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Jack London, un lupo del mare che se ne infischia dell’altalena della critica politically correct

È da più d’un secolo che i signori critici, questa encomiabile consorteria di servi e imbecilli politically correct, sudano e si affaticano per stabilire se sia possibile applicare sull’epigrafe di Jack London una etichetta che risulti presentabile e perbene; ed è da altrettanto tempo che il loro sudore viene spremuto invano, perché quel ragazzaccio, anche a cent’anni dalla morte, si rifiuta energicamente e ostinatamente di render loro il favore di starsene fermo e buono, e lasciare ch’essi facciano quel che vogliono della sua opera e della sua memoria. Come un modello refrattario a qualunque vestito, Jack il terribile non vuol saperne di collaborare, cioè di lasciarsi addomesticare; deve ancora nascere il critico letterario che riuscirà a prenderlo al laccio e a schiaffarlo sulla pagina con una etichetta definitiva. Che farci?, è più forte di lui: quando quei tali signori credono quasi d’esserci riusciti, d’avergli legato la targhetta con le loro precise indicazioni, ecco che quel pessimo soggetto, autodidatta dalle mani callose, reduce da cento mestieri e da cento avventure, giunto al successo venendo su dal nulla, solitario come un vero lupo di mare e sognatore come un autentico ribelle, sfugge loro sotto il naso, s’impenna come un puledro selvatico, scalcia e sgroppa alla disperata, finché non li fa ruzzolare in terra tutti quanti, uno dopo l’altro, dal più delicato fino al più ostinato, cioè al più appiccicoso.

Vorrebbero qualificarlo, una volta per tutte (se non altro, per tenerlo buono dietro una teca di cristallo, in qualche museo dei fossili) come uno scrittore "socialista": forse che lo stesso Jack London non si diceva e non si considerava tale? E non aveva tanto a cuore la sorte dei lavoratori manuali, degli operai, le loro condizioni di sfruttamento; non era forse il loro paladino, il difensore degli sfruttati, di coloro che si spaccano la schiena nelle fabbriche o nelle miniere, per far arricchire gli altri, i capitalisti? E non era un mezzo anarchico, imbevuto della lettura di Proudhon, una testa calda, un rivoluzionario, un vendicatore dei disoccupati, dei poveri, degli emarginati? Certo che lo era. Ma poi ecco che saltano fuori quelle sgradevoli idee darwiniane o peggio, diciamo pure un po’ razziste; ecco che da qualche suo romanzo o racconto, da qualche suo articolo di giornale (ne ha scritti così tanti: era giornalista di professione, reporter durante la guerra russo-giapponese del 1904-1905; ed ebbe il torto, o il merito, d’essere uno dei primi a riconoscere il "pericolo giallo"), vengono fuori certi giudizi, certe "sparate", da far impallidire non solamente il superuomo di Nietzsche o l’uomo bianco dal pesante fardello di Kipling, ma anche De Gobineau e Lothrop Stoddard, se non perfino Houston Stewart Chamberlain. L’uomo bianco di qua, la forza bruta di là, e le razze inferiori in basso, all’ultimo gradino, prese a calci nel sedere come meritano, per la loro viltà e barbarie, da qualche piantatore bianco, da qualche intrepido colonizzatore, solo contro centinaia di melanesiani: e allora ecco che il santino di sinistra si squaglia come neve al sole. E allora come si fa a classificare socialista e progressista, uno così? Certo, credeva nel progresso; però aveva ben vivo anche il senso del mistero, tanto è vero che si è cimentato persino nei romanzi di fantascienza. Difensore dei deboli e degli sfruttati? Degli sfruttati, sì; ma dei deboli, no di certo, se per debole s’intende gente che sa solo piangersi addosso. E poi, diciamo la verità: difensore dei lavoratori, sì, ma con la pelle bianca. Le razze di colore, per lui, devono solo lavorare e obbedire: al servizio dei bianchi. Non per niente, durante il ventennio mussoliniano, i suoi libri hanno goduto di un momento d’oro nelle librerie, anche se non troppo amati dai critici, e sono stati presi a modello d’intrepidezza fascista, del vivere pericolosamente nietzschiano (e dàlli) e un po’ dannunziano: stile Luciano Serra, pilota. Insomma, una bella confusone; vacci a capir qualcosa!

Ci eravamo già occupati, a suo tempo, del vero e proprio rompicapo letterario rappresentato da Jack London, almeno per quanti vogliono ad ogni costo affibbiargli una precisa etichetta ideologica, che sia per giunta politicamente corretta, o quasi (cfr. il nostro articolo La visione del mondo di Jack London era socialista oppure razzista e brutalmente darwiniana?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/12/2008, e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 12/01/2016). Non vogliamo, perciò, insistere oltre su quest’argomento, ma, piuttosto, dare un rapido sguardo alle insormontabili difficoltà che uno scrittore come lui oppone alla smania dei critici di classificare tutto e di catalogare ogni autore ed ogni opera, secondo gli schemi consueti di "destra" e "sinistra", di "buono" e "cattivo", di "amico" e "nemico".

Tornando a leggere uno dei suoi primi e più bei romanzi – che, guarda caso, la critica ha particolarmente snobbato, relegandolo fra le sue cose meno interessanti; mentre è, a nostro avviso, un piccolo gioiello -, Il lupo del mare, pubblicato nel 1904 – quasi una anticipazione della navigazione a vela che poco dopo egli avrebbe compiuto, avventurosamente, con la seconda moglie Charmian Kittredge, fra le isole allora quasi inesplorate dei Mari del Sud -, ci siamo imbattuti in una sintetica ma efficace Prefazione che accompagna l’edizione della Casa Editrice Longanesi, e che, pur non essendo firmata, ci sembra di poter attribuire ragionevolmente non alla traduttrice, Amy Coopmans de Yoldi (il cui vero nome era Emma Claudia Pavesi), bensì a quel geniale, vigoroso scrittore e promotore culturale che è stato Mario Monti (Milano, 1925-1999), per un quarto di secolo o poco meno, dal 1956 al 1979, il direttore editoriale di quella storica casa, nonché l’ideatore della più fortunata collana di tascabili economici, I Libri Pocket, che misero a disposizione del pubblico italiano dal portafogli leggero, al prezzo stracciato di 350 lire ciascuna, centinaia di opere letterarie di ogni Paese, traducendole dalle più diverse lingue, e sia pure opere di diseguale valore artistico o speculativo (perché accanto ai romanzi, non pochi erano i saggi storici e filosofici, sia classici che contemporanei).

Ebbene, in quella Prefazione abbiamo trovato bene espressi, e senza inutili fronzoli e pennacchi, i concetti essenziali del discorso sulla fortuna letteraria di Jack London, coi suoi continui alti e bassi, che tanto cruccio e disagio hanno provocato ai signori della casta culturale dominante, e che qui vogliamo in parte riportare (da: Jack London, Il lupo del mare; titolo originale: Sea Wolf; traduzione dall’inglese di Amy Coopmans de Yoldi, Milano, Longanesi & C., 1972, pp. I-III):

In tutti [i romanzi di Jack London] riconosciamo facilmente l’impronta del "genio popolare" allora di moda che certamente contribuì all’enorme successo del’autore dentro e fuori d’America, ma che, adesso, ci appare come una delle sue pecche più gravi, quella che, assieme allo stile prolisso e trascurato, dovuto alla fretta della composizione, "vizia" anche le sue pagine migliori.

La reputazione del London diminuì subito dopo la prima guerra mondiale grazie alle continue critiche. Queste non gi furono risparmiate neppure da noi, anzi, come spesso succede nel nostro paese, furono rincarate fino all’esagerazione. I cosiddetti saggisti si mistero in gara con i "mostri dell’elzeviro" per dire peste e corna dello scrittore, appena si scoprì che egli non era "grande", non era "originale" come sembrava a tutta rima. I critici trovarono riferimenti (adoperiamo la parola meno crudele) dell’opera sua con quella del Kipling e del Conrad. Essi infuriarono in tutti i modi sul povero americano che ai loro occhi aveva avuto il grande torto di scrivere libri venduti con successo. Ignoravano che non si poteva parlare più di cere creature del London senza diventar noiosi dopo che un autentico avventuriero, vissuto nel Klondike per molti anni, aveva messo in burla con tanto spirito e con tanto brio i "superuomini" e i "supercani" del Nord "Selvaggio". E dimenticavano che uno dei maggiori critici della letteratura americana, Carl Van Doren, oltre ai difetti certe doti del London: il genuino interesse nella natura, la grande esperienza di vita, l’innegabile coraggio nell’affrontare certi temi e certe questioni, il punti di vista talvolta discutibile ma sempre consistente, qualità tutte che si tir trovavano raramente nella narrativa americana del primo novecento.

resto, tutti i giudizi, tutte le chiacchiere sulle "fonti d’ispirazione", su quell’"evoluzionismo" biologico e filosofico che faceva tanto scalpore tra i nostri dotti, su quella "aria di anarchico da strapazzo" che sembrava tanto ridicola a chi non aveva nulla in cui credere erano superati dalle parole semplici e chiare dello stesso Van Doren a proposito di Jack London:

"I suoi protagonisti, siano lupi o cani o pugilatori o marinai o avventurieri, hanno pressoché gli stessi istinti e segiuono quasi tutti la medesima "carriera". Si sollevano dall’anonimità con una serie di lotte disperate,allo stesso modo ottengono la supremazia sugli altri e più tardi la perdono sconfitti da qualche nemico più forte. Il London, con la forza del forte, esulava dalla lotta per la vita. Vedeva la stria umana nei termini del dogma dell’evoluzione; questo gli pareva glorioso, gli appariva come un’epica continua in cui i suoi racconti rappresentavano degli episodi. E ambientava i suoi scritti nei luoghi in cui la lotta per la vita poteva essere più evidente: nelle solitudini selvagge dell’Alaska, su qualche remota isola del Pacifico, sulle navi in alto mare separate da ogni legge civile, nelle comunità industriali durante gli scioperi, nei bassifondi delle città, nei raduni dei vagabondi".

Abbiamo tolto il brano da "The American Novel" senza mutare una virgola perché ci sembra che contenga tutto quanto c’è da dire sullo scrittore. Da aggiungere c’è soltanto il fatto che il London rimane l’unico tra i narratori della corrente naturalista americana, come Garland e Norris, che non sia mai stato dimenticato dal pubblico. L’interesse per lui è sempre vivo, ne testimoniano le continue edizioni dei suoi libri, l’attenzione che gli prestano tuttora i più abili produttori del cinema non ancora stanchi di tradurre sullo schermo i suoi romanzi e le sue novelle. Senza dubbio, la maggior parte di essi presenta una freschezza che permette loro, fosse soltanto come scritti d’avventura, di sopravvivere.

Tutto vero. Resta solo da precisare che Jack London non è uno scrittore "vitale" solo perché continua a piacere al pubblico, superando pressoché indenne — cosa che accade solo a pochissimi — i maggiori sconvolgimenti che la storia moderna abbia prodotto: le guerre mondiali, i totalitarismi, la bomba atomica, la guerra fredda, la caduta delle ideologie, una rinnovata crisi economico-finanziaria di portata planetaria, la globalizzazione; anche se ciò, senza dubbio, è un consistente indizio a favore. Ma Jack London è uno scrittore vitale soprattutto perché va alla radice dei problemi della vita; e, anche se non sempre le sue analisi sono condivisibili, anche se non sempre la sua pagina è convincente sul piano letterario (ma anche dei grandissimi, come Balzac e Dostoevskij, scrivevano troppo e troppo in fretta, a scapito della bella forma!), il suo sguardo coglie d’istinto, con la sicurezza dello scrittore di razza, il nocciolo delle questioni.

La sua visione darwiniana di una lotta incessante per l’auto-affermazione non è certo l’elemento più originale della sua opera: in forme diverse, lo si ritrova in Verga e D’Annunzio, in Svevo e Tozzi, solo per restare in casa nostra; ma si potrebbero citare anche Hemingway e Dos Passos, Hamsun e Loti, Cendrars e Steinbeck. Ciò che è interessante, e originale, è il fatto che gli eroi di London, pur condividendo tale filosofia, sono anche capaci di assumere il punto di vista dell’altro, di colui che non vince, di colui che soccombe, e ciò ancor prima di diventare, loro stessi, dei soccombenti. Sicché sono eroi scissi e divisi, ma non alla maniera dei vari Proust, Kafka, Mann, Pirandello, Musil, nei quali l’eccesso d’introspezione e l’inettitudine alla vita che ne risulta, nascono da una debolezza e da una irresolutezza di fondo; bensì, paradossalmente, per un eccesso di forza e di vita. London proietta sui suoi eroi la sua stessa natura impetuosa, onnivora, generosa fino all’estremo: quella di un uomo che vuol provare tutto, sperimentare tutto, capire tutto, abbracciare l’insieme del fenomeno vita, nella sua globalità, e dunque anche nel suo limite antagonistico, la morte. La segreta attrazione per la morte percorre sotterraneamente tutta l’opera di questo scrittore robusto, testardo, intransigente nella sua tensione verso la verità. Non è una natura capace di contentarsi dei compromessi: proprio come Martin Eden, il suo personaggio più scopertamente autobiografico (ma lo sono tutti, in realtà), non sa che farsene della finzione, delle mezze verità, delle pietose bugie. Ed è troppo virile per un mondo di falsità e ipocrisie erette a sistema; troppo virile per il nuovo tipo di donna, emancipata ma pur sempre civetta, anzi, di quella particolare civetteria costruita sull’emancipazione: non è un caso che siano così rari gli amori felici e le figure di donna che siano vere compagne di vita per l’uomo nell’opera di quest’avventuriero moderno, malato di malinconia…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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