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Pazzi, abbiamo aperto la porta che doveva restar chiusa

Cronache di ordinaria follia.

Padova. Un ragazzo di 16 anni prende il fucile in casa del nonno, torna a casa sua, lo punta alla tempia di suo padre addormentato sul divano, e spara, ovviamente uccidendolo. Ma non voleva farlo: era suo grande amico, almeno così ha dichiarato agli inquirenti; si è trattato di uno sfortunato incidente, originato da un semplice scherzo finito male.

Torino. Un uomo e una donna, titolari di un maneggio, sul punto di essere denunciati per gravi maltrattamenti ai cavalli, decidono di riversare tutta la colpa sullo stalliere e cercano di convincerlo ad addossarsi ogni responsabilità. Come? Legandolo a testa in giù e torturandolo per tre ore, spezzandogli le braccia e minacciandolo di tagliargli un dito.

Montebelluna, provincia di Treviso. Una diciottenne sale con degli amici sul tetto di una vecchia fabbrica per scattarsi un selfie sull’orlo del cornicione; ma il cornicione frana e lei cade giù nel vuoto, da un’altezza di parecchi metri. Ora è ricoverata in ospedale, in gravi condizioni. Ha battuto la testa, riportando un trauma cranico e fratture in varie parti del corpo.

Vogliamo continuare? Non finiremmo più. Ogni giorno, la lettura della stampa quotidiana offre una galleria degli orrori: nei quali la cosa che più sorprende e fa raccapricciare non è tanto la crudeltà e la stessa gratuità delle azioni malvagie, o, quanto meno, l’enorme sproporzione fra la causa scatenate nate e il comportamento successivo, ma l’indugio, la soddisfazione, il compiacimento che le persine trovano nel fare del male agli altri o a se stesse. Spesso, peraltro, una causa non c’è, a parte la noia e la volontà di andare oltre. Si tortura, si uccide, si scherza con la vita, la propria e l’altrui, senza un motivo preciso, se non la voglia di fare qualcosa di diverso dal solito, di provare emozioni nuove.

E adesso parliamo dei bambini. Che c’entrano i bambini con gli orrori della cronaca nera? C’entrano, perché sono gli stessi che, fra qualche anno, faranno nella realtà ciò che si sono addestrati a fare al computer. I giochi elettronici che circolano oggi sono impregnati di erotismo e violenza, una violenza cieca, estremamente brutale. In teoria non si potrebbero vendere ai minori di diciotto anni; in pratica, ci giocano i bambini di dodici, di dieci, di otto anni. Non di rado sono proprio i genitori che li comprano e li regalano ai loro figli. Nei giochi di combattimento si affronta un avversario e si cerca di ucciderlo, scegliendo l’arma preferita: la pistola o il coltello. Se lo si colpisce con il coltello, uno schizzo di sangue investe lo schermo e le singole gocce restano lì per un poco, prima di colare giù e scomparire alla vista. Tutta la scena è simulata in un modo estremamente realistico: il nemico da colpire, l’atto del ferimento, lo schizzo di sangue. Sembra proprio che sia tutto vero.

Un bambino che si trastulla con simili giochi (e li chiamiamo "giochi" per convenzione, ma è evidente che sono tutt’altra cosa che un gioco) per qualche ora al giorno, tutti i giorni che Dio manda nella settimana, nel corso del mese e nell’anno, dopo due o tre anni, se non prima, impazzisce. Non lo diciamo per modo di dire: impazzisce; il suo cervello non funzionerà mai più come prima, anche se finalmente qualcuno intervenisse e gli sottraesse, senza dubbio con enorme difficoltà, il suo gingillo preferito. Ma non impazzisce di una pazzia ordinaria, bensì di una pazzia straordinaria: quella della possessione demoniaca. Il Male è entrato non solo nella sua mente, ma anche nella sua anima. Ha trovato la porta aperta ed è entrato; si è guardato intorno, non ha visto nessuno che potesse o che volesse fermarlo, e si è reso signore di quella giovane anima. Ha visto, con immensa soddisfazione, che proprio quelli che meglio dovrebbero conoscerlo e non sottovalutare la sua potenza, non credono nemmeno più alla sua esistenza, ne parlano scherzando, o non ne parlano affatto, perché temono di rendersi ridicoli anche solo a nominarlo. Di conseguenza, le sentinelle della fortezza se ne sono andate all’osteria, le mura sono rimaste sguarnite, le torri vuote, e la porta aperta.

Ci sono porte che dovrebbero restare chiuse: ne avevamo già parlato, in parecchie occasioni (cfr., in particolare, il nostro articolo Vi sono porte che dovrebbero restare chiuse, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/05/2007). Non tutte le porte si possono aprire; e non tutte si devono. La cultura illuminista ci ha abituati alla mancanza di senso del limite: con lo strumento della ragione libera e spregiudicata, pensiamo di poter capire tutto, di poter spiegare tutto. Affrontiamo i grandi interrogativi morali con la stessa mentalità con cui affrontiamo un quesito matematico: cioè in senso quantitativo, meccanico, statico, senza tener conto delle possibili conseguenze. Non crediamo che esistano dei misteri, ma solo dei problemi; e abbiamo fretta di risolverli, per poi passare subito ad un altro. Un problema risolto è un fastidio di meno, un ostacolo eliminato; e una medaglia in più da sfoggiare sul petto. L’uomo moderno è il grande massacratore di problemi, così come Achille era il grande massacratore di guerrieri troiani. Peccato che non si accorga di stare maneggiando la spada tenendola per il taglio. Forse crede che la spada sia di plastica, come quelle che usano gli attori e le comparse nei film ambientati nei tempi antichi: invece è perfettamente vera, e la sua lama è affilatissima. Anche il sangue che schizza sullo schermo del videogioco è una semplice simulazione: però il desiderio di violenza e di sangue che semina nell’anima del bambino, ferendola a morte, è perfettamente reale. Un giorno darà i suoi frutti amari: forse fra un giorno o un anno, forse fra venti o trenta.

Così, con giovanile incoscienza, con stolida presunzione, abbiamo fatto quel che fecero gli abitanti di Atlantide, secondo il racconto di Platone: a forza di scherzare con il Male, stiamo preparando la nostra rovina. Abbiamo spalancato le porte dell’inferno e il diavolo ha fatto irruzione nelle nostre anime, a cominciare da quelle dei più piccoli, i più indifesi, i più facilmente manipolabili. Quelli ai quali non sappiamo più dire di no, perché nella nostra società puerocentrica, i desideri dei nostri figli sono ordini, e i loro ordini sono sentenze inappellabili. I bambini comandano gli adulti, e il diavolo comanda i bambini. Siamo stati presi all’amo dal diavolo, per il tramite dei nostri bambini: i quali, giustamente, un giorno ci chiederanno conto dei "no" che non abbiamo saputo dir loro, dei sacrifici che abbiamo loro risparmiato, di qualche sacrosanto ceffone che non abbiamo somministrato loro, quando se l’erano più che meritato. Vili, abbiamo voluto la loro approvazione da piccoli; adesso che sono cresciuti, ci meritiamo il loro disprezzo. Li abbiamo consegnati nelle braccia del Male, e abbiamo chiamato ciò far loro dei regali. Regalare a un bambino dei giochi elettronici come quelli di cui abbiamo parlato poc’anzi equivale a consegnarlo in potere del Male. È un capolavoro che il signore stesso del Male non avrebbe mai osato sperare che si realizzasse: invece è divenuto realtà, con pochissimo sforzo da parte sua e con molta imbecillità criminale da parte nostra.

Qualcuno domanderà che cosa ci sia di poi tanto terribile nel regalare un gioco elettronico a un bambino e nel lasciare che giochi a dei giochi violenti: dopotutto, si sa che sono soltanto delle simulazioni, delle cose non vere. Il punto è proprio questo: che il bambini non lo sa. Un poco alla volta, smarrisce il discrimine fra realtà e simulazione: e l’estremo realismo di quei giochi lo aiuta a smarrirlo sempre di più. In tal modo, il bambino non solo si abitua al male, ma finisce per compiacersene: perché è lui che uccide, dopotutto; è lui che spara al nemico o che lo accoltella, e ne fa sprizzare il sangue dal petto. Fare il male è brutto, ma umano; compiacersi del male è demoniaco. E stiamo parlando di un fare il male e di un compiacesi del male che, per il bambino, non sono simulazione, ma qualcosa di molto vicino alla realtà. Mentre simula di uccidere, è come se stesse uccidendo: s’immedesima, prova le stesse emozioni selvagge e crudeli che si proverebbero in una situazione reale.

Fra parentesi, qui si vede anche l’ipocrisia con cui cerchiamo di giustificare il nostro rifiuto della maternità e della paternità. Diciamo: fare un figlio implica una grande responsabilità; bisogna fare le cose per bene, cioè potergli offrire tutto quel che serve per crescere bene, in un mondo così difficile: meglio fare pochi figli e seguirli con amore e dedizione, che farne tanti e abbandonarli sulla strada. Ma non è vero. Ne facciamo pochi e poi li abbandoniamo nelle mani dei lupi: la televisione, il computer, il telefonino. Pochi e abbandonati negli artigli del diavolo, senza filtri, senza star loro accanto, senza spiegare come devono usare la tecnologia, come devono usare la libertà che viene loro concessa; e, in compenso, chiedendo loro sempre meno rispetto dei doveri, sempre meno impegno nelle cose che fanno, sempre meno sacrifici personali per realizzare le cose che vorrebbero fare o per possedere gli oggetti che vorrebbero avere. Complimenti a noi stessi: abbiamo realizzato un’opera d’arte in negativo.

Questa, dunque, è la situazione, Pazzi, abbiamo aperto la porta che doveva restar chiusa; la porta che i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri avi hanno sempre avuto la saggezza, o il buon senso, di non socchiudere neppure. Ora il diavolo è libero di scorrazzare dentro le nostre case, di catturare e ipnotizzare i nostri figli, di tenere in ostaggio le nostre famiglie. E la prova evidente della nostra soggezione, della nostra schiavitù, anche se crediamo d’esser padroni della nostra vita e persino di dominare le forze della natura, è che non solo facciamo il male, ma proviamo sempre meno rimorso, sempre meno pentimento, sempre meno bisogno di espiare; o che non proviamo affatto nessuna di queste cose. Facciamo il male e ne siamo compiaciuti; ne siamo quasi incuriositi, come se ci osservassimo dall’esterno, e ci domandassimo, perplessi: Ma insomma, tutto qui? Era dunque così semplice, dopotutto? Sì: attraversare la linea di confine fra il bene e il male è diventata una cosa semplice, semplicissima; lo fanno anche i bambini, e raramente vengono rimproverati, quasi mai vengono puniti. Al contrario, i genitori sono i primi a scusarli, a giustificarli, senza neanche preoccuparsi di far capire loro che hanno fatto ciò che non dovevano fare. Se a rimproverarli è la maestra, o il professore, ecco che i genitori, infuriati, chiedono un colloquio con il preside, per protestare energicamente, minacciando querele. Esigono delle scuse. Se il loro figlioletto ha fatto del male a un compagno, o ad una compagna, minimizzano, prendono le sue difese d’ufficio, per partito preso. Che sarà mai: uno spintone che ha mandato l’altro a terra, fratturandogli il polso; una sigaretta schiacciata sul braccio della compagna; sciocchezze, ragazzate. Bisogna capire, non aveva cattive intenzioni: è un bravo ragazzo. Si è trattato solo di un incidente; non si può mica trattarlo come se fosse un delinquente, un criminale. Non sarebbe giusto. Appunto, un incidente: come il sedicenne padovano che ha ucciso suo padre con una fucilata al capo; così, tanto per scherzare. La vita è noiosa e bisogna pure inventarsi qualcosa per darle un po’ di pepe, per far scorrere un po’ di adrenalina nelle vene.

Eppure, la vita non sarebbe poi così noiosa se le persone, a cominciare da quando sono piccole, venissero abituate al gusto del lavoro, dell’impegno, della responsabilità. Forse, se avessero qualche mansione utile da svolgere, e meno tempo libero da "ammazzare", non verrebbero loro in mente passatempi tanto stupidi, o volgari, o pericolosi, o criminali. Però non illudiamoci: "lui" è sempre in agguato, è sempre pronto a sferrare l’attacco. Se trova le porte aperte, tanto meglio, entra con assoluta disinvoltura; ma anche se le trova chiuse, non per questo desiste, né rinuncia al suo obiettivo. Gira intorno alla possibile preda e studia il varco, il punto debole nella difesa. Le prede siamo noi, e il varco glielo offriamo di continuo, attraverso le nostre passioni sregolate: la smania di godimento, la superbia, la cupidigia. Quando le vede, fa leva su di esse per scardinare anche la porta ben custodita; figuriamoci se la trova socchiusa, o addirittura spalancata. Nessuna epoca della storia gli ha reso mai la caccia tanto facile, come la nostra. C’è, al fondo di noi stessi, un profondo disamore di noi, di quel che siamo, della nostra civiltà; c’è un oscuro desiderio di ritornare ad essere dei selvaggi, degli stupratori, degli antropofagi. Perché? È un mistero. Le forze del Male esistono, e noi siamo il campo di battaglia. La vita è una lotta, una lotta incessante fra il bene e il male. Noi siamo anche la posta in gioco: ne va del destino eterno della nostra anima. Come ne usciremo, chi ci salverà dall’abisso delle tenebre? Non ne usciremo da soli, non ci salveremo con le nostre forze, questo è certo. Ciò tuttavia non significa che siamo impotenti, e, quindi, che siamo solo dei burattini in balia di forze troppo più grandi di noi. Qualcosa possiamo fare: possiamo pregare, possiamo rivolgerci a Dio. Senza di Lui siamo perduti; contro di Lui siamo dannati. Con Lui, siamo dei figli…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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