
«Egli andrà fin dentro il tempio di Dio, si metterà in trono con la pretesa di essere Dio»
15 Gennaio 2017
Ma è compito della Chiesa cattolica fare il tifo per la democrazia?
16 Gennaio 2017L’essenza del secolarismo è l’edonismo. L’edonismo consiste nel cercare, nell’esigere, dalla vita solo cose belle e buone, o meglio, solo cose piacevoli e gratificanti. È un veleno sottile che già aveva portato al collasso la civiltà antica, facendola sprofondare nell’abbrutimento e nel vizio; tenuto a freno dalla civiltà medievale, con la sua visione spirituale e cristiana della vita, con il suo modello perenne del Cristo che ama l’umanità sino a morire per essa, è tornato a far capolino con l’umanesimo, ha preso forza nel rinascimento, è diventato arrogante con la rivoluzione scientifica e infine, a partire dall’illuminismo, ha preteso di ergersi al rango di unica religione legittima: quella della felicità umana.
Oggi siamo immersi pienamente nella palude dell’edonismo; i giovani, i bambini, sono quotidianamente bombardati dai suoi messaggi deliranti, ossessivi, attraverso la televisione, la rete informatica, la pubblicità multimediale. L’edonismo parte da un tacito presupposto: che la vita sia degna di essere vissuta, che sia tollerabile, che sia soddisfacente, solo se le gioie, le soddisfazioni, i piaceri, predominano sulle tristezze, sulle sconfitte, sui dolori. Non si prende la briga di volerlo dimostrare: lo dà per scontato. Ma è quello il suo tallone d’Achille: perché, se si arriva a comprendere che si tratta di una premessa erronea, allora l’edonismo crolla, e deve cedere il passo ad una visione più matura e più seria della vita. Matura e seria è una visione che tenga conto della totalità del fenomeno "vita"; ossia che arrivi a comprendere come non sia realistico, e neppure saggio, pretendere dalla vita solo cose buone, e rifiutare tutto il resto come se fosse una disgrazia, o un inganno, o un errore. Né disgrazia, né inganno, né errore: i lati "difficili" della vita possiedono un significato; sono prove, ma prove miranti alla nostra elevazione, non al nostro avvilimento. Avvilirsi per una prova esistenziale è cosa che dipende dal modo sbagliato in cui ci si pone, dall’incapacità di comprendere il linguaggio in cui essa si esprime.
Che cosa dovrebbe dire una madre alla quale è nato un figlio down? Che il destino le ha giocato uno scherzo cattivo, che la vita le ha fatto un tiro mancino? Che c’è stato un errore, che c’è stata una ingiustizia? Tale sarebbe la reazione di chi non ha capito che l’edonismo è una filosofia sbagliata, perché vorrebbe che la vita ci desse sempre e solo cose piacevoli e gratificanti. Non si dovrebbe dire: "cose buone": perché le cose diventano buone o cattive a seconda dello spirito con cui le viviamo: la cecità, per esempio, è una cosa cattiva se vissuta solo come privazione della vista e come impossibilità di godere della gioia che deriva dal vedere; ma per colui che, non avendo più la luce degli occhi, impara a "vedere" con gli occhi dell’anima, e ad arricchirsi con la scoperta della realtà interiore, per costui la cecità non è una cosa cattiva, al contrario, è la scoperta della dimensione più profonda, e dunque anche più vera, del reale.
Potremmo fare molti altri esempi, sia ricordando situazioni gravi, sia citando casi quotidiani e apparentemente banali della vita. Perdere il treno, essere bocciati ad un esame, venire delusi da un amico, essere abbandonati dalla persona amata: tutte queste esperienze "negative" saranno veramente tali per noi solo se non sapremo utilizzarle per crescere, per comprendere, per maturare. Forse si è trattato di altrettante fortune, ma noi non abbiamo saputo vederle. Forse dobbiamo imparare a guardare un po’ meglio, sia fuori che dentro di noi. Le cose non sono sempre come appaiono di primo acchito: nel dolce si può nascondere il veleno, e nell’amaro potrebbe esserci la rivelazione di una dolcezza inaspettata.
Dicevamo che l’essenza del secolarismo è l’edonismo. Noi viviamo in una società quasi totalmente secolarizzata, cioè in una società che, rimuovendo perfino i segni esteriori della religione, per non offendere" la sensibilità laica dei cittadini, vive totalmente immersa in un orizzonte immanentistico, nel quale l’edonismo appare come la sola filosofia possibile di vita. Rifiutare la logica dell’edonismo sembra non un’altra opzione possibile, ma una forma di disturbo mentale, di pazzia, se non peggio: una denigrazione deliberata e malvagia del così fan tutti, sul quale si basa il totalitarismo democratico e demagogico oggi imperante. Chi rifiuta la logica dell’edonismo, quindi, non è solamente un disturbato, è anche un pericolo pubblico. Una madre che sceglie di far nascere suo figlio, affinché egli possa vivere, anche se sa che il parto le costerà la vita, viene ammirata da pochi; per i più, il suo gesto appare, nel migliore dei casi, incomprensibile. Un giovane che rifiuta un invito sessuale, perché non prova nulla per quella ragazza, oppure, al contrario, perché la stima troppo per prenderla così, con superficialità, come una prostituta, ebbene quel giovane si comporta in un modo che il mondo non capisce, perché il mondo dà per scontato che ogni occasione di piacere vada colta all’istante, senza dubbi o ripensamenti; che vada colta sempre e comunque, perfino nel caso in cui il desiderio non ci sia, o sia molto piccolo. Proprio come il bambino viziato che non sa resistere al richiamo della torta, e ne mangia un’altra fetta, anche se è sazio e il solo pensiero della crema gli provoca un senso di nausea. E che dire di un importante personaggio degli affari o della politica, il quale non si riempia le tasche con il denaro altrui, quando potrebbe farlo senza temere conseguenze, tanto più che tale sembra essere la tacita legge del mondo degli affari e di quello della politica? Verrà considerato non solo un pazzo, ma un individuo pericoloso, perché il suo "strano" comportamento potrebbe costituire un cattivo esempio…
La secolarizzazione, a sua volta, è l’approdo naturale della modernità. La modernità è il concentrato dell’atteggiamento edonistico, utilitaristico, opportunistico, secondo il quale la vita merita di essere vissuta solo negli aspetti che rendono qualcosa, che producono un utile, che danno un piacere. Ci sia consentito un rapidissimo excursus storico. L’idillio, topos letterario ben noto ai greci e ai latini, riappare nell’umanesimo, di cui rappresenta uno dei tratti caratterizzanti: I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino, di mezzo maggio, in un verde giardino, canta Angelo Poliziano; e l’utopia è uno dei generi letterari più caratteristici del rinascimento, da Moro a Campanella. Ebbene: che cosa rappresentano l’idillio e l’utopia, se non una evasione dal mondo e dalla vita reali, evidentemente giudicati insoddisfacenti e intollerabili? L’utopia appartiene a un genere letterario più "radicale" dell’idillio: l’idillio è una idealizzazione e una stilizzazione della realtà, l’utopia è la proiezione del reale in un luogo che non esiste, in una realtà "altra". Ora, il rinascimento rappresenta il culmine dell’umanesimo: dunque, se dall’idillio si passa all’utopia, ciò significa che quanto più l’uomo moderno approfondisce le premesse umanistiche del nuovo paradigma culturale ed esistenziale, tanto più vi trova infelicità e angoscia, e tanto più desidera evaderne, fuggire. Viceversa, nel medioevo non si trovano né l’idillio, né l’utopia. Bisogna dedurne che la vita dell’uomo medievale era più facile di quella dell’uomo del XIV, XV e XVI secolo? Mai più: è innegabile che la vita dell’uomo medievale fosse più dura, molto più dura, di quella dei secoli successivi. E allora? E allora vuol dire che la vita non viene percepita come tollerabile o intollerabile in base a dei fattori oggettivi e materiali, ma in base alla capacità degli uomini di "interpretarla" in senso positivo o negativo.
L’uomo medievale conduceva una esistenza molto dura, però non era né frustrato, né angosciato, nella misura in cui lo è, invece, l’uomo dell’età umanistica e rinascimentale (per non parlare della nostra, che è figlia di quelle): e questo perché l’uomo medievale non si nutriva di aspettative esagerate e illimitate, né viveva solo in funzione di esse, bensì aveva un forte senso del legame generazionale. L’uomo medievale (e, in genere, l’uomo della società pre-moderna; per cui ciò vale a descrivere anche i nostri nonni o bisnonni) piantava alberi per i suoi nipotini. Sapeva che non lui si sarebbe seduto all’ombra dei rami, ma piantava ugualmente l’albero, pensando ai suoi figli e a i suoi nipoti. Tale era la sua concezione della vita: non si vive solamente per se stessi, né ci si può aspettare di vedere subito i frutti del proprio lavoro e dei propri sacrifici. Se le sue modeste aspettative non si realizzavano, si rassegnava; del resto, confidava in Dio; pensava che tutto ciò che accade risponde a una necessità superiore, e che tale necessità deve essere per forza benevola, perché viene dall’amore di Dio.
L’uomo moderno si inquieta e si arrabbia se non vede subito i risultati dei suoi sforzi; si ritiene in diritto di raccogliere, sempre e in breve tempo, là dove ha seminato, e, sovente, anche là dove non ha seminato. Che altro è la smania d’investire il risparmio in fondi speculativi più o meno rischiosi, se non la pretesa di raccogliere quel che non si è seminato, cioè di fare del denaro senza aver lavorato, senza aver faticato, senza aver dato? E tutta l’economia moderna si basa su questa assurda pretesa. Naturalmente vi è differenza fra le manovre speculative di una grande banca o di un grande istituto assicurativo, e quelle di un piccolo risparmiatore o di un pensionato; ma è una differenza più che altro quantitativa: nella sostanza, l’atteggiamento mentale è assai simile, per non dire identico. Questo spiega l’enorme bolla di sapone in cui si è trasformata l’economia moderna: non si producono più beni durevoli, si offrono servizi; e, in cima alla piramide dei servizi, c’è l’offerta di pezzi di carta che dovrebbero rappresentare il denaro, anche se non nascono dal lavoro, ma dal nulla: pezzi di carta il cui valore dovrebbe aumentare così, da se stesso, per una qualche forma di magia, quella forma di magia (nera) che è il gioco speculativo, in quel tempio satanico che è la Borsa: sintesi e compendio di tutta la negatività maligna, di tutto il parassitismo e il vampirismo, di tutta la cialtroneria e la menzogna di cui è intessuta la modernità.
Gira e rigira, si torna sempre lì: al mistero della sofferenza. Davanti alla sofferenza, si può fuggire o restare. Se si fugge – e tale è l’edonismo: una fuga (compresi l’idillio e l’utopia), un rifiuto e una ribellione davanti alla sofferenza presente nella vita – si finisce per covare una segreta disperazione, che, pur non espressa, o meglio, proprio perché non espressa, condiziona negativamente tutta l’esistenza. Si è sempre inseguiti: inseguiti da qualcosa che arriverà fatalmente, a cui non si può sfuggire per sempre: la vecchiaia e la morte. Se si resta, se la si affronta, se la si guarda negli occhi, forse si scoprirà che proprio nella sofferenza, misteriosamente (e per questo diciamo che essa è un mistero, nel senso teologico della parola), si cela il segreto per una vita più felice: nell’accettazione integrale della vita, gioia e dolore, giovinezza e vecchiaia, primavera e inverno. Ecco, allora, che la nascita di un figlio down cessa di essere solamente una disgrazia, e diventa una occasione di elevazione e anche di felicità: la felicità di dare amore a una creatura che ne ha bisogno, e che, a suo modo, lo sa ricambiare.
Il grande segreto della saggezza, dunque, è quello di capire che la vita è un tutto, e che, per raggiungere la serenità e, forse, la felicità (una parola grossa, quest’ultima, che usiamo con molta cautela e quasi con il timore di banalizzarla), bisogna accettarla e accoglierla nella sua totalità, senza la puerile pretesa di potersi sbarazzare dei suoi aspetti faticosi o dolorosi: perché la fatica serve a rafforzare la volontà, e il dolore serve a crescere, beninteso se lo si sa trasportare su di un livello superiore di esistenza: quello dove dire di sì a Dio, dire Sia fatta la Tua volontà, non la mia, dischiude orizzonti prima impensati di armonia e completezza.
Del resto, tutto ciò è conseguenza di quel che si pensa che l’uomo sia. Se si pensa che sia una creatura evoluta a caso, su di un pianeta a caso, senza uno scopo, senza un perché, e destinato a scivolare nel nulla con la morte, allora è chiaro che l’edonismo appare come una filosofia pratica piuttosto ragionevole, quasi scontata. Che altro si dovrebbe mai fare, in questo caos che chiamiamo vita, se non cercare di scansare le cose fatico seme dolorose, e afferrare avidamente tutte le cose attraenti e piacevoli che incontriamo lungo il cammino? Ma se la vita non è questo, se il reale non è questo; se noi non siamo qui per caso, se non veniamo dal caso e non andiamo verso il nulla; se la nostra esistenza è unica, preziosa, infinitamente cara a Dio (al punto da aver voluto farsi uomo e aver voluto soffrire e morire per amor nostro), allora le cose stanno in tutt’altro modo. Allora la cosa più ragionevole da fare non è scansare in ogni modo fatiche e sofferenze, e cercar di afferrare ogni possibile piacere e gratificazione, ma imboccare con serietà e coerenza la strada che ci porterà a diventare quel dobbiamo essere: creature consapevoli, luminose, che tornano a quel Dio dal quale sono state create, per l’abbraccio dell’eternità, insieme a tutti i loro cari che sono andati avanti, oltre la soglia della morte. La quale, a quel punto, non ci farà più paura; non sarà lo spauracchio angoscioso dal quale fuggire, ma la porta d’accesso alla nostra seconda nascita: quella per l’eternità.
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio