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Servono tre cose: cultura, coraggio e timor di Dio

Di tre cose c’è bisogno, anzi, estremo bisogno, se vogliamo invertite la tendenza attuale verso l’autodistruzione della nostra società e verso lo scoraggiamento e la depressione dei singoli individui, frustrati e amareggiati nel vedere che tutto sta andando a catafascio, che i peggiori trionfano, che il merito non viene premiato, semmai disprezzato, e che una logica perversa, diabolica, sta impadronendosi di tutto, manipolando tutto, strumentalizzando tutto: l’economia e la scuola, lo sport e la finanza, lo spettacolo e l’informazione; e queste tre cose sono la cultura, il coraggio e il timor di Dio.

Senza cultura non si va da nessuna parte: si gira in tondo, si fanno discorsi, si contano le pulci sul pelo di un cane; s’improvvisa, ci si barcamena, si fan le cose press’a poco; si tira a indovinare, si bluffa al tavolo da poker: ma niente di più. Per costruire qualsiasi cosa che abbia delle solide basi, ci vuole cultura. Per fare una buona scuola, ci vuole cultura; per fare una buona informazione, ci vuole cultura; per avere una buona finanza e una buona economia, cultura; per avere sport e spettacolo degni di questo nome, ci vuole cultura. Le persone ignoranti non sono capaci di fare il loro lavoro con quella creatività che, unita alla competenza, conferisce una marcia in più; è solo la cultura che dà la piena conoscenza dei problemi, che suggerisce nuove prospettive, che consente d’immaginare soluzioni inedite. Chi ha cultura sa pensare in grande, sa vedere immediatamente i punti deboli di una teoria, di una strategia; sa come predisporre delle azioni compensatrici, delle linee di correzione rispetto a quanto si sta facendo in maniera insoddisfacente. Niente cultura, niente creatività; niente creatività, niente efficienza, nessuna serietà, nessuna fierezza: solo un servile strisciare alla porta del padrone di turno. Quando l’Italia aveva una classe dirigente relativamente colta, è innegabile che le cose andavano un po’ meglio; e lo stesso si può dire per l’Europa e per il mondo. Ora che imperversano gli zoticoni ignoranti e presuntuosi, siamo abbandonati agli alti e bassi della sorte, ai capricci del caso.

Ci vuole anche coraggio. Bisogna saper rischiare, quando ne vale la pena; farsi avanti, quando si preferirebbe stare in ultima fila; esporsi, mettersi in gioco, quando sarebbe più semplice e conveniente farsi gli affari propri. Il coraggio è necessario per svolgere degnamente qualsiasi compito, ma è particolarmente necessario nelle fasi storiche di transizione, nelle poche di decadenza, come la nostra. Nelle epoche di transizione tendono a fare carriera i vermiciattoli, gli yes-men, i leccapiedi: ma non è erto di loro che la società ha realmente bisogno. La società, se vuol salvarsi, ha bisogno di persone oneste, fiere, tutte d’un pezzo: di persone affidabili e intrepide, che si assumono le loro responsabilità che non giocano a scaricabarile. Ha bisogno di persone non timide, che non hanno paura di venire allo scoperto, di battersi, di esser prese di mira. I coraggiosi sono il sale del mondo; se non ci fossero, vivremmo in una fogna popolata di ratti e pantegane, senza mai un soffio d’aria pulita che venisse a vivificarlo e a renderlo sopportabile. Senza un po’ di coraggio, perfino i grandi progetti appassiscono e muoiono, i nobili ideali si spengono, le idee e i sentimenti avvizziscono e si consumano lentamente, ma inesorabilmente, imputridiscono e infine si dissolvono. Il coraggio è la forza che manda avanti il mondo: senza di esso, non nascerebbe più un bambino, né si crederebbe più nel futuro; si vivrebbe squallidamente, giorno dopo giorno, una vita fatta di miseri espedienti, in attesa della morte.

Ma più importante di tutti è il timor di Dio. Certo, anche l’amor di Dio; ma di quello, ai nostri giorni, si parla pesino troppo, lo si abbassa al livello di una soap opera, di una melassa in stile New Age. Del resto, l’amore e il timor di Dio sono le due facce di una stessa cosa: l’uno è impensabile senza l’altro. Ai nostri giorni l’uomo sta attuando, a tappe forzate, una strategia ben precisa, attentamente studiata e pianificata nei centri del potere occulto, per auto-divinizzarsi, il che significa, in pratica, abolire ogni senso del limite e ogni senso del mistero. La scienza e la tecnica sono le punte di lancia di una tale auto-divinizzazione dell’uomo, il quale, ad ogni nuovo "successo" di questo Logos calcolante e strumentale, senza amore, senza compassione, senza umiltà e senza saggezza, sempre più s’inorgoglisce e sempre più si allontana da Dio, inseguendo un folle progetto di dominio totale sulla natura, quasi per farsi lui il nuovo creatore dell’universo, il nuovo padrone assoluto della vita e della morte (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, cambiamento di sesso, trapianto del cervello, creazione di "chimere", cioè di ibridi animali-umani, e via di questo passo, sempre più delirando). Si sta così sviluppando una scienza senza timor di Dio, ovvero una scienza diabolica, dagli esiti assolutamente imprevedibili, ma che, da quanto si è potuto vedere e capire fino ad ora, non porteranno certo alla sospirata "liberazione" dell’uomo dalle forze che ne limitano l’esistenza, bensì a delle forme di schiavitù nuove ed inimmaginabili, e, per certi aspetti, raccapriccianti e mostruose, quali mai egli ha conosciuto e sperimentato, in tutto il corso della sua storia, fin dai primi albori.

Di tre cose, viceversa, non c’è bisogno, oggi: della falsa cultura, del falso coraggio e del falso timor di Dio.

Nella palude della falsa cultura siamo immersi fino al collo, ci sguazziamo tanto beatamente che quasi non ci accorgiamo più che di una palude si tratta, mefitica e malsana, e non di quella limpida fonte che a parole descrivono, e magnificano, tutti gli spiriti cortigiani. La falsa cultura è quella che si gonfia la bocca di parole, ma non possiede idee; che si sbizzarrisce nella specializzazione, ma perde di vista l’insieme; che gonfia l’ego di quanti la praticano, e non insegna loro nemmeno un briciolo d’umiltà: mentre il primo segno di riconoscimento della vera cultura è, appunto, il fatto che quanti la possiedono, o almeno vi si avvicinano, sono persone umili, o che hanno imparato l’immenso valore dell’umiltà. La vera cultura è modesta, non gonfia il petto, non si mette in mostra, non cerca i riflettori, non pontifica dai pulpiti, non va a caccia di microfoni dai quali parlare, parlare, parlare. La vera cultura è pronta a spezzare con tutti il pane della conoscenza, senza chiedere nulla in cambio; ma, nello stesso tempo, sa e vede e capisce quando gli altri ne sono sinceramente alla ricerca, e, se non è così, se vede che i porci sono ghiotti solo e unicamente di ghiande, si astiene dal dar loro le perle del sapere. La vera cultura è umile, ma anche fiera, e conscia di sé: non si abbassa, non si prostituisce, non cerca l’applauso, non vuol convertire nessuno, non si lascia strumentalizzare, piegare, addomesticare, travisare. Il vero uomo di cultura è saggio, indipendente, equilibrato, sereno, paziente, dignitoso; non dipende dall’approvazione di alcuno e non teme l’ira di alcuno: dice la verità quando è richiesto e quando le circostanze lo esigono, perché altrimenti parlerebbero i sassi; ma, se nessuno la desidera e se le circostanze non lo richiedono, egli guarda e tace, e passa oltre. Il falso uomo di cultura fa sempre la ruota come un pavone, vuol essere ammirato, vuol essere applaudito; va lui stesso a cercare gli applausi, sorride ai potenti, s’inchina, si umilia, briga e traffica per pubblicare i suoi libri, per essere invitato alla televisione; si gonfia di piacere quando il suo nome corre sulle bocche, quando le signore lo desiderano — le signore sono sempre affascinate dall’uomo di cultura brillante e di successo; un po’ meno dall’uomo colto che se ne sta in disparte e vive modestamente — e quando può salire sul palco, guardare gli altri dall’alto, ricordare al mondo che lui è qualcuno, che non è mica uno qualunque.

Il falso coraggio è un’altra moneta che ha largo corso ai nostri giorni; anzi, si potrebbe quasi dire che è la divisa preferita della modernità. La modernità fa perno sul culto cieco del Progresso illimitato; dunque, chi è moderno, è anche progressista, le due cose sono inseparabili, sono quasi sinonimi. E chi è il progressista di professione, se non un signore che si atteggia a coraggioso, perché lotta, coraggiosamente, appunto, contro le oscure forze della conservazione, contro gli ottusi fautori della tradizione, contro i biechi manutengoli del potere stabilito, compreso il potere culturale? Se non che, a ben guardare le cose come stanno, ci si accorge subito di un fatto costante: che il progressista, nove volte su dieci, è, nonostante le apparenze contrarie, uno che va a colpo sicuro, tanto è vero che non rischia mai nulla, o quasi nulla. Pare che stia sfidando chi sa quali tremendi nemici, e invece ha già la vittoria in tasca. Ma è logico: il Progresso, in una società che lo adotta come suo Nume protettore, è sempre vittorioso, perché è sempre un passo avanti: il progressista è la mosca cocchiera che siede a casetta e grida agli altri, distribuendo colpi di frusta a destra e a manca: Ohé, ohé! Fate largo al Progresso, miserabili, pezzenti; scansatevi o vi schiaccio sotto le ruote, plebaglia, miserabile marmaglia! Proprio come nella fiaba di Andersen: Il piccolo Claus e il grande Claus, dove il protagonista, pazzo di orgoglio, grida ad ogni passo: Arrì, arrì, miei cinque cavalli! Da qui, il caratteristico sorrisetto ironico del perfetto progressista: egli è tutt’uno col Progresso, gli altri — gli infedeli — sono soltanto dei burattini asserviti alla tirannide del passato. Lui sa, gli altri non sanno; lui è intelligente, gli altri sono stupidi; lui capisce tutto, gli altri non capiscono nulla. E dall’alto del suo superiore capire, sapere e giudicare, il progressista combatte la sua nobile battaglia per la civiltà: come negare che sia un coraggioso? Peccato che i suoi nemici siano già agonizzanti, o che siano morti da qualche generazione: il suo bersaglio preferito, infatti, è un avversario che sia famoso, ma non forte; anzi, che sia debole; meglio ancora se morto e sepolto. Lui, però, farà comunque la sua figura: come Davide contro il gigante Golia, farà la figura di aver osato, di aver sfidato, di aver rischiato. Anche se non ha rischiato nulla, e ha colto i fin troppo facili allori di una battaglia già vinta.

Il tipico progressista, infatti, è solo un conformista: crede nel Progresso, perché in tal modo non si troverà mai superato dai fatti, non arriverà mai qualcuno — così egli pensa — a fargli notare di essere rimasto indietro, di non aver capito qualcosa; ma, a parte questo, la fede nel Progresso è, per lui, un vestito talmente abitudinario, che egli lo indossa con la stessa noncuranza con cui il conservatore si aggrappa alle sue certezze. Infatti, il progressista non apre mai una strada nuova; per quello, ci vuole un altro temperamento, un’altra forma mentis: il progressista è colui che arriva a cose fatte, a guerra ormai terminata, e suona la cornamusa come se l’avesse vinta lui, o come se il suo contributo fosse stato decisivo. Poi si mette a dar la caccia all’ultimo giapponese nella giungla, ammesso che ve ne sia ancora qualcuno, e si aspetta di ricevere l’ammirazione e la gratitudine universali — anzi, diciamo pure che le pretende — quasi che, senza il suo contributo, la vita di ciascuno sarebbe minacciata da tremendi pericoli, e meno male che c’è lui, a neutralizzare tali pericoli e a vigilare sulla nostra sicurezza e sulla nostra serenità.

Infine, il falso timor di Dio. La nostra società, abbiamo detto, ha smarrito il timor di Dio; e perfino fra i cosiddetti credenti, ormai, se ne vede assai poco. Il concetto stesso di timor di Dio sembrerebbe del tutto superato, addirittura archiviato (a dispetto del fatto che, per un vero cattolico, non si tratti per niente di una nozione astratta e, per così dire, facoltativa, ma di una realtà ben precisa dell’ordine soprannaturale: è uno dei Sette Doni dello Spirito Santo alle anime che si trovano in grazia di Dio). E poiché i neocredenti della neochiesa modernista e progressista hanno, di fatto, sostituito l’amore di Dio con l’amore — malinteso e buonista, cioè niente affatto buono — del prossimo, succede che al timor di Dio è subentrato il timore dell’uomo, e precisamente del diverso. Non vi sono altre spiegazioni per il fatto che i cristiani, e specialmente i cattolici, oggi, non osano neanche pronunziare l’espressione "terrorismo islamico", perché, come ha autorevolmente affermato il papa Francesco, il terrorismo islamico non esiste, così come non esiste — bontà sua – quello cristiano. Che quello cristiano non esistesse, in verità, lo sapevano da noi, grazie tante: nessun giornale parla mai di terroristi cristiani che uccidono in nome di Gesù Cristo. Invece, ogni giorno i giornali parlano di terroristi che uccidono, o progettano di uccidere, in nome di Allah. Tuttavia, non bisogna dirlo: sarebbe scortese, sarebbe indelicato. Ecco, questo è lo stravolgimento del timor di Dio in timore – ma stavolta fisico e psicologico – degli uomini. Il timor di Dio nasce dalla consapevolezza dell’abisso che vi è tra la piccolezza dell’uomo e l’infinità di Dio: chi sei tu per giudicare Dio? Il falso timor di Dio, divenuto timore tutto umano dell’uomo, consiste nell’astenersi da qualsiasi cosa possa dispiacere all’altro, anche a scapito della verità e della giustizia: chi sono io per giudicare? Il cattolico progressista ritiene che non sia di buon gusto evidenziare il peccato, mostrare d’essersi accorto del male: davanti ai divorzi, agli aborti, alla fecondazione artificiale, ai cosiddetti matrimoni omosessuali, non dice nulla, assolutamente nulla, perché bisogna gettare ponti e non alzare muri. Questo falso rispetto degli uomini equivale a dispiacere a Dio; ma che importa? Tanto, Dio è "misericordioso": lui sa capire e perdonare.

Così, dal timor di Dio si è passati a prenderlo in giro. Lo si vuol fare fesso: usare la parola magica della misericordia, per legittimare quel che a Lui dispiace. E tutto ciò, dicendo che è Lui a volerlo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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