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Bontà e retta coscienza son tutto ciò che Demetrio Pianelli può opporre al suo destino di vinto

Il mondo di Emilio De Marchi (Milano, 31 luglio 1851-ivi, 6 febbraio 1901) è dominato dalla labilità delle cose, dal tempo edace che nulla risparmia, e da una diffusa grettezza e insensibilità umana, che aggiunge la nota dolorosa a quella malinconica di un mondo già di per sé poco amico dell’uomo. Da esso traspare una visione pessimistica, che non lascia molto spazio alla speranza e ancor meno alla gioia; un mondo dove molto è il patire e poco il godere, e dove non sono i buoni e i giusti che riescono a raccogliere i frutti del loro lavoro e dei loro sacrifici, ma gli altri, ossia gli egoisti, quelli di pochi scrupoli e di nessuna sensibilità; gli avari, gli ipocriti, i perbenisti all’ingrosso. E tuttavia, non è un mondo del tutto privo di luce; mancano i momenti di autentica gioia, di vero abbandono, questo è vero, però mancano anche gli estremi opposti della crudeltà e dell’aberrazione: prevale, in complesso, un tono medio tendente al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione; se pure non è assente il delitto, come nel caso del barone di Santafusca, protagonista de Il cappello del prete, si tratta più di disgraziati che di malvagi, e più di un concorso di circostanze sfortunate che di malvagità fredda e deliberata.

De Marchi, insomma, non conosce l’idillio, anche perché non conosce la tragedia; il suo mondo è un piccolo mondo provinciale (anche se ambientato nella metropoli lombarda), un po’ angusto, un po’ chiuso, un po’ opaco, dove non s’incontrano grandi passioni e forti sentimenti, o, almeno, se forti sentimenti vi sono, come nel protagonista del Demetrio Pianelli, segretamente innamorato della bella cognata rimasta vedova, esse sono nascoste e quasi sotterranee, pudibonde, ritrose, come vergognose di mostrarsi perfino a coloro che le vivono. È, in compenso, un mondo "pulito", perché i personaggi positivi dei suoi romanzi non conoscono bassezze o compromessi, non si piegano ad azioni spregevoli o moralmente ambigue pur di raggiungere i loro scopi; sono leali, trasparenti, coraggiosi nella loro umiltà e nella loro quotidianità. Sono, nel senso migliore del termine, figure d’altri tempi: di un tempo che, forse, non è mai esistono, ma che piace immaginare, così come Dante immaginava la sua Firenze prima che il lusso e i subiti guadagni sconvolgessero le abitudini e la morale dei suoi concittadini: un mondo semplice, schietto, sobrio, fatto di valori più che di cose, di dolci affetti più che di brame imperiose e disordinate.

Gli eroi di De Marchi sono degli umili e dimessi eroi quotidiani, ciò che non toglie nulla alla loro grandezza, se non le apparenze; sono dei vinti, nel senso verghiano della parola, perché non hanno una vita da godere, ma un dovere da svolgere, e intendono svolgerlo sino in fondo, costi quel che costi, senza recriminazioni né lamenti: sanno che la vita è sacrificio, e sanno che non potrebbero mai più guardarsi allo specchio se fuggissero davanti al dovere da compiere, anche se si tratta di un dovere morale che altri, al loro posto, rifiuterebbero di assumersi, adducendo molti pretesti, forse anche plausibili, ma, in fondo, barando con la loro coscienza. Ecco: gli eroi di De Marchi non sanno barare, perché non vogliono, perché non possono: la loro coscienza è così netta ed esigente, che non potrebbe tollerare neppure un parziale accomodamento, non riuscirebbe più a trovar pace se non si caricasse della sua croce e non si rendesse disponibile a pagare un debito, magari contratto da altri (come appunto nel caso di Demetrio), ma rispetto al quale essi non vogliono commettere un peccato d’omissione. Il male non è solo quel che si fa, ma anche quel bene che si potrebbe fare, e ci si rifiuta di farlo; ebbene, essi non son fatti di quella pasta, per loro vedere il bene significa anche farlo, senza accampare scuse, senza accumulare rinvii.

Ha scritto il poeta friulano e critico letterario Domenico Cerroni nella Introduzione al Demetrio Panelli (Firenze, Sansoni Editore, 1966, pp. 6-8):

Emilio De Marchi è un’anima pensosa della sorte terrena dell’uomo, veduta sotto il doppio profilo della fragilità delle cose amate e cercate da ognuno di noi e della inesorabilità del tempo che lentamente, impercettibilmente, ma senza soste, rompe e ricompone, annoda e scioglie i casi in cui gli uomini tentano di inserirsi, senza tuttavia riuscire a fare altro che a vederli trascorrere. L’unica forza che può sperare di opporsi a questa invincibile corsa delle cose nel tempo, è la retta coscienza di sé e la bontà, portata fino ai limiti del sacrificio; ma, si badi bene, non la bontà ufficiale e sonora dei "grandi", dietro la quale si nascondono quasi sempre l’interesse e la grettezza mentale, bensì quella degli umili, dei diseredati e dei dimenticati, in nome dei quali l’arte di De Marchi ridicolizza le "prosopopee", i falsi potenti, i fortunati, che si chiudono, come lumache nel guscio, di fronte ai bisogni degli altri, e irride agli ipocriti e ai servili adulatori, incapaci di rischiare la loro misera incolumità a vantaggio dell’onore e della verità.

Cosicché Demetrio Pianelli, il protagonista del romanzo, è praticamente solo in mezzo alla marea di gente, o inutile, o falsa, o ingenua che lo circonda; ma egli esprime da sé una forza straordinaria e diventa facilmente un personaggio indimenticabile, che trova i suoi fratelli in alcune altre grandi figure di diseredati vittoriosi, creati dalle maggiori letterature europee dell’800. In tal senso è estremamente significativa una pagina nella quale il De Marchi, riflettendo per conto di Demetrio su tutto quanto è capitato a suoi personaggio dal giorno della morte di Cesarino Pianelli, esce a dire: "Eppure in fondo a questa catastrofe, benché si sentisse quasi schiacciato dalle sue stesse rovine — va a spiegare anche questi misteri — non gli dispiaceva d’aver cantato almeno una volta una bella verità a un potente. Gli era cara, dolce, consolante, l’idea d’aver osato alzare la voce — lui solo in mezzo ad una bega di ipocriti e di maliziosi — per difendere l’onestà di una povera donna. Egli solo aveva avuto il coraggio di rispondere alle perfide malvagità del Quintina, alle offese del Commendatore, parlando chiaro, chiamando gobbo il gobbo, vile il vile, sollevando di peso, quasi sulle sue braccia, l’onestà di Beatrice al di sopra del fango.

A questa coscienza si appoggiava come a un bastone, e se ne faceva quasi uno scudo. No, non avrebbe cambiata la sua coscienza orgogliosa con quella del suo superiore e de’ suoi adulatori. Paolino, più fortunato di lui al di fuori, di dentro non era né capace, né degno di certe convinzioni.

Egli sì; c’è il suo tornaconto anche a soffrire per la giustizia".

Si può dire, è vero, che sostanzialmente la visione della vita in Emilio De Marchi è pessimistica, se non altro perché i buoni sono colpiti ed i cattivi restano indenni; ma se è vero che la vittoria sulla sorte non è data quasi mai dalla buona fortuna, bensì dalla consapevolezza della nostra linearità di condotta e del senso della supremazia razionale sulle nostre debolezze e sulle nostre passioni; allora Demetrio Pianelli, il buon "Orso della Bassa", colpito internamente da una passione amorosa quasi assurda, ed esternamente dalla incapacità degli altri a riconoscere i propri torti, appare davvero come l’unico vincitore della triste vicenda. Egli è sì uomo insignificante, incolto, non privo di difetti, ma sa però spiegare di fronte a se stesso le ragioni della propria vittoria e sa soprattutto, attraverso una rassegnazione non debole o piagnucolosa, ma austero e virile e nello stesso tempo carica di un giustificabile, anche se costantemente trattenuto, desiderio di pianto, vincere anche il tempo che tutto trascina con sé nella cronaca, ma che nulla può infrangere e far rotolare via via, di ciò che si trova entro la pacata fermezza del ricordo amato. Ecco infatti le parole dello scrittore: "Chi aveva vinto? La gente che giudica all’ingrosso poteva credere che avessero vinto gli altri, cioè i potenti e i fortunati; ma il suo cuore, davanti a quella bella creatura che piangeva e supplicava, seduta innanzi a lui nella luce blanda d’un tramonto d’estate, esultava ancora nella coscienza d’un trionfo appassionato, che Dio non concede né ai potenti né ai fortunati.

Beatrice non era salita per la seconda volta nella modesta soffitta per consolare le malinconie di un abbandonato: ma veniva come una regina a mendicare consolazione e consigli, a un vecchio e dimenticato romito. Di chi la vittoria dunque?"

Crediamo che nella rappresentazione dell’universo morale di questo scrittore verista un po’ messo in ombra, inevitabilmente del resto, da altri nomi più prestigiosi — quelli di Verga, Capuana, De Roberto — il verismo italiano, un movimento mancato e una occasione sprecata di fare i conti con il senso del fare letteratura, in Italia, sullo scorcio del XIX secolo, abbia comunque registrato una delle sue esperienze più interessanti, anche se non, probabilmente, uno dei suoi vertici più alti. Perché vi è molta verità nelle dolenti e dignitose figure dei "vinti" che popolano quel mondo piccolo (come lo avrebbe chiamato, affettuosamente, Giovannino Guareschi), piccolo non per le dimensioni materiali, ma per una certa angustia e chiusura spirituale ed esistenziale, per una certa tendenza al ripiegamento e alla rassegnazione, per una certa qual limitatezza di orizzonti, di respiro, di quella che oggi si chiamerebbe progettualità, o, anche, capacità di scommettere sul futuro. È il mondo della piccola, piccolissima borghesia milanese e lombarda, colto un paio di decenni dopo l’esperienza pionieristica e un po’garibaldina degli scapigliati — Demetrio Pianelli è del 1890, mentre La Scapigliatura e il 6 febbraio di Cletto Arrighi è del 1862, Fosca di Tarchetti è del 1869, e Senso di Camillo Boito è del 1883 -, mentre il capoluogo lombardo si è affermato come il centro della nascente industria italiana, e si sta affermando anche come il cuore imprenditoriale e finanziario della nazione; ma ben sessant’anni prima che il boom economico ne facesse una delle maggiori capitali industriali d’Europa e del mondo.

Vi è, in Demetrio Pianelli, una certa parentela con eroi, o antieroi, ben più famosi, della letteratura europea: di Dickens, per esempio, ma anche di Dostoevskij; e, tra i francesi, piuttosto di Victor Hugo (e di Hector Malot) che di Zola; anch’essi appartengono, come quelli, alla categoria degli umiliati e offesi, ma senza il brio di un Micawber di David Copperfield, o di Samuel Pickwick de Il circolo Pickwick, e senza il patetismo un po’ eccessivo del sognatore de Le notti bianche; ma, in compenso, con una serietà ed una onestà morale che ne fanno dei piccoli giganti, specialmente se paragonati alla mediocrità di coloro che li attorniano e che, non di rado, li ostacolano e li perseguitano: come fa il cavaliere Balzalotti, che ordina il trasferimento di Demetrio da Milano a Grosseto, per punirlo d’aver voluto difendere, forse con ardore eccessivo (e un po’ ingenuo), l’onorabilità della bella e sfortunata cognata Beratrice, la quale non solo finisce per sposare un altro, ma ha anche il coraggio di chiedere proprio a lui – che, solo, l’ha difesa, consigliata e aiutata quando tutti le avevano voltato le spalle – una lettera che chiarisca al suo pretendente, Paolino delle Cascine, non esservi alcun legame sentimentale fra di loro. E Demetrio, che si è preso a cuore non solo il destino di lei, ma anche dei suoi tre figli, ai quali si è vivamente affezionato, non esita a compiere anche questo estremo, e veramente eroico, sacrificio: mettere nero su bianco la dolorosa bugia che nulla vi è fra lui e Beatrice; mentre invece egli aveva finito per innamorarsi perdutamente della donna, senza mai osare confessarglielo, senza mai averle chiesto nulla di nulla.

La capacità di Demetrio di sacrificarsi in silenzio, e di accettare anche il trasferimento senza mai farne parola con colei che ne è stata la causa; la sua generosità nel non serbare rancore e nel non recriminare, mentre lui, che si è quasi rovinato per uno slancio altruistico, deve assistere al matrimonio di lei e all’agiatezza in cui ella e i suoi figli tornano a vivere, apparentemente ignari o indifferenti dei sacrifici da lui affrontati per loro – ad eccezione della nipote più grandicella, Arabella, che ha visto e compreso tutto – hanno veramente qualcosa di toccante e quasi di sublime nella loro disadorna naturalezza. Per Demetrio, uomo semplice, anche perché rozzo e privo di cultura, ma tutt’altro che insensibile, si tratta di autentico eroismo; per lui, che aveva intravisto non l’amore, ma la possibilità dell’amore, per la prima e unica volta nella sua vita, quel farsi da parte e sparire in silenzio, senza voler turbare in alcun modo la felicità delle persone amate, si tratta di una prova difficile, che egli tuttavia supera brillantemente, dando a tutti una lezione memorabile di dignità, di stile e signorile discrezione. Sono proprio le qualità che ne fanno un vinto e un vincitore al tempo stesso. Un vinto, perché sono le meno adatte nella darwiniana lotta per la vita che si annuncia all’avvento della piena modernità, quando il fattore economico comincia a dominare ogni aspetto della vita, sentimenti compresi (si pensi a I Malavoglia); un vincitore perché, rifiutando la logica dell’egoismo, risulta superiore a tutti, perfino al suo stesso ego: e, in tal modo, si trascende…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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