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«O beata solitudo, o sola beatitudo» – Claudio Granzotto

Se non fosse stato un fervente cattolico; se non si fosse fatto frate francescano; se non fosse stato proclamato beato dalla Chiesa, nel 2004, molto probabilmente fra Claudio Granzotto, al secolo professor Riccardo Granzotto, nato a santa Lucia di Piave (Treviso) il 23 agosto del 1900 e tornato al cielo nel convento di Chiampo (Vicenza) il 15 agosto 1947, giorno dell’Assunzione di Maria Vergine, come aveva predetto (me ne vado per l’Assunta) sarebbe oggi conosciutissimo e giustamente ammirato come uno dei massimi scultori italiani del XX secolo. Invece, ancora oggi, a circa settant’anni dalla sua dipartita, egli è conosciuto quasi solo nell’ambito della cultura cattolica, e più per la sua fama di santità che per i suoi straordinari meriti artistici. I critici di professione e gli storici dell’arte seguitano ad ignorarlo, a snobbarlo, come se non fosse neanche esistito; nel loro laicismo inveterato, non si curano di un artista che è stato anche santo, se proprio non sono costretti a sbattergli contro.

C’è una cosa, in particolare, che brilla nell’arte di Claudio Granzotto, e che, crediamo, deve dispiacere in sommo grado a quegli intellettuali laicisti e irreligiosi, i quali considerano con fastidio e disdegno ogni traccia di sopravvivenza del sacro nell’arte e nella cultura moderne: il fatto che egli, mediante una delle forme di espressione artistica più "corposa" e materiale, quale è, per definizione, la scultura in pietra, ha saputo raggiungere le vette della spiritualità, letteralmente smaterializzando la materia. I corpi dei suoi Angeli, dei suoi Santi, di Gesù e della Madonna sono, sì, anatomicamente perfetti e ben delineati, ma, nello stesso tempo, appaiono allo sguardo stupito e ammirato dell’osservatore come se fossero senza peso, come se si fossero liberati dai lacci della materia e si librassero fuori del tempo e dello spazio, in una regione aerea, in un’altra dimensione del reale, tutta sfolgorante di luce e spirante soavità e pace.

Il carattere spirituale e quasi immateriale della sua arte emerge soprattutto negli sguardi delle figure uscite dal suo scalpello, e che sono di marmo solo quanto alla loro veste esteriore: degli sguardi così rapiti, così estatici, così presi dalla gioia della contemplazione di Dio, da trasmettere anche a chi li guarda un senso d’immensa serenità, d’ineffabile pacificazione. Anche quando si tratta di sguardi letteralmente invisibili, perché l’occhio è chiuso, come nel caso del sant’Antonio morente o del Cristo addormentato nella morte, ma in attesa della resurrezione; oppure come nel caso dell’estasi di santa Lucia, alla quale i persecutori pagani hanno strappato gli occhi, ma ciò non le impedisce di vedere, e di sorridere, e di congiungere le mani sul petto in un gesto dolcissimo, struggente, di vera felicità e di totale abbandono al suo Sposo celeste (la scultura si trova alla sommità del portale, sulla facciata della Chiesa arcipretale di Santa Lucia di Piave).

Quei sorrisi che vincono la pesantezza della materia e toccano le corde più profonde dell’anima, sono una smentita e un monito nei confronti di tutti coloro i quali pensano che l’arte moderna debba celebrare ciò che è puramente umano, in un orizzonte immanentistico, pago e compiaciuto di se stesso: perché mostrano chiaramente, e fanno quasi toccare con mano, quanto è più alta, più vera e più pura un’arte che non voglia restare imprigionata nell’orizzonte meramente terreno, ma sappia aprirsi al Mistero del divino e alla sua bellezza abbagliante. E non desta meraviglia sapere che fra Claudio, al principio del suo noviziato di frate minore – allorché si trovava nell’isola di San Francesco del Deserto, nella Laguna di Venezia -, abbia persino accarezzato l’idea di non scolpire più nulla (proponimento, per fortuna, non mantenuto, dato che ciò gli permise di creare le meraviglie della Grotta di Lourdes a Chiampo, per l’edificazione dei fedeli): la sua idea, che l’arte sia una strada per giungere a Dio, doveva necessariamente culminare nell’altra idea, che Dio sia l’artista che scolpisce le nostre vite e che, per colui o colei che si arrende alla sua chiamata e si fa docile strumento nelle sue mani, spetta un compito più alto che non sia quello di scolpire delle forme materiali: ossia di lasciarsi scolpire e modellare dalla volontà di Dio, infinitamente amorevole e sapiente, e diventare, così, opere viventi della sua creazione; sculture palpitanti che vivono per conoscerlo sempre di più, per amarlo e servirlo.

Così ha descritto quella fase della vita di questo grande e dimenticato artista del Novecento, il padre Redento Fusato nella sua biografia Fra Claudio Granzotto. Un artista francescano del secolo XX, Chiampo [Vicenza], Collegio Serafico Missionario, 1989, pp. 201-204):

Il 7 dicembre 1935 Fra Claudio Granzotto, postulante francescano, ritorna a San Francesco del Deserto a iniziare l’anno di noviziato. Per concluderlo il giorno dell’Immacolata, 8 dicembre 1936, con la professione dei voti religiosi.

Il nuovo cammino spirituale e l’isoletta del Deserto diventano per lui il binario che lo condurrà alle più avvincenti conquiste. Il sereno romitorio francescano, oasi di verde immersa nel silenzio, la taciturna processione dei cipressi che fiancheggiano i viali, le placide fronde dei pini e dei larici, il cinguettio rasserenante degli uccelli e soprattutto la solitudine e la mistica pace che vi aleggiano sono come la scoperta d’un nuovo pianeta dove ascesi e spiritualità sono di casa.

Ora si rende conto perché Gesù ebbe i rifugi di preghiera: il Tabor, il Getsemani, il monte degli olivi, il deserto di Giuda.

Ora viene a capire l’importanza che S. Francesco d’Assisi, perfetto imitatore di Cristo, dava ai romitori: la Porziuncola, San Damiano, Rivotorto, le Carceri, la Verna, l’isoletta del Trasimeno e quella del Deserto.

Proprio in questo lembo di terra, lambito dalle acque lagunari, Fra Claudio nella soave armonia natura incontaminata percepisce le note rasserenanti dell’inconfondibile voce, quella che lo chiamò alla vita religiosa: "Qui mi troverai, qui mi darò a te".

È la chiara risposta di Gesù.

Il maestro di noviziato, P. Camillo Nervo, lo inizia alla nuova esperienza spirituale mettendogli tra le mani le Epistole di San Paolo. Il libro non gli è nuovo. Eppure è come lo leggesse la prima volta, per tutto ciò che di nuovo gli rivela. Fra Claudio ne è affascinato. Lo legge e lo medita fino a sdruscirne le pagine. San Paolo gli sembra uno scultore dello spirito. L’Apostolo adopera la penna come uno scalpello. Infatti estrae dal mistero un’immagine di Cristo viva e scultorea. È un Gesù che attrae con forza irresistibile. Fra Claudio infatti confessa:

– Le epistole paoline mi offrono le ali per l’ascesi spirituale.

Gli nasce timidamente nell’anima il desiderio della contemplazione. Molte ore del giorno e della notte è davanti al tabernacolo. Rifiuta il banchetto, dove poggiare le braccia, perché ha l’apparenza d’un legame con il mondo. Tutto ciò che è terrestre sembra superato. È contemplazione? È estasi?

I testimoni oculari della sua straordinaria esperienza affermano l’una e l’altra cosa.

Il P. Camillo, direttore spirituale, è perplesso nel concedergli il permesso di protrarre l’adorazione notturna oltre il tempo previsto dagli statuti. Vorrebbe limitarne lo slancio perché teme che sia momentaneo.

– Fra Claudio — attesta P. Camillo — prega nella maniera dei santi. La sua è un’orazione così fervorosa che, come a Dio strappa le grazie, così a me strappa i permessi. Non riesco a dirgli di no.

Fra Pancrazio Pillon, compagno di noviziato, incuriosito per quanto sta vedendo, gli chiede qualche spiegazione:

– Ma lei, dopo un lungo tempo di preghiera, non avverte la stanchezza? Pure il Vangelo dice che lo spirito è pronto ma la carne è inferma. Di quale carne lei è fatto?

– È vero — chiarifica Fra Claudio – che la carne è inferma. Ma dopo un’ora d’intensa preghiera,, l’anima si fa tanto leggera che quasi più non avverte il peso del corpo.

Fra Claudio, senza saperlo, adopera il linguaggio dei mistici.

I maestri di teologia ascetica insegnano che alle vette della contemplazione si arriva attraverso la purificazione dei sensi.

Fra Claudio vuole scuotere dall’anima la polvere della materia, anche quella luminosa. Decide perciò di romperla con l’arte. Non si tratta d’un abbandono, tanto meno di un’abiura. L’arte è la nobiltà della materia, è un raggio di luce. Ma a che cosa serve per chi è di fronte allo splendore divino, Gesù, eterna bellezza?

È cosciente d’essere diventato strumento dell’artefice divino e materia di scultura. Rinuncia dunque a fare lo scultore.

Fra Pasquale Lorenzin, con giovanile curiosità, sta rovistando la sacca dello scultore. Prova pena a vedere gli scalpelli inoperosi; gli chiede:

– Pensa di tornare alla scultura?

La risposta è precisa:

– Sto per dare inizio ad una nuova opera, ma gli scalpelli non servono. Avrò bisogno di strumenti d’altro genere perché è un lavoro spirituale.

Ecco la suprema umiltà: rendersi conto che i nostri scalpelli, la nostra tecnologia, il nostro denaro, il nostro potere, e soprattutto il nostro umano, e talvolta diabolico, orgoglio, la nostra superbia intellettuale, arrivati a un certo punto, non valgono nulla, non servono a nulla, non significano più nulla. Chi arriva a comprendere questo, o almeno ad intravederlo, fosse pure una sola volta nel corso della sua vita, è arrivato all’essenziale: e, qualunque cosa decida di fare in seguito, continuare ad usare gi scalpelli oppure no, e così la tecnologia, il denaro, il potere, la farà in una maniera profondamente diversa da come la faceva prima, perché lui sarà diventato una persona profondamente diversa da quella che era. Chi non lo ha mai compreso, chi non lo ha mai neppure intuito o sospettato, viceversa, è come se avesse sprecato la sua vita: perché la vita ci è data affinché noi comprendiamo che cosa è essenziale e che cosa non lo è, e facciamo le nostre scelte alla luce di una tale consapevolezza.

È penoso, a distanza di dieci, venti o trenta anni, incontrare delle persone che avevamo conosciuto, forse amato, e poi perso di vista, e scoprire che non sono evolute di uno iota, che non hanno fatto il benché minimo progresso spirituale, che sanno parlare solo di soldi, di vestii, di automobili: è triste e penoso, perché vediamo in esse delle occasioni mancate, delle vite sciupate, dei fiori avvizziti prima del tempo, dei rami secchi che verranno tagliati, senza aver dato alcun frutto e senza aver portato alcun bene né a se stessi, né ad altri. Qui non si tratta di giudicare: pur restando aperto il mistero dell’anima, qui si tratta semplicemente di prendere atto di come stanno le cose. Se in un’anima si è aperta, o almeno socchiusa, anche la più piccola finestra, anche il minimo spiraglio, sul profumo dell’Infinito e dell’Eterno, ebbene ciò si vede, si sente: e lo vedremmo e lo sentiremmo anche se si trattasse di un sordo o di un cieco, come traspare, appunto, dai volti angelici dei santi e delle sante scolpiti dalla mano d’artista di Claudio Granzotto, perfino quando i loro occhi sono chiusi, e i loro sguardi giacciono nascosti nel grembo della morte. Perché la morte è la fine di tutto solo per chi non sa vedere oltre.

L’artista che volle farsi umile frate e che andava a fare la questua per il suo convento lungo le strade del mondo, umiliandosi perfino a bussare alle porte delle case dei suoi compaesani, aveva intravisto questa verità, e, per rafforzarsi nella sua scelta e per rendere ancor più limpido il proprio sguardo, volle recarsi nella solitudine di San Francesco del Deserto, un’isola carica di suggestione, immersa nel verde e cullata dalle acque tranquille della laguna. «O beata solitudo, o sola beatitudo», avrà pensato chissà quante volte, immerso in contemplazione e in preghiera, fin nel cuore della notte, in ginocchio, davanti all’altare del Santissimo, oppure passeggiando e meditando i misteri sacri lungo gli ombrosi vialetti sotto le fronde degli alberi. La sua vita fu un capolavoro di raccoglimento e di umiltà. Era stato un bel giovanotto, stimato e intelligente, che avrebbe potuto chiedere la mano delle migliori ragazze del paese; oppure avrebbe potuto inseguire il sogno di farsi un nome come scultore e dedicarsi interamente alle sue creazioni artistiche, nelle quali, fin dall’inizio, traspare sempre un’aria di spiritualità e di vibrante pulizia morale. Ma quando si sentì toccato dalla Grazia divina, lasciò tutto senza esitare, e si mise totalmente nelle mani del Signore. La sua opera più bella è stata la sua stessa vita. Quando un tumore al cervello lo portò in cielo, all’età di soli quarantasette anni, la sua parabola esistenziale aveva già toccato un vertice cui solamente pochi riescono ad avvicinarsi. E questo è stato il suo maggiore lascito agli uomini: ciò che conta è l’essenziale; è l’essenziale è Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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