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14 Gennaio 2017La malattia della modernità consiste nel rifiuto della sofferenza, malattia, vecchiaia e morte

Verrà un tempo, forse prima di quel che non si creda, in cui la modernità sarà considerata da tutti, e in primo luogo da medici, psichiatri e guide spirituali, per quel che realmente è: una malattia della mente e del cuore, una patologia gravissima, una perversione dell’ordine naturale. E la perversione consiste in questo: che l’uomo moderno, per una strana forma di accecamento, di superbia e di rifiuto della sua condizione creaturale, non accetta quattro aspetti necessari e ineliminabili della sua condizione: la sofferenza, la malattia, la vecchiaia e la morte. Per qualche strana forma di aberrazione mentale e spirituale, egli è convinto che si tratti non già di cose assolutamente naturali e ineliminabili, ma di altrettante ingiustizie, di altrettante ignobili violazioni dei suoi diritti personali e riconosciuti, di altrettante aggressioni maligne e ingiustificate, contro le quali egli si considera impegnato in una guerra permanente, una guerra in cui pensa di avere la giustizia dalla sua e che egli, comunque, è convinto di poter vincere, alla fine.
1. La mancata accettazione della sofferenza è già di per sé un indice eloquente di quanto l’uomo moderno sia malato, tendenzialmente instabile e schizofrenico: avendo scoperto gli analgesici, pensa di essere vicino alla vittoria e non s’interroga mai se la sofferenza, quando è inevitabile, non possa portare dei significati positivi; se non possa avere un valore redentivo; o, almeno, se non possa essere vista come una occasione di perfezionamento spirituale, per non parlare del suo significato come puro e semplice sintomo di un male, e, dunque, della sua estrema utilità per individuare quei mali di per sé non evidenti, ma comunque pericolosi.
Prendiamo il caso di un banale mal di testa. L’uomo moderno vuole semplicemente che il mal di testa se ne vada il più preso possibile, magari entro cinque minuti, perciò si affretta a prendere un’aspirina. Non gl’interessa capire di che cosa quel mal di testa sia una spia, perché non considera che ogni sofferenza è un messaggio che il suo corpo gli invia per richiamare la sua attenzione. Se quel male di testa sia dovuto a un’indigestione, e quindi vada "letto" come un invito ad essere più moderato nel mangiare e nel bere, oppure se sia dovuto allo stress, e quindi il suo organismo lo stia ammonendo a non sovraffaticarsi ulteriormente, tutto ciò non lo riguarda, gli è sconosciuto: per lui, una volta eliminati i sintomi, è eliminato anche il problema, che è quanto lui desiderava, né più, né meno. Inutile dire che questo modo di porsi rispetto alla propria sofferenza gli rende impossibile approfondire la conoscenza di sé, e lo porta a reiterare incessantemente comportamenti sbagliati, tanto sul piano fisico, che su quello relazionale, affettivo, esistenziale.
In altre parole, l’uomo moderno si comporta come un bambino viziato: vorrebbe, della vita, solo la parte piacevole e gratificante, e reagisce indispettito o incollerito davanti a ciò che disturba la sua pace e il suo "diritto" a stare bene. Come un bambino viziato, pesta i piedi e si arrabbia se qualcosa o qualcuno gli provocano sofferenza; e lo fa anche quando è lui stesso il solo ed unico responsabile del suo male. Se guida l’automobile in modo spericolato, e poi ha un incidente, se la prende con gli altro, o con la strada, o col destino; se fuma due pacchetti di sigarette al giorno e poi è afflitto dalle malattie respiratorie, se la prende con l’inquinamento, con il medico, con il mondo intero; se si comporta in modo egoistico, possessivo e forse anche violento nelle sue relazioni affettive, e poi viene lasciato, si ritiene vittima di persone ingrate, che lo hanno usato e gettato, che gli hanno rovinato la vita, e matura un profondo rancore verso di esse; e così via. Non impara mai nulla, non riflette, non si guarda mai dentro: gli riesce più facile puntare il dito contro qualcun altro; narcisista com’è, come potrebbe rivolgerlo contro se stesso?
2. La malattia lo spaventa, e non ha quasi fatto in tempo a capire di essere malato, che già parte in guerra contro la sua malattia. Siccome ha fatto dei progressi enormi nel campo della medicina e della scienza, e riesce a sconfiggere e debellare malattie che, un tempo, non concedevano scampo, ne ha tratto la convinzione che qualunque malattia può essere individuata e sconfitta, e che, di conseguenza, eliminare la malattia dal suo orizzonte esistenziale è un obiettivo non solo auspicabile, ma anche realistico. Se sono state sconfitte la peste, il vaiolo, il tifo, la lebbra, la tubercolosi, la scabbia, perché mai non potrebbe essere sconfitta, una volta o l’altra, la malattia in quanto tale? Se le malattie sono come un esercito che assedia l’uomo da ogni parte e lo minaccia nella sua salute, nel suo diritto a star bene e a godesi la vita, non è forse logico immaginare che, quando l’ultimo battaglione di questo esercito sarà stato mitragliato, bombardato, debellato, di esso non resterà più nulla, e la malattia entrerà nel vocabolario dei ricordi d’un passato che non ritornerà mai più, nel cimitero delle cose perdute e sepolte per sempre?
Qui, più che altrove, si vede quanto la mentalità quantitativa, tipica della scienza moderna, specialmente della scienza galileiana, abbia portato l’uomo fuori strada e gli abbia annebbiato il cervello. I successi della sua medicina gli hanno dato alla testa: ha perso il senso della misura, non vede più ciò che vedrebbe anche un bambino: ossia che, per quante malattie egli possa sconfiggere, l’una dopo l’altra, non arriverà mai il tempo dell’ultimo combattimento e dell’ultima vittoria, perché la malattia è legata indissolubilmente alla sua condizione creaturale. L’essere umano è un organismo, o, almeno, si sostiene su di un organismo: e non esistono organismi che non vadano soggetti a una qualche forma di degrado, d’imperfezione, di logoramento, che prendono l’aspetto di questa o quella malattia. Ma le singole malattie, sommate insieme, non fanno ancora la malattia: quand’anche fosse debellata l’ultima malattia, altre, di nuove, comparirebbero; perché non è pensabile un organismo che non si ammali mai, che goda della salute perpetua. A maggior ragione un organismo come quello dell’uomo moderno, che conduce una vita estremamente innaturale, che moltiplica i suoi comportamenti nocivi e che non riflette, né impara mai nulla dalle sue esperienze, ma attende ogni speranza di guarigione da un intervento esterno, quello dei farmaci, o, nei casi più gravi, dei raggi, della chemioterapia o della chirurgia.
Del resto, siamo ben lontani dall’aver debellato tutte le malattie. Il fatto che i tumori continuino a mietere vittime, che colpiscano ormai anche i bambini e gli anziani, e che decenni di ricerche e di ingenti finanziamenti nel campo della ricerca antitumorale non abbiano portato a niente, non sembra avere scosso, né modificato in misura sostanziale, l’atteggiamento dell’uomo moderno di fronte alle malattie. Nemmeno il moltiplicarsi delle disfunzioni e delle patologie psichiche sembra aver prodotto in lui una salutare riflessione al riguardo. Certo, con l’uso massiccio dei farmaci chimici, la psichiatria sembra aver posto un freno agli effetti devastanti delle depressioni e di altre malattie dello stesso genere; ma, di nuovo, si tratta di vittorie, peraltro parziali e superficiali, riportate sui sintomi e non sulle cause scatenanti delle malattie. Imbottire il paziente di psicofarmaci può essere una terapia necessaria in casi estremi, ad esempio per prevenire il suicidio o comportamenti autolesionistici, ma non ha risolto un bel nulla sul piano eziologico. Alla domanda: perché è insorta questa patologia?, si direbbe che non sia stata rivolta una sufficiente attenzione; si è preferito eliminare i sintomi, come al solito, cioè concentrarsi sulla parte più "facile" del problema. Ma il problema rimane, in tutta la sua drammaticità e urgenza.
3. Per quel che riguarda la vecchiaia, l’atteggiamento dell’uomo moderno ricalca in buona misura quello dell’uomo classico, il greco e il romano; e ciò, storicamente, si spiega con il fatto che i prodromi della modernità sono nell’umanesimo, e l’umanesimo è un ritorno alla classicità. L’uomo moderno, dunque, vive sotto l’incanto della giovinezza: la giovinezza è, per lui, un valore assoluto, quasi extra-temporale, così come la vecchiaia è un disvalore assoluto, che nulla potrebbe mai redimere. Di conseguenza, l’uomo moderno vive nell’obbligo di essere e di sentirsi perennemente giovane; cosa che non va molto d’accordo con le leggi della natura, secondo le quali ogni organismo è soggetto ad un processo di graduale e irreversibile invecchiamento. Ma, come nel caso della malattia, la tecnica e la scienza moderne hanno trovato il modo di "ingannare" il problema congelando, fino a un certo punto, i processi degenerativi delle cellule; e, quando ciò non è possibile, ha "scoperto" che è possibile, e relativamente facile, procedere alla sostituzione pura e semplice di quelle parti del corpo che più risentono del processo d’invecchiamento, sia a livello superficiale, cutaneo, con la cosiddetta chirurgia estetica, sia a livello profondo, con il trapianto di organi. Il risultato è un una crescente "artificializzazione" del corpo umano, fino al raggiungimento di esiti sconcertanti, sia sul piano estetico, sia su quello etico. Una signora settantenne che si rifà il seno, il viso, il sedere, e ottiene di contraffare l’aspetto di una ventenne – non senza, però, che la cosa diventi sempre più imbarazzante sul piano estetico, specialmente dopo due, tre o quattro successivi interventi – finisce per acquistare un aspetto artificiale, grottesco, repellente. E ciò, sempre per la stessa ragione: il rifiuto della vecchiaia e dei suoi effetti visibili. Nel caso dei trapianti di organi, sorge la domanda se un essere umano che sopravvive con un cuore di babbuino, o grazie a qualche altro organo artificiale, sia ancora ciò che era in origine, ossia un prodotto della natura e della grazia, o se non sia diventato una mostruosa creatura post-umana. È quasi impossibile decidere che cosa, o meglio chi, sarebbe un essere umano, se venisse realizzata con successo la tecnica del trapianto di cervello, o della sostituzione dell’intero sistema nervoso centrale.
Come nel caso della malattia, si è passati gradualmente da una legittima ribellione contro gli effetti evitabili, e più sgraditi, dell’invecchiamento, ad un rifiuto totale, isterico e irragionevole, della vecchiaia in quanto tale. Non c’è nulla di male, evidentemente, nel voler combattere le rughe, o la cellulite, o nel voler sostituire i denti guasti con la dentiera, o nel ricorrere ad un apparecchio acustico per porre rimedio alla sordità; il punto è che l’uomo moderno, preso dall’entusiasmo, e soprattutto dall’orgoglio, per i suoi successi tecnici, ha smarrito ogni senso del limite ed è arrivato alla conclusione, assurda e pericolosa, che la vecchiaia può essere combattuta e vinta, solo perché egli è in gradi di eliminare, o meglio di rendere invisibili, alcuni dei suoi effetti più evidenti. Ma c’è una bella differenza tra nascondere gli effetti ed eliminare le cause. Le cause della vecchiaia sono insite nella dimensione naturale dell’organismo umano; e, più in generale, nella condizione creaturale degli esseri umani. La vecchiaia c’è perché c’è un corpo. Se la si potesse eliminare, non ci sarebbe più un corpo, ma una macchina: senza contare che perfino le macchine sono soggette alle leggi fisiche dell’usura della materia.
4. La morte è il nemico più temuto, quello che riempie l’uomo moderno di angoscia e di rabbia impotente, al punto da non volerla neanche nominare, per quanto possibile. La morte è stata bandita dal campo visivo e percettivo degli uomini moderni: fin da bambini, essi vivono in un mondo nel quale ci s’imbatte difficilmente nello spettacolo della morte. Sì, la morte è estremamente presente nel cinema, alla televisione, nei fumetti, nella letteratura: ma si tratta di una morte parodiata, banalizzata, irrealistica; di una morte "finta", che ha precisamente la funzione di nascondere quella "vera". In un mondo totalmente immanente, totalmente (anche se arbitrariamente) razionalizzato, reso più che mai efficiente e invitante, la morte è la beffa suprema, l’ironia delle ironie. Perché mai l’uomo dovrebbe cogliere tanti successi, godere di tanti piaceri, inebriarsi di tante vittorie, se poi deve perdere tutto e scende nella tomba, come qualunque altra creatura vivente? La morte gli ricorda di essere sempre e solo una creatura, per quanto perfetta rispetto alle altre; gli ricorda di partecipare all’essere, ma di non avere l’essere in quanto tale: insomma, di dover fare i conti con Dio, dopo tutto, nonostante tutti i suoi sogni di onnipotenza; o, altrimenti, con il Nulla. Preso nella stretta fra trascendenza e nichilismo, l’uomo moderno, molto coerentemente, ha scelto il nichilismo. Con ciò stesso, però, si è condannato all’inferno: all’inferno già qui, sulla terra, perché infernale è una vita che viene dal nulla e corre verso l’annullamento totale, rendendo futili e vani tutti i suoi sogni, i suoi sforzi, i suoi desideri e i suoi timori. È il regno della pazzia: e questo spiega perché la malattia mentale dilaghi sempre più; e dilaghino comportamenti aberranti, irragionevoli, violenti, distruttivi e autodistruttivi. Preso nella spirale infernale della sua angoscia e del suo terrore della morte, l’uomo moderno rifiuta l’unica speranza che ha davanti, quella di riconoscersi creatura e di rivolgere un pensiero al suo Creatore; e s’intestardisce ad inseguire mete impossibili, la più folle delle quali è la sconfitta della morte. Ibernazione, clonazione, fecondazione artificiale… e che altro?
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