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E. T. A. Hoffmann: quando l’iperrealismo sfocia nel meraviglioso e nel soprannaturale

Benché tedesco, anzi prussiano, che più prussiano non si può, e benché di professione facesse il magistrato al servizio della monarchia degli Hohenzollern, una delle più rigide e più militaresche dinastie dell’Ancien régime, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (Königsberg, 24 gennaio 1776-Berlino, 25 giugno 1822) ci appare, persino fisicamente – stando ai ritratti che possediamo -, ma soprattutto nell’indole e nel temperamento artistico, tutt’altro che un uomo del Nord, tutt’altro che rigido e militaresco, tutt’altro che piatto, pedestre, ottuso e disciplinato. Al contrario: pare un uomo del Mediterraneo, un greco o uno spagnolo, scaraventato, per uno di quegli scherzi del destino che tanto frequentemente ricorrono nella sua narrativa, fra le brume, le lande sabbiose, i laghi e le foreste in riva al Baltico, sullo sfondo di vecchi manieri semidiroccati che parlano delle glorie antiche e sanguigne dei Cavalieri dell’Ordine teutonico.

Ed egli, del resto, non fu un artista, ma una legione di artisti; non una creatura di carne e sangue, ma un vulcano in continua ebollizione; non un cittadino di questo mondo, ma un viandante smarrito proveniente da un’altra dimensione: quale, forse non lo sapeva neppure lui.  Magistrato, scrittore, pittore, musicista e critico musicale: egli fu tutto questo ed altro ancora, un sognatore inguaribile, un veggente, un frequentatore di mondi improbabili, eppure vicini, vicinissimi al nostro, quasi confinanti. Le lunghe basette che ne fanno un tipo latino, le guance incavate, i tratti energici e nervosi, lo sguardo perso, le narici fortemente arcuate, i capelli ricci e arruffati, confermano la prima impressione; la piega un po’ amara della bocca, d’altra parte, sembra dire: Che diavolo ci faccio, qui? Come ci sono capitato? Per favore, risvegliatemi. E fa pensare, quella piega, alla particolare idea che, dell’umorismo come fatto letterario, ebbe questo strano scrittore vissuto fra Sette e Ottocento, che sembra precorrere di oltre un secolo le intuizioni di Luigi Pirandello; anzi, sarebbe interessante verificare se proprio da lui non sia stato influenzato l’autore de Il fu Mattia Pascal e di Uno, nessuno e centomila. Per Hoffmann, infatti, che ama passare con estrema disinvoltura dal serio al comico, e dal tragico all’umoristico, praticamente senza sfumature e senza il ricorso ad un climax che prepari il lettore, in senso psicologico, al completo rovesciamento della prospettiva, vi è, nella vita, un elemento comico onnipresente, che si tratta solo di saper scorgere, e dal quale vi è molto, moltissimo da imparare; come se, per suo mezzo, ci venisse donata, nel bel mezzo della nostra esistenza quotidiana, una possibilità di saggezza che, se noi la sapessimo cogliere al momento opportuno, ci spalancherebbe delle prospettive affascinanti, che nemmeno una vita intera passata sui libri sarebbe in grado di offrirci.

Eppure, egli fu tutto, tranne che un bohémienne Se gli sarebbe piaciuto esserlo, e se in certi periodi parve esserlo, questo è un altro discorso: ma è certo che non poteva prendersi quel lusso per davvero. Doveva mantenere se stesso e la moglie, una ragazza polacca sposata dopo aver rotto il fidanzamento con la cugina, e che sarebbe stata il grande amore della sua vita (il che non gli avrebbe impedito di provare una insolita passione per una fanciulla tredicenne, che poi si sarebbe fidanzata e avrebbe sposato un altro, una delle sue allieve di musica: ecco un curioso parallelismo con Edgar Allan Poe); aveva un decoroso impiego statale, quello di rappresentante della giustizia del suo re, Federico Guglielmo III, sovrano "illuminato" quanto si vuole, ma pur sempre assoluto, e, per giunta, proteso a difendere il trono e l’esistenza stessa della Prussia contro la cupidigia napoleonica, impiego che doveva conciliare con la sua tendenza alle bevute con gli amici, alle caricature irriverenti, e agli scandali che inevitabilmente ne derivavano; ed ebbe anche la ventura di vivere e lavorare in uno dei periodi più travagliati e turbinosi nella storia della sua patria, quello delle guerre napoleoniche. E non si deve credere che le vittorie schiaccianti dei francesi, l’umiliazione della Prussia, la rinascita (effimera) della Polonia, infine la Restaurazione, lo lasciassero freddo e distante, perché, nonostante il suo temperamento romantico e appassionato, egli si sentiva realmente tedesco, anzi, prussiano, e, come tale, in quegli anni specialmente, tutt’altro che insensibile al richiamo del nazionalismo: come si vede, fra l’altro, nel fortunato melodramma, o meglio, recita cantata (SingspielUndine, rappresentata a Berlino il 3 agosto 1816, in pieno clima, appunto, di restaurazione e di rivincita del nazionalismo tedesco (non ancora pangermanismo) contro il cosmopolitismo rivoluzionario e illuminista venuto dalla Francia.

La sua vita fu tutta una corsa affannosa da un luogo all’altro, da un impiego all’altro, fra un successo e una delusione, da Posen a Varsavia, da Bamberga a Berlino, sotto il sole e la pioggia, con il calore torrido e la neve, a piedi, su scomode diligenze, lungo strade polverose o sprofondate nel fango: instancabile, indomabile, incontenibile, pronto a rialzarsi dopo ogni caduta, con una tenacia, con una fede nella sua vocazione artistica, che basterebbero da sole a smentire qualsiasi supposizione di un Hoffmann svagato e dilettantesco, fluttuante fra diverse ispirazioni e richiami contrastanti. E tutto questo è ancora più impressionante, se si tiene conto che la sua parabola "magica" di scrittore si consuma nel giro di neppure una decina d’anni. La verità è che pochi uomini seppero perseguire con maggiore linearità, coerenza e fedeltà a se stessi la propria avventura terrena, senza risparmiarsi, senza mai deflettere, senza mai scoraggiarsi (anche fra le più nere difficoltà economiche, come quando venne licenziato a causa dell’invasione francese della Prussia, e, per giorni interni, non ebbe letteralmente qualcosa da mettere nel piatto), gettando tutto se stesso nella lotta per inseguire e catturare quelle immagini di bellezza, quei frammenti di una verità perduta, che è sempre un passo avanti, o forse indietro, ma che pure è lì, lì, vicina, vicinissima, e che basterebbe allungare un braccio, forse, per riuscire a cogliere, dando così un senso più nobile e profondo a tutta la propria esistenza. E che egli sia stato un romantico nel senso più profondo del termine, lo dimostrano, nel mezzo di tanti fantasmi e vampiri, di tanti fatti strani e coincidenze assurde, di tanti incubi e oscure premonizioni, le fuggevoli visioni della donna e dell’amore, che hanno talvolta qualcosa di stilnovistico, di etereo, di angelico addirittura. 

Hoffmann, peraltro, era attratto, si direbbe in maniera ossessiva, quasi morbosa, dalle persone strane, che abbiano, o che mostrino di avere, qualcosa di misterioso, di bizzarro, di grottesco (altra evidente parentela con il nostro Luigi Pirandello). Questo compassato funzionario di Stato, questo magistrato che veniva da una famiglia di avvocati (e di pastori luterani) nutriva un incontenibile bisogno di cercare, sui volti della gente, l’indizio di un qualcosa, di un altrove, di un non so che; e scorgeva, in una maniera di cui si sarebbero ricordati Poe, Puskin, Gogol’, Dostoevskij, ma anche Balzac e Baudelaire, sorrisi complici, ammiccamenti ambigui, sguardi allusivi, come se vivessero e si muovessero in mezzo a noi, gli uomini normali, degli individui provenienti da chissà dove, membri di un gruppo, di una confraternita, o forse di una vastissima congiura, i quali sanno ciò che noi non sappiamo; sanno e sorridono, divertendosi, forse, come ama fare il gatto col topo, e pregustando il momento in cui, quando si sarà stancato di giocare, se lo mangerà in un boccone… Ecco perché il mondo di Hoffmann è sempre sospeso fra lo schizzo divertente e l’incombente catastrofe: è come se, in qualsiasi momento, quando noi memo ce lo aspettiamo, il cielo del teatrino di carta (è sempre un’immagine del buon Pirandello) si dovesse squarciare, e a noi fosse dato contemplare, con uno stupore per esprimere il quale non esistono le parole, e forse nemmeno i concetti, che la realtà vera è completamente diversa da quella, posticcia, che credevamo tale; e che tutto, ma proprio tutto, sta in maniera completamente diversa da come avevamo sempre saputo, o creduto di sapere.

E la cosa più interessante, più caratteristica, più originale, probabilmente, di questo scrittore elusivo, indefinibile, inafferrabile, che si fa beffe dei nostri tentativi di catturarlo, di "fissarlo" in una immagine nitida e precisa, e par che ci sorrida anch’egli, come tanti personaggi dei suoi racconti, con quell’aria ambigua e vagamente canzonatoria, la cosa più originale è che il passaggio della sua scrittura nei regni del fiabesco, dell’improbabile, del soprannaturale, ha inizio sul solido terreno (solido, almeno in apparenza) del verismo, anzi, di un autentico iperrealismo. La tecnica di scrittura di Hoffmann, infatti, è simile a quella di un pittore che si ponga ad una distanza talmente ridotta dal soggetto che vuol rappresentare, da smarrirsi nei meandri dei particolari più piccoli e insignificanti, fino a perdere di vista, perché totalmente sfuocata, l’immagine complessiva; per poi scoprire, di colpo, che proprio dalla perdita dell’immagine complessiva scaturisce una immagine nuova, totalmente differente, che ci rivela la reale natura di quell’oggetto, molto di più e molto meglio di quanto non avremmo mai potuto sperare, né mai saremmo riusciti a fare, se pure ci fossimo imposti di osservarla per ore, per giorni, per mesi ed anni, ma sempre a una distanza irrimediabilmente sbagliata, anche se "giusta" secondo i criteri comunemente ammessi. e, anzi, universalmente raccomandati.

Scriveva, a proposito di questa strana duplicità, la germanista Barbara Allason (Pecetto Torinese, 12 ottobre 1877-Torino, 20 agosto 1968), grande studiosa di Goethe, Schiller, Nietzsche, nella Introduzione al volume da lei curato e tradotto: E. T. A. Hoffmann, Il maggiorasco e altre novelle, Torino, Utet, 1941, pp. 8-11):

Inizialmente l’opera di Hoffmann muove dal verismo, un verismo fondato sull’acutezza dell’osservazione, ma soprattutto sull’originalità trasfiguratrice dell’interpretazione, per cui oggetti, paesaggi, fisonomie e fisonomie di persone sono riprodotti con tratti espressivi e personalissimi. I protagonisti delle sue novelle e le figure accessorie costituiscono una galleria di tipi curiosi che vanno dall’impiegato colla papalina e un romantico cuore in petto, allo studente spiantato, dalla Gretchen sognante su un suo fiore azzurro, alla cantante capricciosa, leggiadra accalappiatrice di uomini; e gli straccioni, gli spostati, gli artisti di tutte le arti, gl’innamorati, gli acchiappanuvole d’ogni sorta vi costituiscono una collana degna di stare a paro con quelle create dai maggiori novellatori.

Così il suo verismo lo conduce alla scoperta del "Wunderliches", cioè dello strano, dell’individuale, del caratteristico, che è uno degli elementi dell’arte sua. L’altro elemento essenziale sarà il "Wunderbare", il fiabesco, il meraviglioso, il soprannaturale. Di questo "meraviglioso" che s’intreccia alla nostra povera piatta esistenza, rialzandone il tono, Hoffmann è stato sempre ossessionato; vi ha creduto, ne ha vissuto, vi ha trovato una consolazione o per lo meno un diversivo all’insopportabile vita "borghese" e "filistea". A questo "Wunderbare" egli arriva attraverso un primo bisogno, che si potrebbe dire un bisogno di stile, è noto a questo proposito quel passo-confessione ch’egli mette in bocca a Berganza [il cane protagonista di uno dei suoi racconti]: "La mia maledetta propensione a dipingere tutto in parole, così chiaro e colorito come sta davanti agli occhi del mio spirito, mi conduce colà dove non vorrei giungere". È dunque la visione allucinante, la visione straordinariamente "chiara e colorita" delle cose che lo induce in un primo senso stuporoso e lo avvia sulla china del fantastico.

Altre volte invece è il "Wunderliche" stesso che lo indice al "Wunderbare": il "Wunderliche" negli aspetti della natura (di cui preferirà sempre i più anormali, i più rari, i più momentanei), il "Wunderliche" soprattutto nelle fisionomie degli individui; e Hoffmann per un pezzo e anche oggi per molti sarà soprattutto il novellatore dei tipi rari, eccezionali e curiosi, dei solitari, dei peripatetici, sarà il sapiente descrittore delle manie, dei tics, dei gesti e degli atteggiamento strani, delle fogge di vestire grottesche. Il principale biografo e studioso di Hoffmann, Giorgio Ellinger, descrivendo i primi impulsi a poetare di quest’uomo, che per tanti anni si è contentato di cogliere il polline da mille fiori e metterlo da parte, dice precisamente: "Nelle strade di Berlino o lungo i viali dei ‘Zelten’ cominciò ad agitarsi in lui quella magica forza che trasformava gli individui strani che lo avevano colpito in creature fatate". È importante segnare questo punto della genesi dell’opera di Hoffmann: nel caos degli individui che egli vede vivere intorno a sé — per la maggior pare comuni, indifferenti, tagliati sullo stesso stampo -. Egli ne cava fuori alcuni che si muovono, parlano, vivono in modo diverso dagli altri, hanno anche facce e gesti e vestiti diversi. Subito Hoffmann ci si appassiona e comincia a lavorare di fantasia. Chi sono e perché agiscono alla rovescia degli altri e non vestono alla stessa foggia, e nascondono un segreto nell’ammiccar degli occhi o nel ‘rictus’ della bocca? Ed ecco Hoffmann, partito su questa traccia, fantasticare finché non ha scoperto la cornice di vicende e di ambienti da collocarvi quell’individuo eccezionale.

Per tal modo Hoffmann si è messo sulle tracce del "Wunderbare", del meraviglioso, che nell’opera sua assume due forme distinte. La prima forma è la forma consolante, beatifica; il regno variopinto delle meraviglie accoglie il fortunato che vi si rifugia contro le asprezze della realtà; talvolta, è vero, Hoffmann si compiace di lasciarci nel dubbio se questo fantastico felicitante mondo sia una realtà o sia soltanto un sogno; quel che è certo è che esso colma di gioie colui a cui è concesso, il quale, per lo più, è un semplice, una creatura misconosciuta e disprezzata, di cui, perciò, tanto più intensa è la vita interiore, la vita-sogno.

La seconda, e forse più frequente, forma di meraviglioso in Hoffmann è quella terrifica: le paure, gli incubi di cui è madre la tenebra, i fantasmi generati dalla notte, dalla solitudine, dal deserto, dagli alti romitaggi. E qui veramente Hoffmann dispiega tutta la pompa della sua fantasia e fa vibrare tutte le corde del soprannaturale-pauroso, arrivando al malvagio, al malsano, al macabro, al diabolico. In certi periodi letterali quel che prevale nell’opera sua è proprio l’analisi e la rappresentazione dell’anormalità e della demenza. Di qui l’importanza enorme che hanno ai suoi occhi i magnetismo, il sogno, il presentimento, l’idea fissa, lo sdoppiamento della personalità; di qui la parte larghissima che egli fa ai fantasmi, ai vampiri, al mondo dei miti, agli automi, ai ‘mediums’, alla tenebrosa potenza del fato.

È così.

L’arte di Hoffmann è di un genere molto speciale; non può essere intesa dai palati grossi, perché non si rivela alla prima lettura, né al lettore frettoloso, o al lettore che, ad un romanzo o a un racconto, chieda innanzitutto di raccontargli una storia. Per Hoffmann, le cose non sono mai ciò che sembrano, e dunque più importante della storia da raccontare è rendersi conto del fatto che noi, forse, non dovremmo domandare dei racconti su ciò che accade, ma imparare a vedere il mondo con occhi nuovi. Se sapremo fare questo, le storie verranno da sole, e senza bisogno della mediazione di una scrittura: sarà la nostra stessa vita a diventare una storia, ciò che, in fondo, essa è sempre stata, senza però che noi ce ne rendessimo ben conto, e senza che sapessimo trarne le necessarie conclusioni. Le conclusioni sono che la vita stessa è una storia, e noi siamo i suoi personaggi, per lo più inconsapevoli; e che se, ad un certo punto, ci destiamo e ci scuotiamo, arriviamo a capirlo, a vederlo, e a vedere… a vedere tutto quel che non avevamo mai visto prima, e neppure immaginato che esistesse, benché fosse sotto i nostri occhi, fuori di noi, e, cosa non meno importante, dentro di noi; ma che non avevamo mai saputo vedere, per il semplice fatto che non ne avevamo neppur sospettato l’esistenza. Altro che storie di fantasmi: forse i fantasmi siamo proprio noi: i fantasmi della nostra stessa vita, nella quale ci aggiriamo inconsapevoli, provocando, forse, ansia e spavento negli altri, proprio come li proveremmo noi, se ci trovassimo al loro posto; e non l’avevamo neanche immaginato…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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