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Gustav Meyrink è uno scrittore espressionista?

Quella di Gustav Meyrink (ma il suo vero nome era, molto più banalmente, Meyer: Vienna, 19 gennaio 1868-Starnberg, in Alta Baviera, 4 dicembre 1932) è una carriera letteraria anomala, così come strana e difficilmente classificabile – poco male; però anche difficilmente comprensibile – la sua produzione narrativa, e per più ragioni. La più cospicua delle quali è che Meyrink era un occultista e un esoterista imprestato alla letteratura; che ha usato la letteratura per spargere, in maniera volutamente enigmatica e reticente, una serie di indicazioni di tipo esoterico, magico e alchimistico, senza tanto curarsi della veste letteraria; e che sia nel suo fortunatissimo romanzo, Il Golem, che si rifà ad una vecchia leggenda ebraica, sia nei meno famosi romanzi La notte di Valpurga e L’angelo della finestra occidentale, sia in una serie di racconti divenuti altrettanto celebri, come La morte violaIl soldato bollente, Il cardinale Napellus, Le piante del dottor Cinderella, ha saputo creare atmosfere oniriche e surreali e delineare personaggi ambigui e sconcertanti, così da sfruttare un filone dell’arte e della letteratura europea, e specialmente mitteleuropea, fra decadentismo ed espressionismo, che in quegli anni aveva suscitato un notevole interesse da parte del pubblico.

Meyrink, in realtà, non aveva l’indole, né la vocazione dello scrittore; aveva fatto studi commerciali e creato una piccola banca a Praga (le altre due città della sua giovinezza erano state prima Amburgo e poi Monaco di Baviera), dove aveva lavorato per una dozzina d’anni, fra il 1889 e il 1902, allorché si vide costretto a chiuderla per insuperabili difficoltà finanziarie; era soltanto un giovane borghese annoiato e inquieto, che non trovava la sua strada nella vita e che, probabilmente, covava un forte disagio per la sua condizione di figlio naturale di un ministro del Wüürttemberg e di un’attrice viennese. Lui stesso racconta, con toni assai melodrammatici, di aver pensato al suicidio, non solo, ma di aver già preso in mano la pistola, quando un evento apparentemente fortuito, la comparsa di un opuscolo sotto la porta, lo avrebbe distolto dall’insano gesto, aprendogli le porte di un mondo inaspettato e a lui del tutto sconosciuto, affascinante, inquietante: il mondo dell’esoterismo, della magia e dell’occultismo. Convinto di aver trovato una ragione per vivere, si era immerso in quel genere di studi e vi aveva dedicato il resto della sua vita; come ebbe a dire, nel corso di un’intervista a un giornalista italiano, tutto ciò che scrisse, da quel momento in poi, non fu che una piccola cosa, un pallido riflesso in confronto a quel che studiava, approfondiva e sperimentava concretamente, e che fu la vera ragione della sua esistenza.

I temi da lui trattati, ma soprattutto le atmosfere delle sue opere, sospese fra il grottesco e l’allucinazione, fra l’insolito e l’assurdo, fra il morboso e il terrificante, si sposavano quasi perfettamente con il clima culturale complessivo che si andava via, via, diffondendo agli inizi del XX secolo, specialmente nell’area di lingua tedesca, ossia quella dei due imperi centrali, la Germania e l’Austria-Ungheria. Questo ha fatto sì che Meyrink sia stato accostato volentieri agli espressionisti, o, comunque, che sia stato riconosciuto come uno dei loro maestri ideali. Gianfranco de Turris, per esempio, vede Meyrink come uno dei possibili ispiratori del capolavoro del cinema espressionista tedesco, Il gabinetto del dottor Caligari, di Robert Wiene, del 1920. E, in effetti, le analogie non mancano, anzi, si direbbe proprio che una stessa atmosfera, una sensibilità molto simile pervada il film di Wiene e un romanzo come Il Golem. Ci chiediamo, però, se basti un facile accostamento fra le pareti sghembe, le scenografie strane e "impossibili" del film tedesco, e le misteriose, un po’ cupe visioni del ghetto di Praga, nel capolavoro di Meyrink, o le altre suggestioni "espressionistiche" presenti nell’opera di questo scrittore (che, sia detto fra parentesi, a torto è stato creduto, per molto tempo, ebreo egli stesso, mentre il solo legame che avesse con il mondo ebraico non era di sangue, ma consisteva nel suo interesse verso la Kabbalah) per parlare di una reale affinità fra Meyrink e il movimento artistico che ha i suoi lontani precursori in Mathias Grünewald e nel pittore El Greco, e il più recente in Vincent Van Gogh, e i massimi esponenti in Oskar Kokoschka, Alfred Kubin, Evdvard Munch, Egon Schiele, Ernst Ludwig Kuirchner e Franz Marc in pittura; Franz Kafka, Gottfried Benn, Georg Trakl, Heinrich Mann e Alfred Döblin in letteratura e poesia (cfr. i nostri precedenti lavori: All’ombra del frassino autunnale sospirano, con quella di Georg Trakl, le anime degli uccisi, e La sofferenza è una parte essenziale della vita o qualcosa che bisogna puntare a eliminare?, pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente il 01/07/2008 il 10/09/2008; La baionetta del russo mi entrava nella carne insieme a una felicità inaudita, il 18/03/2014 [su Kokoschka]; e Georg Trakl canta l’angoscia dell’anima che si sente straniera in una terra desolata, su Il Corriere delle Regioni il 21/04/2015).

Prima di proseguire nel nostro ragionamento, vogliamo riportare il passaggio centrale del saggio di Gianfranco de Turris, cultore del fantastico nella letteratura, intitolato Meyrink tra grottesco e macabro. Temi e simboli dei racconti del 1901-1908 (in: Gustav Meyrink, La morte viola; titolo originale: Der Violette Todt und anderen Novellen, Leipzig, Reclam Verlag, 1913; traduzione a cura di Gienne Books, La Spezia, Libritalia, 2002, pp. 280-283):

… Come dunque non collocare in questo quadro [cioè quello dell’espressionismo letterario e teatrale tedesco] Gustav Meyrink, che, volendo, potrebbe rappresentare l’anima mistica, simbolica, esoterica dell’espressionismo insieme all’amico Alfred Kubin ed (in parte) a Franz Kafka? La sua violentissima satira contro i "valori" conformisti dell’epoca attraverso le storie grottesco-fantastiche che apparvero sul "Simplicissimus", nel periodo 1901-1908 effettuarono un’iniziale "tabula rasa" su cui poi egli realizzò una "pars construens" con i romanzi (e in parte i racconti) più chiaramente esoterici del periodo successivo. Anche il suo ricorso shockante a immagini sanguinose e raccapriccianti è comprensibile, non solo da un punto di vista simbolico (esse sono gli emblemi di una società e di una scienza disarticolate, amorali, materialiste) o ispirativo (il romanticismo "nero" o "gotico"), ma anche con il desiderio di portare alle estreme conseguenze una critica al contingente che si disprezza e nel quale si esteriorizzano le velleità distruttrici più intime e, secondo un tipico metodo espressionista.

Per raggiungere questo scopo Meyrink non poteva non ricorrere al "medium" fantastico-orrorifico, che non soltanto la logica maniera di manifestarsi di certa conoscenza esoterica, ma anche, come nota J. J. Pollet, riferendosi particolarmente alla cosiddetta "Schauerliteratur" (letteratura del brivido) cui si accomunano anche Alfred Kubin e H. H. Ewers, la tipica manifestazione culturale dell’epoca: "essa appare nelle fratture della storia, quando una data cultura sembra priva di senso e indifesa di fronte all’incomprensibile". E qui, gli anni dopo la svolta del secolo, "l’incomprensibile" dal punto di vista di Meyrink, di tanti altri, era quella che sopra è stata definita "la degradazione materialistica dell’esistenza", l’imporsi sempre più soffocante della civiltà industriale, della standardizzazione dei sentimenti, della morte dell’anima, della "paurosa mitologia della macchina, non più creatura ma dominatrice dell’uomo" (Ladislao Mittner). Insomma, quella crisi generale che dopo quasi mezzo secolo di pace porterà alla "finis Europae" e all’implosione di una "Weltanschauung"che, ormai vuota, crollerà su se stessa.

Ecco dunque l’utopia di Perla, capitale dell’asiatico Regno del Sogno che si avvia a disgregazione dopo l’arrivo dell’Americano con i suoi apparati industriali e le sue fermentazioni politiche, descritte con occhi deformati da Alfred Kubin ne "L’altra parte" (1908). E ecco, a conclusione della parabola espressionista, le macchine che si metamorfosizzano in ciclopici mostri che fagocitano gli operai e gli automi che diventano esseri umani in "Metropolis" di Thea von Harbou (1926), dal quale il marito Fritz Lang trasse il film omonimo. Ma già diversi anni prima, nel 1905, Meyrink aveva dato un’immagine espressionista delle strade della vecchia Praga col citato "Cinderella": Dalla nebbia emergeva una casa: le spalle accasciate, la fronte sfuggente, lo sguardo fisso ed esanime dai vuoi abbaini era rivolto su verso il cielo, come quello di un animale morto. Accanto ad essa un’altra si muoveva avida con le finestre luccicanti per dare una sbirciatina laggiù in fondo al pozzo (…). I vecchissimi portoni delle case si mordevano silenziosi le labbra (…). Là nella foschia se ne stava rannicchiata una misera casa, non più larga di due finestre, i muri febbricitanti, malefici". Queste immagini non ricordano forse le scenografie sghembe del primo e più famoso film espressionista, "Il gabinetto del dottor Caligari" di Robert Wiene (120)?

Non si tratta, però, di un esempio isolato. Due anni prima, nel 1903, Meyrink aveva offerto immagini molto simili ne "Il preparato anatomico": ".., questi strani edifici con le loro sculture simili a grumi di sangue coagulato, che riescono sempre ad imprimere nell’animo un’impressione nuova, profonda, indicibile…"; e ancora: "L’edificio solitario sulla sommità del Parco Furstemberg s’appoggiava come un custode morto sulle mura laterali delle scale del castello ricoperte d’erba". E uno dei personaggi della storia commenta: "Non hai anche tu la sensazione che un giorno questa immagine fantomatica possa svanire all’improvviso come una visione, una Fata Morgana, che questa vita assopita racchiusa in se stessa possa risvegliarsi come un animale spettrale e trasformarsi in qualcosa di uovo, di spaventoso? Guarda laggiù quei bianchi sentieri acciottolarti, sono come vene". E un anno prima, nell’antologia "Orchideen" (1904) era compreso "Lacrime bolognesi" dove si può leggere qualcosa di simile: "Le ombre delle ruote e dei cavalli infinitamente lunghe, stranamente deformate, di un grigio viola, guizzavano spettrali nel chiarore dell’alba sulle strade bagnate di rugiada". E ancora in un’altra storia del 1904, "Decadenza": "Negli specchi gli occhi neri si moltiplicano sempre di più fino a coprire le pareti".

È l’inorganico che si trasforma in organico e si anima; è l’architettura che assorbe le sensazioni violente e diviene zoomorfa; sono le strade, le scale, le case, i lampioni, gli ambienti distorti e spezzati dei film che seguirono il capolavoro di Wiene: dalla seconda edizione del "Golem" di Wegener (1920) a "Von Morgens bis Mitternacht" di Martin (1920), "Hintertreppe" di Jessner (1921), "Nosferatu" di Murnau (1922), "Rasolnikow" ancora di Wiene (1923), "Die Strasse" di Grune (1923), "Das Wachsfigurenkabinett" di Leni (1924), sino al citato "Metropolis" di Lang (1926).

"La vicenda narrativa di ‘Das Kabinett des Dr. Caligari", scrive Pier Giorgio Tone, "è il prodotto di una visione allucinata, è il risultato di un’immaginazione che, capovolgendo il livello normale dell’esistere, infrange la razionalità apparente delle convenzioni etico-sociali con la brutalità del gesto patologico e con l’enigmaticità dell’atteggiamento demoniaco. L’evoluzione del racconto proietta infatti la normalità dello spazio-tempo quotidiano in un’atmosfera arcana satura di occultismo e di mistero, sottesa di rimandi onirici e premonizioni sconvolgenti (…). In questo capovolgimento totale dei valori, in questa interrelazione incessante dell’organico e dell’inorganico, l’universo fantasmatico di ‘Das Kabinett des Dr. Caligari" si definisce come espressione della disgregazione della razionalità…".

I punti di riferimento tra certi racconti di Meyrink e il film di Wiene sono tanti che si potrebbe pensare (ma ne mancano le prove) ad un’ispirazione diretta del regista ai personaggi dello scrittore e — quasi – a una derivazione di Caligari da Daraschenkoh: si pensi agli uomini ridotti a marionette, all’uso dell’ipnotismo, all’atmosfera incerta fra incubo e realtà, e così via. Comunque, ciò che più conta è la deformazione del reale sotto la spinta del soggettivismo dei personaggi, quella "proposta tipicamente espressionista di superamento della naturalità fenomenica nell’interiorità della visione" che accomuna linguaggio letterario e cinematografico.

Pur apprezzando una serie di analogie e di parallelismi colti dal bravo de Turris, restiamo poco persuasi del fatto che esista una reale affinità di fondo tra Meyrink e gli espressionisti, e ciò per una considerazione di carattere generale, in fondo abbastanza scontata (ma, come capita delle cose scontate, non sempre a tutti evidente): e cioè che gli espressionisti, esaltando l’aspetto emotivo della percezione della realtà, deformano quest’ultima e giungono, non di rado, ad una contestazione, a una denuncia, ad una ribellione contro di essa, mentre nulla di questo vi è al fondo dell’animo di Meyrink, bensì la volontà di padroneggiare il sapere esoterico e occultistico, come nuovo alfabeto per penetrare verso l’essenza segreta del reale.

In altre parole: gli espressionisti odiano il mondo "borghese", dominato dalle convenzioni e caratterizzato da rapporti sociali inautentici; detestano le macchine, l’urbanizzazione, la civiltà industriale, la società di massa; vogliono dischiudere una finestra sulla realtà "altra", quella degli stati d’animo, delle emozioni, dei frammento cui si riduce la vita dell’io, un io sempre più volatile e privo di consistenza, sempre più artificiale, sempre più illusorio; vogliono denunciare le forzature, le finzioni, le ipocrisie, le menzogne dell’ordine fasullo su cui si regge la società; ma non hanno una proposta costruttiva da fare: sono pieni di amarezza, di sofferenza, di angoscia, di sinistri presentimenti, di incubi che — a loro giudizio, si stanno trasformando in realtà. Essi sono in polemica e in rivolta contro l’efficientismo, il razionalismo, l’utilitarismo; detestano e aborriscono l’architettura Sachlich, funzionalista e oggettivista, e, in genere, detestano il nuovo volto delle città europee, dominato dalla quantità, dalla frenesia, da un produttivismo esasperato e dalla ricerca spasmodica del profitto; simili a dei romantici smarritisi al di fuori del proprio tempo, vagheggiano il primato dell’interiorità, del sogno, della fantasticheria, dell’evasione dal mondo concreto. In questo senso, Il gabinetto del dottor Caligari è veramente emblematico: non è soltanto l’opera più significativa del movimento, ma è anche il grido di angoscia e di spavento di una generazione che ha smarrito per via tutti i suoi ideali, tutte le sue certezze, e che si vede chiusa in un vicolo cieco, senza speranze, senza uno spicchio di cielo azzurro che rompa l’opprimente pesantezza del paesaggio.

Il mondo di Meyrink, con tutto ciò, presenta delle analogie solamente esteriori. Per Meyrink, il mondo possiede realmente un ordine razionale, solo che esso è celato alla vista, e, per gettarvi uno sguardo, bisogna penetrare oltre la superficie, oltre le apparenze, oltre le convenzioni: bisogna lasciarsi andare nel vortice dell’occulto; non a caso, però, come facevano i decadentisti della prima generazione, ma con rigore, metodo, scientificità. L’occultismo è una scienza, possiede delle leggi, ha delle regole che vanno rispettate, e con le quali non è ammesso scherzare; non si tratta di un passatempo, come lo è, per una certa borghesia, più curiosa e annoiata, che sinceramente affascinata dal mistero delle cose, il tavolino a tre gambe per le sedute spiritiche. L’esoterismo è una vera conoscenza filosofica del mondo, e l’occultismo è la via maestra per carpirne i segreti e per volgerli a proprio favore, esattamente come insegnavano i vecchi trattati di magia (e non è certo un caso che a far conoscere Meyrink al pubblico italiano sia stato soprattutto uno studioso di occultismo come Julius Evola, che ne tradusse diverse opere). Il suo modello è l’eroe che osa sfidare le forze nascoste per strappare ad esse il dominio sulle cose, come volle fare l’occultista e mago rinascimentale John Dee, al quale s’ispira il romanzo L’angelo della finestra occidentale, o come vollero fare Teofrasto Paracelso, Agrippa di Nettesheim, Giovanbattista Della Porta, Girolamo Cardano e non pochi altri, Bruno e Campanella compresi. Pertanto, si può dire che Meyrink, nonostante le apparenze, è essenzialmente un uomo del Rinascimento, pieno di fiducia in se stesso, anzi, un vero mago rinascimentale smarrito in pieno XX secolo; che, come i suoi illustri predecessori, è animato dalla fede di poter esercitare un controllo sulle forze della natura (e quindi è un figlio del positivismo più che del simbolismo, cosa che non è in contraddizione con la sua conversione al buddismo negli ultimi anni della sua vita). Esattamente il contrario dello stato d’animo e dell’atteggiamento fondamentale degli espressionisti di fronte alla realtà.

I quali, semmai, si chinano con dolente partecipazione sul mistero della sofferenza e dell’angoscia umana, proprio come aveva fatto il loro grande precursore, Vincent Van Gogh: il quale non voleva dominare nulla e nessuno, ma "soltanto" penetrare fino al cuore misterioso delle cose, amandole e facendosi quasi parte di esse, fino ad annullarsi deliberatamente per poterle accogliere, le più grandi e le più piccole: la notte pullulante di stelle e un misero paio di scarponi da lavoratore, posati a terra come per riposare dalla fatica quotidiana di vivere.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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