogno proprio di una creatura spirituale, che è, appunto, il bisogno di conoscere la felicità e vivere in essa.

Ora, se il bisogno di felicità non è un istinto naturale, dobbiamo dedurne che la felicità non può e non deve essere considerata come una meta verso cui tendere, ma, al contrario, come il premio che ci viene dato per una vita ben spesa. Il grande errore di prospettiva, che tanti commettono, è quello di pensare che, se tutti noi tendiamo alla felicità, deve trattarsi di una tendenza naturale, e, quindi, di una meta in se stessa, rispetto alla quale si tratta solo d’indovinare quale sia la strada giusta. Invece, la nostra personale osservazione del fenomeno "vita" e la nostra riflessione sul tema della felicità ci hanno condotti, entrambe, allo stesso risultato: che la felicità non può essere trovata se viene posta come una meta da raggiungere, perché, infatti, essa non è una meta, ma è lo stato dell’anima che ha realizzato la propria chiamata, ossia che ha vissuto la vita così come doveva essere vissuta. In altre parole, la felicità non si concede ai voluttuosi che la cercano come un fine in se stessa, ma è la condizione interiore di chi ha orientato la propria vita nella giusta maniera, che è quella dell’amore di Dio, di sé e del prossimo, e, con ciò stesso, si è gradualmente sbarazzato del fardello gravoso dell’ego, che vive di passioni violente e indomabili, specialmente di rabbia, invidia, paura e brama disordinata di possesso. Ecco, dunque, perché l’uomo è una "impossibilità": perché la felicità piena e incondizionata cui tende, non è realizzabile nella vita terrena, caratterizzata dalla dimensione materiale dello spazio e del tempo, ma solo quando l’anima si sarà liberata del fardello del corpo fisico, e avrà indossato il corpo glorioso, trasfigurato, fatto di pura luce. L’uomo, in quanto uomo, è una creatura contraddittoria e "impossibile", che non giungerà mai a realizzare pienamente se stesso, perché "uomo", come si è visto, è una parola che non designa una natura, ma una possibilità; e l’uomo, gravato dal corpo, è pur sempre una creatura finita, mentre le sue possibilità sono infinite. Come potrà uscire da questa contraddizione e realizzare veramente, pienamente, se stesso? In una sola maniera: liberandosi dall’ego e aprendosi all’Essere, dal quale ha avuto origine il suo esistere…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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