
Lo scenario del controllo totale: un codice a barre sottocutaneo, applicato a ciascun individuo
18 Febbraio 2017
Zenta, 11 settembre 1697: il tremendo capolavoro di Eugenio di Savoia
19 Febbraio 2017Quel profumo di canali, di chiatte, di nebbia nella geografia onirica del commissario Maigret

Esiste, per ogni scrittore degno di questo nome — e dunque esclusi i mestieranti e gli scrittori commerciali, interessati unicamente ad inseguire il consenso del pubblico — una particolare geografia ideale, fatta dei luoghi prediletti, ove si svolgono le vicende dei loro personaggi. Per fare un semplice esempio: nel caso di Alessandro Manzoni, questa geografia ideale si incentra nella zona del lago di Como, che non solamente fa da sfondo, ma partecipa al particolare clima affettivo de I promessi sposi; si pensi, per fare solamente pochi sotto esempi, alla celebre descrizione del lago, di notte, e dell’addio che gli rivolgono, mentalmente, Renzo, Lucia e Agnese, al momento della loro partenza inattesa e sconsolata; alla pagina in cui viene descritta la valle ove sorge il castello dell’Innominato, o quella in cui si narra il passaggio dell’Adda da parte di Renzo; o a quella in cui viene descritta la vigna di Renzo, rimasta incolta e abbandonata dopo la sua fuga precipitosa dalla casa natia.
Esiste poi, per ogni scrittore, la particolare geografia dei sogni fatti dai personaggi delle loro opere, sogni che svolgono, in qualche modo, direttamente o indirettamente, una funzione nel contesto della vicenda. Un esempio molto chiaro è dato dallo scrittore H. P. Lovecraft e dal suo racconto, uno dei migliori usciti dalla sua penna, I sogni nella casa stregata (The Dreams in the Witch House), nel quale i sogni del protagonista, lo studente Walter Gilman, finiscono per intrecciarsi in maniera inquietante con la realtà, in un crescendo sempre più allucinante, e, alla fine, terrificante. Ma i sogni dei personaggi ricorrono in molte altre opere narrative, anche classiche, come il romanzo in versi di Aleksandr Puškin, Eugenio Onegin, con il celebre e drammatico sogno di Tatjana, l’eroina dell’opera, carico di tristi presentimenti. Potremmo citare moltissimi altri esempi, comprese la Vita Nuova di Dante e parecchie opere di Boccaccio, ma in esse l’ambientazione e il paesaggio hanno poca importanza rispetto alla vicenda.
Infine esiste, per ogni scrittore, quella che potremmo definire la sua geografia onirica: la sua, non quella dei suoi personaggi, né, meno ancora, quella sognata dai suoi personaggi, ma proprio quella che egli "sogna" ad occhi aperti, quando parla dei luoghi, anche senza avere alcuna particolare intenzione fantastica, anzi, sovente proprio quando egli pensa di fare una descrizione quanto mai oggettiva e realistica. Eppure, proprio il fatto di ambientare le sue storie in certi luoghi piuttosto che in altri; di adoperare certi colori della tavolozza, piuttosto che altri; di scegliere certe ore del giorno, certe stagioni dell’anno, di prediligere (col ritornarvi sovente, anche in storie affatto diverse) certi luoghi, certi paesaggi, certe prospettive, certi angoli, certi squarci, ora urbani, ora campestri, ora montuosi, ora marittimi, ora affollati, ora solitari, eccetera, tradisce una sua segreta inclinazione, una sua nostalgia, un legame speciale che lo tiene avvinto a una particolare geografia, "onirica" non nel senso di sognata, nel significato comune della parola, ma bensì vagheggiata, e magari vagheggiata in maniera solo parzialmente cosciente. Una geografia, per giunta, che può anche non essere il riflesso, più o meno fedele, di quella reale, bensì rispecchiare dei ricordi d’infanzia, più o meno vaghi e fantasiosi; esprimere delle sensazioni, come direbbe Leopardi, piuttosto vaghe e indefinite; insomma, essere il frutto assai più di fantasia, che di esperienze concrete; più di cose vagheggiate o immaginate, che di cose viste e vissute.
Si domanderà come possiamo affermare che siffatta geografia è parzialmente inconscia; come possiamo dire, con tanta sicurezza, che lo scrittore è solo in parte consapevole di riversare sulla pagina scritta dei materiali che in parte controlla con una precisa selezione e un atto della volontà, ma che, per un altro verso, gli sfuggono sulla penna senza che egli li abbia deliberatamente cercati, o evocati, o comunque si voglia definire l’atto della creazione artistica — atto quanto mai elusivo e misterioso, e, con buona pace dei critici di tendenza realista e positivista, necessariamente avvolto da un fitto velo di tenebra, che neanche l’indagine razionale più rigorosa e severa riuscirà mai ad illuminare sino in fondo, sino al cuore inafferrabile da cui esso scaturisce. La risposta è che, ad un lettore attento e partecipe, dotato di sufficiente sensibilità e di un acuto spirito d’osservazione, non sfugge il particolare interesse con cui uno scrittore si sofferma su certi particolari dei luoghi, o vi ritorna, o con cui li trasfigura, li abbellisce, li accarezza, vi indugia amorevolmente, o, al contrario, vi si sofferma con un senso di angoscia e di raccapriccio; così come ad un buon osservatore non sfugge la tonalità con cui una persona sta parlando, o il suo modo di gesticolare, o, soprattutto, la luce del suo sguardo, mentre parla o anche quando tace, sicché da tali osservazioni gli è possibile ricavare un vero e proprio ritratto psicologico del suo interlocutore. La differenza tra le due situazioni è che, mentre le impressioni che si ricavano da un colloquio con una persona in carne ed ossa sono vive, dirette, immediate, ma anche fuggevoli, e, comunque, non ripetibili, le impressioni che si ricavano dalla pagina scritta sono sempre, necessariamente, di secondo livello rispetto alla realtà, però, in compenso, la pagina scritta è lì, rimane, non fugge via, ed è possibile leggerla e rileggerla innumerevoli volte, sino a prender nota del più piccolo dettaglio, della sfumatura più rapida. Un terzo caso sarebbe quello dell’opera cinematografica, che presenta caratteri intermedi fra le due situazioni, quella immediata del rapporto umano, e quella mediata della pagina scritta; sta di fatto che il critico cinematografico può rivedere più volte il film, può scoprire, in tal modo, delle cose che alla prima visione, o alla seconda, gli erano sfuggite; può perfino fermare le immagini, tornare indietro, togliere o rimettere l’audio, eccetera, per scandagliare e vivisezionare, se ne ha il desiderio, la pellicola in questione, onde strapparle tutti i suoi segreti, e fare in modo che nulla sfugga al suo occhio indagatore.
Si dirà che questo metodo, per cogliere la geografia onirica di uno scrittore, non è scientifico. Lo confermiamo senz’altro: quello relativo alla scientificità della critica letteraria è un mito di cartapesta, non vi abbiamo mai creduto e speriamo che, ormai, passata la sbornia della stagione neorealista e di tutto il retroterra "marxista" e verista ad essa sotteso (e sarebbe ora! siamo l’ultimo Paese, in Europa e nel mondo, ad essersi attardato in tali chimere), non ci creda più nessuno, posto che già in troppi ci hanno creduto quando il vento della cultura soffiava in quella direzione. Ma attenzione: dire che la critica letteraria non è una questione scientifica, non equivale a dire che il critico può dire qualsiasi cosa, sulla base del suo estro e della sua intuizione; l’intuizione deve essere sostenuta dalle osservazioni precise, da una lettura puntuale del testo, e l’estro diventa una virtù, invece di un difetto, solo se è funzionale alla messa a fuoco, ragionata e ragionevole, di un quadro d’insieme che, diversamente, risulterebbe sfuocato e incompleto. Non è vero che la pagina di uno scrittore parla da sola; o meglio, parla, sì, ma rischia di parlare in tante, troppe lingue diverse, tanti quanti sono i suoi lettori: di conseguenza, per uscire dal vicolo cieco del soggettivismo estremo, non vi è che la sensibilità, particolarmente dotata e allenata, del critico, il quale non deve "riscrivere" il testo, ma renderlo accessibile al pubblico, proprio come fa il critico musicale: con modestia, ma anche con audacia e, se occorre, con una certa quale spregiudicatezza. (Un altro problema ancora è quello della traduzione dell’opera in altra lingua; problema talmente arduo e complesso, che, in questa sede, ci permettiamo di tralasciarlo.)
Un buon esempio di geografia onirica è dato dai romanzi che Georges Simenon ha dedicato alla figura del commissario Maigret, da noi già altra volta considerata (cfr. l’articolo Quel commissario così solidamente borghese che finiamo per amare anche nostro malgrado, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/03/2010, e ripubblicato su Il Corriere delle Regioni il 12/03/2015). Si direbbe che, fra i vari luoghi in cui ambienta la vicende del suo eroe, Simenon abbia una particolare predilezione per quelli della Francia settentrionale, per le nebbie del Nord, per i cieli grigi, oppure tempestosi, ma comunque vasti e spazzati dal vento; per la stagione invernale, e più ancora per la vasta rete di canali navigabili che percorre le ampie pianure, per il mondo delle chiatte, dei barconi, dei rimorchiatori, delle maree, delle chiuse, delle dogane, e per la varia umanità dei marinai che vivono a bordo di tali imbarcazioni, non di rado con le mogli e con l’intera famiglia, per le loro abitudini, per la loro mentalità, per i caffè e le osterie che amano frequentare. C’è tutto un gruppo di romanzi ambientato in una siffatta cornice; e non vi sono dubbi che, in essi, l’autore ha riversato — ovviamente, trasfigurandola con la fantasia — una esperienza diretta, fatta specialmente nel 1928, quando viaggiò in lungo e in largo per i canali della Francia, dapprima a bordo della chiatta Ginette e poi del cutter Ostrogoth. Senza dimenticare che Simenon non era francese, ma belga (di Liegi, dove era nato il 13 febbraio 1903; sarebbe morto a Losanna il 4 settembre 1989), anche se di lingua francese: il che spiega la sua predilezione per i paesaggi del Nord della Francia (e, talvolta, del Nord dell’Europa, ad esempio per la Finlandia); mentre in quelli mediterranei si direbbe che il commissario Maigret non si trovi del tutto a suo agio, lui così massiccio, con il suo cappottone, con la sua pipa inseparabile, lui uomo del Nord che, sotto il sole dardeggiante e le sedie a sdraio di una spiaggia della Costa Azzurra pare terribilmente smarrito e fuori posto, tanto da mettersi velocemente al riparo di un ombrellone, vestito di tutto punto, anche se con l’aria di volersi concedere un meritato riposo "ufficiale".
Ecco come Simenon descrive il paesaggio di Givet, paese del dipartimento delle Ardenne, al confine col Belgio, sulle sponde della Mosa, ove la prolungata alta marea ha bloccato in porto tutte le imbarcazioni (da: Simenon, Maigret nella casa dei Fiamminghi; titolo originale: Maigret chez les Flamands, 1933 [in realtà, 1932]; traduzione dal francese di Elena Cantini, Milano, Mondadori, 1933, 1977, pp. 14-16; 31-32; 37-38; 41):
Non erano più in città. Erano ornai nella zona del fiume, dei battelli, della dogana, dei noleggiatori. Qua e là una lampada elettrica accesa in pieno vento. Dei panni sbattevano su una chiatta. Alcuni ragazzini giocavano nel fango. "Il suo collega è vento anche ieri da noi e ci ha detto, da parte del giudice istruttore, di tenerci a disposizione della Giustizia… È la quarta volta che frugano dappertutto, perfino nella cisterna…"
Stavano arrivando. La casa dei Fiamminghi acquistava contorni più netti. Era una grossa costruzione, sulla riva del fiume, nel luogo in cui le imbarcazioni si facevano più numerose. Nessuna casa intorno. Il solo edificio era la dogana belga, fiancheggiata da una bandiera tricolore.
"Se vuole entrare…"
C’erano sui vetri della porta alcune réclames di certi prodotti per pulire l’ottone. Un campanello squillò.
E, fin dalla soglia, si era accolti dal calore, da un’atmosfera indefinibile, quieta, sciropposa, nella quale prevalevano gli odori. Ma quali odori? C’era una punta di cannella, una nota più forte di caffè macinato. Un’atmosfera dalla quale emanava anche odore di petrolio, ma con un sottofondo di ginepro.
Una lampada elettrica, una sola. Dietro il bancone di legno dipinto di scuro, una donna con i capelli bianchi e un corpetto nero, che parlava in fiammingo con una barcaiola. E quwt0ultima aveva un bambino tra le braccia.
"Vuole venire di qua, signor commissario…"
Maigret aveva avuto il tempo di vedere gli scaffali strapieni di merci. Soprattutto, aveva notato, alla fine del banco, una parte ricoperta di zinco e della bottiglie con dei beccucci di stagno che contenevano acquavite.
Non aveva il tempo di fermarsi. Un’altra porta a vetri, ornata da una tenda. Stavano attraversando la cucina. Un vecchio era seduto in una poltrona di vimini, proprio contro la stufa.
"Di qua…"
Un corridoio più freddo. Un’altra porta. E improvvisamente si trovarono in una stanza inattesa, per metà salotto e per metà stanza da pranzo, con un pianoforte, un violino, un pavimento di legno tirato accuratamente a cera, mobili confortevoli e riproduzioni di quadri sui muri.
"Mi dia il suo cappotto…"
La tavola era apparecchiata: una tovaglia a quadri, posate d’argento, tazze di bella porcellana. […]
Maigret si era fermato davanti ai battelli sui quali lasciò errare lo sguardo. Givet, grazie alla piena, che interrompeva la navigazione, aveva l’aria di un grande porto. C’erano numerose chiatte del Reno, di un migliaio di tonnellate, tutte d’acciaio nero. Accanto a loro le chiatte di legno del nord sembravano dei giocattoli verniciati.
"Bisognerà che mi compri un berretto!", brontolò il commissario che doveva trattenere con la mano la sua bombetta.
"Che cosa le hanno raccontato? Che sono innocenti, naturalmente!…."
Bisognava parlare ad alta voce, a causa del rumore del vento, Givet, a cinquecento metri, non era che un gruppo di luci. La casa dei Fiamminghi si stagliava contro il cielo in burrasca e mostrava delle finestre illuminate da tenui luci. […]
Ed era strano, guardare dalla città, cioè dal ponte che costituiva il punto centrale di Givet, la casa dei Fiamminghi. Si era in una città francese. Piccole strade. Caffè pieni di giocatori di biliardo o di domino. Odore di aperitivi all’anice e una gran familiarità.
Poi quel tratto di fiume. L’edificio della dogana. Infine, m, al limite con la campagna, la casa dei Fiamminghi: la drogheria zeppa di merci; il piccolo banco per i bevitori di ginepro; la cucina e il vecchio marito rimbecillito nella sua poltrona di vimini attaccata alla stufa; la stanza da pranzo e il piano, il violino, le sedie comode, la torta fatta in casa. Anna e Marguerite, la tovaglia a quadri, Joseph, alto, magro e malaticcio che arrivava in motocicletta in un’atmosfera di ammirazione e consenso generale.
L’Hotel de la Meuse era un albergo per viaggiatori di commercio. Il padrone riconosceva tutti. Ognuno aveva il proprio tovagliolo. […]
E Maigret, rimasto solo, appoggiò i gomiti alla finestra, ricevendo in viso il vento della valle, vedendo la Mosa precipitarsi verso la pianura, scorgendo da lontano una piccola luce elevata: la casa dei Fiamminghi.
Nell’ombra un gruppo confuso di battelli, di alberi, di fumaioli, di pennoni.
L’"Etoile Polare" in testa…
Uscì riempiendo la pipa, rialzò il collo di velluto del cappotto e il vento era tale che, nonostante la sua molte, fu costretto a irrigidirsi per resistere.
Come sempre in Simenon, l’attenzione dello scrittore non si fissa mai sul paesaggio per una pagina intera, in una descrizione completa: qua e là sgorgano degli squarci, egli dipinge delle rapide pennellate; ed è necessario metterle insieme, collegarle, allinearle, per tranne un quadro d’insieme. Eppure qualcosa vi resta sempre fuori; non tutto è stato detto, non tutto è stato catturato sulla pagina: s’intuisce che c’è dell’atro. Ed è questa la caratteristica della poesia. Per tale via giungiamo alla conclusione, solo apparentemente paradossale, che questo scrittore di gialli; che questo scrittore dallo stile veloce, nervoso, aderente alle cose; che questo scrittore minimalista, per quel che riguarda la dimensione esteriore della realtà, è, a ben guardare, un poeta, e che nei suoi romanzi polizieschi vi è assai più poesia che in certi poeti sdolcinati, che scrivono proprio in versi, come il tanto (troppo) lodato Prévert. Una caratteristica analoga, del resto, si riscontra anche in un altro famoso scrittore del genere poliziesco, Gilbert Keith Chesterton, il creatore del personaggio di Padre Brown; non la si riscontra, invece, in Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes. E, secondo noi, è l’aver compreso questa dimensione poetica, e sia pure implicita, del creatore del commissario Maigret, che ha consentito ai registi della serie Maigret, prodotta dalla rete televisiva Dune (in collaborazione con Antenne 2, con la Televisione della Svizzera Romanda e con quella belga), e interpretata dall’attore Bruno Crémer, tra il 1991 e il 2005, di ottenere il massimo dell’efficacia spettacolare nella trasposizione dalla pagina scritta al piccolo schermo. Lo stesso non si può dire, a prescindere dalla bravura dell’attore Gino Cervi, per la serie televisiva italiana Le inchieste del commissario Maigret (1964-1972), troppo focalizzate sulla storia poliziesca in se stessa; cosa del resto inevitabile, non tanto per l’assenza del colore, bensì per l’approssimazione, per non dire l’inesistenza, delle riprese in esterno, il che riduce la vicenda alle dimensioni di un dramma teatrale, tutto basato sulla psicologia dei personaggi.
Grave fraintendimento: perché ormai la critica letteraria più qualificata si è definitivamente orientata nel senso di vedere nell’opera di Simenon una revisione del genere poliziesco in senso stretto, basata appunto sull’interesse per la realtà umana, per il dramma dei protagonisti, assai più che sulla storia in sé e per sé, ossia sullo scioglimento dell’intreccio mediante la rivelazione del colpevole e la vittoria della giustizia. Tanto è vero che in certi casi, come appunto in Maigret et les Flamands, il commissario, pur avendo individuato il colpevole dell’assassinio della povera Germaine Piedboeuf, o meglio, la colpevole, ossia la giovane Anna Peeters, rinuncia ad assicurarla alla giustizia, un po’ perché la sua non era una inchiesta ufficiale, ma solo ufficiosa, e un po’ perché era stato chiamato, in via privata, appositamente per scagionare i Peeters, e non gli parrebbe giusto, essendo venuto in veste di amico, mettere la corda al collo dell’elemento più valido della sfortunata famiglia. Si toglie, però, prima di ritornare a Parigi, la soddisfazione di far confessare l’orgogliosa Anna; e poi, qualche anno dopo, rincontrandola, di sapere da lei che il delitto commesso è stato inutile, perché la felicità che doveva scaturirne per il fratello Joseph (legato a Germaine dalla nascita indesiderata di un figlio, mentre era fidanzato con la cugina Marguerite Van de Weert) non è mai arrivata. E non è un caso isolato: anche in altri romanzi Maigret preferisce fare finta di nulla, una volta resosi conto che la giustizia istituzionale non corrisponde del tutto a un senso di giustizia intima, umana, che egli avverte fortissimo. Maigret ha un codice morale tutto suo: cercare la verità ad ogni costo, ma non accanirsi mai contro i poveri diavoli (e senza peraltro cadere nel pietismo o nel populismo a buon mercato).
Si rileggano gli squarci poetici presenti all’inizio del romanzo: quel fiume in piena; le luci della cittadina che si perdono nella nebbia; il vento della sera; i barconi e i rimorchiatori fermi lungo il fiume; la luce che brilla in lontananza, della casa dei Fiamminghi; e quel grappolo "di alberi, di fumaioli, di pennoni", che è un vero e proprio quadro impressionista, tratteggiato in una mezza riga di testo scritto, e quasi fatto intravedere al lettore, più che dipinto a tutto tondo. Perché le impressioni non si possono dipingere, e nemmeno scrivere: solo i poeti (e i musicisti) possono provare ad esprimerle. Simenon, qui, è un po’ poeta, e quelle impressioni cerca non di farcele vedere — cosa impossibile — ma intuire, e quasi annusare. Annusare? Ma sì. Quella sferzata di vento freddo, che quasi porta via la bombetta di Maigret, e lo costringe a rattrappirsi sotto le raffiche: non porta forse l’odore di catrame, di legno bagnato, di salmastro? Possibile? Odore di salmastro sulla Mosa, a così tanti chilometri dal mare? Già: perché proprio questa è la magia dei poeti: essi sanno evocare quel che non si vede, quel che non c’è, ma di cui il cuore avverte l’acuta nostalgia. Il mare, il Mare del Nord, è lontano; ma il fiume che corre verso di esso, è come un piccolo mare in anticipo, come una sentinella penetrata nell’ampia pianura: e porta con sé proprio quell’odore, quel profumo, quei ricordi, lievi come un sogno, impalpabili come le bolle di sapone che fanno sognare i bambini…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels