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Un’escursione nel giardino segreto

Tutti dovrebbero avere il loro giardino segreto, dove rifugiarsi e godere un po’ di pace, di silenzio e di contemplazione. Di un po’ di raccoglimento, per sottrarsi un paio d’ore all’abbraccio soffocante della vita moderna e all’assedio della volgarità e della stupidità. Per ritrovare se stessi, la propria parte migliore, e per godere della fresca carezza della natura, come la mano fatata di una fanciulla, quando l’ora è più tarda e la stanchezza si fa sentire.

La mia fortuna è che un tale luogo esiste, a pochissima distanza da casa: volendo, ci si potrebbe andare a piedi; ma, per evitare il traffico della strada, preferisco arrivare con la macchina fin davanti all’antica chiesetta, accovacciata ai piedi della collina. È un edificio molto semplice, con la facciata a capanna, quasi sempre chiuso; all’interno, un ambiente raccolto, in un unico vano; un altare, un soffitto di travi a vista, un paio di dipinti non disprezzabili, del XVII o XVIII secolo, uno dei quali raffigurante il santo titolare, San Nicolò. La donna che viene a pulire il pavimento e a dare aria ogni settimana, ha posto un vaso con dei mughetti sull’altare, e un profumo docilissimo si spande tutto intorno. All’esterno, a fianco della chiesa, una vasca di pietra riceve il getto perenne di una fontana che scarica l’acqua direttamente dalla collina, come in montagna. È un angolo riparato, che, dalla strada provinciale, può sfuggire tranquillamente allo sguardo. Al mio sguardo è sfuggito molto a lungo. Da ragazzo ci sarò passato davanti chi sa quante volte, durante i miei giri in bicicletta; molto più tardi, venuto ad abitare a non più di tre chilometri di distanza, forse meno, e percorrendo la strada decine di volte, non me n’ero accorto per una buona ventina d’anni. Se non fossi venuto a saper, un po’ per caso, che questa chiesa esiste, non avrei mai scoperto il piccolo segreto di questo luogo, pur così vicino a una via di comunicazione abbastanza trafficata, sulla quale transiteranno migliaia di veicoli al giorno. C’è un ponticello di ferro, che scavalca il fossato adiacente alla strada: se non si sa che questa chiesa esiste, e se non si gira lo sguardo proprio in prossimità della curva. quando l’attenzione, di solito, è rivolta al rettilineo, può succedere di non vederlo affatto: ed ecco spiegato il mistero di una chiesa acquattata nel verde, che si mimetizza così bene da diventare invisibile. Eppure è ancora consacrata, e ci dicono la Messa: una volta alla settimana, fino a un paio d’anni or sono; una volta al mese, adesso. Il sacerdote abita lontano, deve badare ad altre due chiese di due parrocchie completamente diverse, una abbastanza vicina, l’altra situata a una quindicina di chilometri almeno.

Dopo aver percorso a piedi qualche decina di metri, si arriva all’antica locanda, sul cui muro è disegnata una indicazione stradale, con un dito rivolto a destra. Non è un cartello, è proprio un disegno; e non si tratta di una freccia, ma di una mano stilizzata, con l’indice proteso in avanti. Non sarà molto regolamentare, però è poetico. Qui si svolta e ci si lascia alle spalle la provinciale; di colpo, si entra in un mondo diverso. Niente traffico: di macchine, ne passa una ogni tanto, per sbaglio; semmai qualche bicicletta. La strada corre fra alcuni giardini e alcune case, poi sale, svolta di nuovo, e imbocca decisamente la piccola valle che si stende fra due catene di colline boscose. A un certo punto si arriva ad un’altra fontana di pietra, e anch’essa riceve il getto d’acqua perenne dal fianco della collina; ma qui siamo già immersi nella penombra degli alberi, e ormai, di case, se ne vede appena una ogni tanto, seminascosta nel verde. Una vegetazione di pioppi, di noccioli, di querce, di pini strobi, costeggia la strada, che s’inoltra a lato d’un torrente, sulla destra, il quale corre infossato, un paio di metri al di sotto della sede stradale. Ogni tanto un ponticello di pietra scavalca i piccoli affluenti che questo riceve dal lato sinistro della valle: tre in tutto. Sembra di esser capitati in luogo strano e diverso, un luogo magico. Sono state percorse poche decine di metri, e ci si dimentica della civiltà moderna: si è immersi in una pace senza tempo, felpata, e l’aria fresca che scende da Nord è come una frustata salutare sul viso, specie d’inverno, quando l’umidità ristagna a lungo nelle prime ore del mattino, prima di disperdersi.

La prima cosa che colpisce, in questo luogo, è il rumore dolcissimo dell’acqua del torrente, che corre uguale e che ogni tanto compie un piccolo salto, in corrispondenza di alcune minuscole cascatelle: è un suono vivo, con una nota amica; non è il suono un po’ cupo di certi torrenti malinconici, ma un suono sereno, quasi allegro, segnato da tonalità più alte o più basse a seconda che l’acqua, incontrando le curve che segnano le sponde, è costretta ad addensarsi e a rifluire, adattandosi con perfetta flessibilità e naturalezza.

La seconda cosa che colpisce è l’incredibile concerto degli uccelli. Sono veramente tanti e di parecchie specie: il trillo dell’usignolo si mescola ai richiami del fringuello, della cinciallegra, dello scricciolo, dell’averla, del cuculo, del pettirosso, dello storno, dello zigolo. Sembra di essere in paradiso: sono tanti, sono armoniosi, continui, gradevolissimi: evidentemente, qui possono riprodursi in pace e hanno pochi nemici. I boschi che costeggiano la valle e ammantano le colline devono offrire riparo a decine e decine di nidi.

La terza cosa, è la salubrità dell’aria: si sente la differenza, eppure siamo così vicini a una strada trafficata; ma l’aria, nella valle, è di una tale qualità, che invita a respirare, a respirare a pieni polmoni con regolarità, passo dopo passo, in silenzio, estatici, per centinaia di metri, per chilometri. E così, camminando e respirando, si entra in sintonia con la natura, ci si sene parte si questo luogo appartato e ritroso, la cui bellezza si rivela solo a chi non ha fretta, a chi sa guardare e tacere, facendo tesoro di ogni immagine, di ogni suono, di ogni scheggia di luce, di ogni metro di terreno, di ogni attimo di eternità. Sì, meglio tacere, parla già la natura; meglio camminare in silenzio, anche se non si è da soli: parlare a voce troppo alta, o, peggio, lasciar squillare un telefonino, qui, sarebbe quasi una profanazione.

La quarta cosa che si nota in questo luogo è il profumo della vegetazione: un profumo caratteristico, un po’ insolito a questa altezza: siamo appena in collina, ma è il profumo tipico dei boschi di mezza montagna. Ogni altitudine ha le sue specie vegetali caratteristiche, e, pertanto, il suo profumo particolare; e l’erba stessa, specialmente se bagnata dalla pioggia, e perfino la terra, sprigionano un profumo che varia in maniera inconfondibile, dalla pianura, alla collina, alla mezza montagna, alla montagna vera e propria. Qui si sente un sottile aroma di resina: cosa strana, perché i boschi circostanti sono quasi esclusivamente di costituiti di latifoglie; eppure c’è qualche pino, e si vede che ciò è sufficiente a impregnarne l’aria. Par di essere a 700, 800 metri sul mare, e invece non siamo neppure a 200.

La strada procede in salita, ma, almeno nel primo tratto, una salita così dolce che quasi non la si avverte; è solo dopo circa tre chilometri che incomincia a salire in maniera brusca. Ai lati della strada, e fino alla sommità delle colline, macchie d’alberi abbastanza fitte, qualche prato, ogni tanto un piccolo vigneto. A tratti, i pioppi si moltiplicano, con i tronchi alti e snelli e la corteccia macchiata di muschio: paiono betulle, e trasmettono un senso di ordine, di pace, come le colonne di una cattedrale. Lungo le rive del torrente, nonostante l’ambiente umido tradisca la presenza di rane, rospi e salamandre, che fanno capono qua e là, stranamente sono rari gli equiseti, o code cavalline, e quasi assenti le felci. In compenso, sparsi sui prati, ranuncoli e non ti scordar di me (Myosotis) spruzzano un po’ di giallo e un po’ di azzurro intenso nella verde tavolozza della natura; i frequenti cespugli di false ortiche (Lamium purpureum) aggiungono il rosa; e, qua e là, occhieggia il bianco di qualche crocus, vere e proprie sentinella avanzate della flora alpina.

Viene spontaneo fermarsi, ogni tanto, se c’è il sole, per osservare i giochi di luce sulla superficie del torrente: si creano dei chiaroscuri bellissimi, i quali, uniti alla voce argentina del ruscello, fanno nascere il desiderio di restare lì per ore, incantati, ipnotizzati, a godere della vista delle increspature sempre uguali e sempre diverse che appaiono e scompaiono, come in un caleidoscopio, sulla superficie limpidissima dell’acqua. Non ci si stancherebbe mai: non si prova alcuna monotonia, né il senso del tempo che passa: qui si è come attratti in un’altra dimensione, e ci si domanda – se si è giunti qui per la prima volta – dove andrà mai a sbucare questa insolita strada che nessuno frequenta e che sembra non avere fretta neppur essa di arrivare, anzi, sembra indugiare per mezzo di alcune ampie curve, che allungano il percorso e offrono sempre nuovi panorami alla vista. A un certo punto, i fianchi delle colline si allargano e, sullo sfondo, molto più vicine di quanto non si potesse credere, esattamente verso Nord, appaiono le montagne: solenni, meravigliose, con le vette ancor bianche di neve che si stagliano contro l’azzurro del cielo immenso.

Un luogo così pacifico e raccolto eleva l’anima verso il pensiero delle cose celesti. Ed ecco una piccola edicola, sul lato della strada, dedicata a sant’Antonio, con una pittura del santo e, a lato, un’altra di Maria con il Bambino; e più qualche centinaio di metri avanti, sempre sulla sinistra, ecco una specie di minuscolo tabernacolo dedicato alla Madonna, costituito da una semplice statua di plastica, una tettoia di legno, e un mazzo di fiori finti legati ai piedi della sacra immagine. Non si può non pensare alle mani gentili che hanno costruito questa rozza, ma commovente edicola campestre; e riflettere che, in un tempo non lontano, questa era la regola, non l’eccezione: perché praticamente ogni casa, ogni crocicchio, ogni strada, ogni muro, ogni cancello, ogni balcone, e anche moltissimi alberi, erano adornati da una statua, da un quadro, da una nicchia contenente una immaginetta sacra e un vaso di ciclamini. Era impossibile percorrere qualche metro, in un luogo abitato, e qualche decina di metri, in mezzo ai campi, non di rado anche in mezzo al bosco, senza imbattersi in queste semplicissime, ma toccanti testimonianze della pietà popolare, che custodivano i luoghi e li proteggevano dal male.

È strano, ma — l’ha osservato lo scrittore Fabio Tombari, un grande poeta della natura, nel suo romanzo per l’infanzia Il libro di Tonino (1955) — ci sono dei boschi nei quali par di trovarsi in una maestosa cattedrale; e dove, proprio perché si sa di essere soli, ci si sente osservati, come se impalpabili presenze fossero tutt’intorno a noi. Gli animali, certo; e le piante, gli alberi, l’acqua stessa che corre, canterellando; ma non solo: anche qualcos’altro, forse; o meglio, qualcun altro. Entrare in un bosco, o in una valle boscosa, ascoltando le voci del silenzio, mescolate al canto degli uccelli e a quello dei grilli; entrarci con la giusta disposizione di spirito, equivale a compiere un atto religioso, perché qui Dio ci parla in un linguaggio più chiaro ed evidente che altrove. O, per dire meglio: qui siamo noi ad avere la mente ed il cuore più liberi, più svegli, più aperti, e quindi più capaci d’ascoltarlo; perché Lui ci parla sempre, anche in città, anche in fabbrica, ma noi siamo troppo presi da mille altre cose per ascoltarlo, cose che crediamo importantissime ed urgenti, e intanto, concentrati su di esse, ci lasciamo sfuggire l’essenziale.

Ogni luogo ha un’anima, e ogni paesaggio un carattere; e ogni paesaggio, così come ogni musica, trova o non trova rispondenza nelle pieghe più riposte dell’anima nostra. I luoghi sono individui, e così pure le città: hanno perfino un sesso, maschile o femminile; non sono mai anonimi o equivalenti. È assurdo dire: un paesaggio di montagna: bisogna vedere che montagna; così pure, è assurdo dire: un paesaggio fluviale: bisogna vedere di che tipo di fiume si tratta. Vi sono paesaggi di montagna ridenti, ed altri cupi; ve ne sono di gioiosi, e altri di malinconici; a seconda dell’ampiezza d’una valle, della quantità di luce che vi penetra, dell’inclinazione delle pareti rocciose, della vegetazione che ammanta i loro fianchi. Vi sono paesaggi che stancano, che opprimono, che inquietano, e altri dei quali non si sarebbe mai sazi. Per me, il paesaggio di questa piccola valle nascosta fra le coline, immersa nel verde e fiancheggiata da un torrente dalla voce argentina, è il paesaggio ideale: qui è bello venire ogni volta che l’anima ha sete di pace; proprio come la musica di Bach è la sola che si accorda con il mio sentire: essa sola non mi stanca mai, qualunque altra, al paragone, è noiosa e goffa: è come l’unica donna amata in un mondo pieno di donne qualsiasi.

Venire qui, in questo luogo, è sempre una sorpresa che si rinnova; non provoca mai delusione, né assuefazione; non annoia, non stanca; qui, proprio qui, vi è una perfetta sintonia fra il mondo interiore e quello esterno. Perché noi siamo persone, cioè singolarità, ma siamo anche immersi nel mondo, col quale desideriamo l’armonia; nello stesso tempo, siamo schegge d’infinito che si protendono verso la loro dimora originaria. Pertanto, chi avverte con maggior forza il richiamo dell’assoluto, costui avverte una istintiva sintonia con quei paesaggi che, nella loro bellezza riposta, discreta, ma intensa e vibrante, ne sono come un presentimento, un preannuncio. È come se il mondo visibile ci annunciasse la realtà del mondo invisibile, che è la nostra vera patria, la meta alla quale siamo incamminati nel nostro pellegrinaggio terreno. Ed ecco che il verde, i fiori, il profumo di resina, il canto di cento uccelli, il mormorio dell’acqua, ogni cosa innalza un’invocazione a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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