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12 Dicembre 2016Gino Sottochiesa e il ruolo nefasto della Chiesa anglicana nella storia della civiltà europea

Quello di Gino Sottochiesa è uno di quei nomi impronunciabili nel clima odierno della cultura politically correct; e, infatti, quasi nessuno lo conosce, e i pochi che lo conoscono lo hanno votato a una perpetua damnatio memoriae. Basti dire che il filosofo in questione ha collaborato al quindicinale La difesa della razza, per capire di che cosa si tratti; ed è superfluo aggiungere, almeno per quanti siano in buona fede, che le idee razziste di quella rivista potevano anche essere sbagliate e criticabili, senza perciò arrivare alla conclusione che tutti i suoi collaboratori erano persone moralmente indegne e intellettualmente insignificanti. Del resto, si sa che personaggi illustri, che poi hanno fatto brillanti carriere — un paio per tutti: l’uomo politico democristiano Amintore Fanfani e il giornalista, più tardi icona della cultura resistenziale e di sinistra, Giorgio Bocca — avevano firmato il famigerato Manifesto della razza; e si capisce che l’oblio e la damnatio memoriae non hanno colpito tutti coloro i quali, all’epoca, ritennero di dover assumere certe posizioni ideologiche nei confronti della questione razziale — e non si trattava tanto della questione ebraica, come oggi si vorrebbe far credere, ma soprattutto della questione africana: l’Italia aveva appena conquistato l’Etiopia e si trattava di decidere se seguire l’esempio della Francia, ossia quello dei matrimoni misti, che avrebbero alterato, poco alla volta, l’identità degli stessi colonizzatori, oppure una strada diversa.
Della personalità scomoda e controversa di Gino Sottochiesa, così come della sua produzione letteraria, comunque, ci ripromettiamo di parlare in un’altra occasione; qui ci limiteremo a prendere in considerazione il suo libro Religiosità di questa guerra, nel quale egli traccia un ampio affresco della convergenza di interessi fra il supercapitalismo finanziario anglosassone e il comunismo sovietico, e sostiene che il cuore della civiltà europea, meritevole di essere difeso con ogni sforzo, è nella religione cristiana, e più precisamente nel cattolicesimo romano; mentre individuava nella Riforma protestante, nel Rinascimento inglese (impregnato di calvinismo, come osservato già da un illustre anglista, Mario Praz), nell’illuminismo (altra creazione inglese), nel liberalismo e nelle ideologie da quest’ultimo derivate, comunismo compreso, gli elementi di dissoluzione di quella civiltà. A noi pare che siano delle tesi meritevoli di essere considerate e discusse, anche da parte di quanti non le trovassero convincenti; e che sia giunta l’ora di sdoganare il pensiero di autori come il Sottochiesa, almeno in ciò che esso può avere ancora di valido, e lasciando da parte ciò che si è rivelato caduco, perché legato a ideologie erronee anche sul piano strettamente intellettuale, oltre che moralmente discutibili. Per decenni si è resa lode all’opera complessiva di tutti gl’intellettuali progressisti, marxisti, esistenzialisti, psicanalisti, e chi più ne ha, più ne metta, anche nei loro aspetti più discutibili e aberranti, anche in ciò che palesemente conteneva germi di dottrine pericolose e dissolutrici, solo perché si partiva dal preconcetto che le ideologie progressiste sono sempre buone e possono contenere, tutt’al più, qualche svista, qualche inesattezza, qualche peccatuccio veniale, ma nessuna mostruosità, nessun errore madornale. Non è forse giunto il tempo di fare l’operazione inversa, e di andare a spigolare nel campo della cultura tradizionalista, per vedere se, per caso, non si trovi, abbandonata nel fango, qualche autentica pietra preziosa?
Così scriveva nel suo ultimo libro, pubblicato a Seconda guerra mondiale già in pieno svolgimento, pochi giorni dopo lo scatenamento dell’offensiva tedesca contro l’Unione Sovietica, Religiosità di questa guerra (Torino, Quaderni Nazionali, 1941-XIX, pp. 84-92):
… La Chiesa Anglicana, compiendo il sacrilegio di una falsa azione carismatica: come religione è un’assurdità; come chiesa un non-senso. È un corpo mutilato della testa; o, se vogliamo, una testa senza cervello: e il cuore è di pietra anche se vi scorre dentro sangue puritano.
Falso nelle sue premesse e presuntuosamente vano e blasfemo nella sua dottrina e nella sua precettistica, l’Anglicanesimo si sostiene unicamente sopra l’esclusivo e cocciuto postulato della sua costituzione: l’antiromanità politica e religiosa delle sue origini, che gli fornisce pur sempre l’ossigeno per i suoi giorni ormai stanchi e decrepiti.
Una critica acuta e serrata dell’Anglicanesimo, quale pseudo-religione e pseudo-chiesa, è contenuto nel libro "Storia della costituzione inglese" di Ercole Ricotti (edizione torinese del 187). La requisitoria di questo autore — che poi non è neanche pensatore ortodossamente cattolico – colpisce i punti più vulnerabili della riforma anglosassone, scrivendo:
"Da ciò provenne una mostruosa miscela di sacro e di profano; perché l’eresia diventò crimine di Stato, e fu affidata al Re e al Parlamento la facoltà di regolare le cose della religione". E ancora: "Così fu ristabilita da Elisabetta Tudor la Chiesa Anglicana, siccome parte o appendice della Costituzione inglese, anzi ancella di essa. Però vien naturale il quesito: che operò la Chiesa Anglicana per la riforma de’ costumi? E del benessere dell’Inghilterra? quali risultati produsse? Qual posto occupò ed occupa nell’incivilimento europeo?[ …] La Chiesa Anglicana fu una fattura del governo civile, imposta al paese per leggi e sotto pene gravissime; essa fu come fusa a stampo entro la Costituzione inglese, cerchiata da potestà laiche, che trassero a sé la nomina di Vescovi e Parroci, la liturgia, i riti, le discipline ecclesiastiche… Fu come pianta n avverso clima e suolo, la quale intristisce, non dà frutti, anzi diventa impotente a darne. E impotente fu la Chiesa Anglicana, benché alla sua conservazione si collegassero i favori dei Principi, le ricchezze, gli onori, gli interessi dell’aristocrazia". […]
Inoltre al quesito già posto: "Che cosa operò la Chiesa Anglicana per la riforma dei costumi e il benessere dell’Inghilterra?", una ben triste risposta vien fatto di dare, poggiata storicamente e socialmente su dati precisi di fatto: primo, fra tutti, il pauperismo: piaga di pretta origine anglicana. È questo l’episodio più classico ed eloquente, che meglio spiega l’impotenza dell’Anglicanesimo nell’esercitare la carità, cioè la virtù cristiana per eccellenza. Prima della riforma ecclesiastica di Enrico VIII, i poveri erano cristianamente mantenuti dalla Chiesa Cattolica e dalle sue istituzioni. Tale opera umanamente santa e benefica tu troncata con la costituzione della Chiesa Anglicana, tanto che d’un subito, nel secolo XV [sic; probabilmente un refuso per XVI], il pauperismo rigurgitò come un male sempre più grave e inguaribile. Le violenze religiose, sotto la casa dei Tudor, portarono il pauperismo all’esasperazione. La indispensabile carità si convertì anglicanamente in ferocia: per i mendichi ostinati si adoperò la sferza e si mozzarono le orecchie; per i recidivi si innalzarono le forche; si videro poi questi disgraziati — un vero esercito — marchiati in fronte con ferro rovente e rimaner schiavi per ben due anni del loro denunziatore! La divina carità di Cristo e della sua Chiesa subiva un affronto che si avvicina in gravità a quello ebraico del deicidio! A nulla valse la famosa "tassa dei poveri": dalle tasche degli anglicani non si smungeva neanche un soldo. Ridotta poi in poche mani la proprietà terriera, la piaga del pauperismo si accrebbe a dismisura, cocciutamente defraudato dall’assistenza volontaria inspirata dal Vangelo. […]
Il dotto scrittore W. Cobbet, autore di una interessante "Storia della riforma protestante in Inghilterra ed Irlanda", tira delle conclusioni addirittura disperate, scorgendo nella Chiesa Anglicana una mostruosa istituzione "ingenerata da bestiale lussuria, e partorita da ipocrisia e perfidia". E il suo volto si copre di rossore nel costatare come una siffatta Chiesa "spogliasse il paese; quanta povertà e miseria ne fossero il prodotto; e come giungesse a mettere il fondamento inconcluso di quel pauperismo, della vituperosa immoralità, e tremenda efficacia dei delitti di tutte le sorta che di presente tanto addentro informano il carattere di questa nazione". […]
L’antiromanità dell’Anglicanesimo si riscontra agevolmente anche nella storia del pensiero anglosassone, che è quanto dire nella letteratura inglese. […] Ma vi è un movimento letterario inglese, tipicamente anglosassone, che rivela in nodo eloquenti sismo lo spirito antiromano e anticattolico dell’Anglicanesimo. Questo movimento si denomina illuminismo e abbraccia tutto il Settecento. Le lotte di religione e lo spirito stesso della Riforma anglicana avevano impresso alla mentalità inglese un senso di scetticismo, di libero esame illimitato, e persino una penosa e desolata ombra di ateismo. Il nazionalismo più spinto prende il sopravvento; anziché sulla rivelazione cristiana oramai infranta dal ribellismo anticattolico, gli studi si rivolgono alla religione naturale. La stesa credenza in Dio si allontana dalla teoria dogmatica-trascendentale, per investire unicamente la ragione. Spietato è il razionalismo materialistico di Thomas Hobbes, il cui "Leviathan", scritto prima del 1660, ispirò l’arrogante cinismo di Carlo II. Poi è la volta dell’empirismo di Locke, che sarà il padre spirituale di molti scrittori anglicani. La stessa architettura filosofica do Pope è fornita da due scrittori razionalisti che negano la rivelazione cristiana: John Toland e Henry St. John. […] Pur non assumendo il carattere rivoluzionario dell’illuminismo francese, l’illuminismo inglese toccò i vertici di un materialismo antireligioso che ancor oggi ispira gran parte della letteratura anglosassone. Nel campo della storiografia, David Hume (1711-1776) rappresenta l’empirismo più classico, portato fino agli estremi dello scetticismo: è l’ultimo colpo alla teologia e la divinizzazione del razionalismo. Da Hume prenderà le mosse il criticismo di Kant.
Insomma: emancipata la religione e la Chiesa dal centro vitale di Roma, anche il pensiero doveva emanciparsi dalla rivelazione cristiana e dalla disciplina teologica. Prendono vigore e potenza la massoneria, l’enciclopedismo, il sensismo, l’utilitarismo da cui uscirà il liberalismo religioso, politico e sociale, che è e sarà sempre di pretta origine e marca inglese, anzi anglicana. Il pensiero antiromano si sviluppa ed opera attraverso una varietà logica di derivazioni. La progenie del liberalismo continuerà con l’anarchismo, il comunismo e il bolscevismo: consanguineità di movimenti nati dalla medesima matrice, che ha none Anti-Roma.
L’Inghilterra anglicana ne aveva fornito i germi.
È innegabile che in queste pagine vi è lo spirito fazioso e atrabiliare di una polemica preconcetta, che si inscrive in una vera e propria propaganda di guerra, e che si giustifica con ragioni più politiche che culturali in senso stretto. Assurdo, fin dal titolo, parlare di una "religiosità" della guerra che l’Italia condusse a rimorchio della Germania nazista, i cui successi iniziali furono scanditi dalle atrocità perpetrate dalle truppe speciali naziste contro le popolazioni civili. E tuttavia… Se si rileggono, facendo la tara a quanto di esagerato e di forzatamente malevolo vi è in esse; se si prescinde dalla tesi precostituita, secondo la quale tutto ciò che ha prodotto la riforma anglicana è male, e ha pessimamente influenzato la società britannica e lo stesso carattere nazionale inglese, e si valutano i concetti espressi da Giulio Sottochiesa con spirito veramente equanime, ma soprattutto sgombrando la mente anche dalle esagerazioni opposte, proprie della cultura protestante e anglosassone moderne, che noi siamo portati ad accettare come naturali, se non come senz’altro positive, solo perché sono andate a costituire la malta ed il cemento di cui è fatta la cultura moderna, che è ormai diventata anche la nostra; se noi, cioè, ci sforziamo di liberare la mente dai condizionamenti che la cultura moderna, appunto di origine protestante e anglosassone, e specialmente illuminista, hanno creato nella nostra mappa concettuale e nel nostro stesso modo di ragionare e di giudicare le cose, allora ci accorgeremo che molte tesi dell’Autore, nella loro sostanza, non sono affatto esagerate; che molti concetti, anzi, sono fondamentalmente giusti; e che noi proviamo, davanti ad essi, una reazione di stupore e d’incredulità, mista a disagio, non solo e non tanto perché, effettivamente, talune conclusioni sono eccessive, o non adeguatamente dimostrate, ma soprattutto perché siamo figli di un mondo che, nel 1945, è stato ridisegnato dai vincitori anglosassoni, anche a livello culturale e psicologico, e che, nei decenni successivi, è stato ulteriormente plasmato da essi, in ogni ambito della vita, dalla finanza alla musica leggera, dalla moda dell’abbigliamento alla televisione, dallo sport al tempo libero.
Davanti a un libro "maledetto" — e, infatti, oggi assolutamente introvabile — come quello di Giulio Sottochiesa, in altre parole, ci si trova come al banco di prova della propria capacità di pensare da persone libere. Se ci si ferma a quanto di sgradevole, di datato, di contingente, vi è in esso, lo si chiude sbuffando e alzando le spalle, o, peggio ancora, lo si utilizza per rafforzare in se stessi l’idea che la cultura da cui esso è scaturito meritava di perdere la guerra, e non solo la Seconda guerra mondiale, ma proprio la battaglia per la civiltà, ossia la battaglia per definire i caratteri essenziali della civiltà moderna, cui apparteniamo. Se, invece, pur vedendo quanto di esagerato e d’ingiusto vi è in alcuni suoi ragionamenti, si riesce ad apprezzare una serie di intuizioni e a collegare alcuni dati di fatto, che egli cita e mette in fila, allora si scopre che almeno una parte della sua tesi generale è sostanzialmente condivisibile, e che, emendata da certe componenti ideologiche che, realmente, hanno fatto per sempre il loro tempo, può anche al giorno d’oggi offrire un contributo valido per una lettura anticonformista, spregiudicata, ma in effetti realistica e penetrante, del rovescio della medaglia della tanto vantata civiltà moderna, così come essa è venuta, mano a mano, definendosi a partire dal Rinascimento e, appunto, dalla Riforma protestante, e così come si è sempre più accentuata ed ha assunto caratteri di vera e propria democrazia totalitaria, dopo l’esito del secondo conflitto mondiale e nei decenni successivi, fino ai nostri giorni, più che mai dominati da ciò che si potrebbe definire l’impero anglo-sionista, con specifico riferimento alla grande finanza ebraico-americana, oggi padrona di fatto dei destini del mondo e capace d’imporre a tutto l’Occidente i suoi valori, o pseudo valori, intellettuali, spirituali, morali, oltre che la sua tecnologia, il suo modello economico, la sua impalcatura psicologica. Rendersi conto di tutto questo implica un percorso di ricerca indipendente, anche dal punto di vista etico, oggi particolarmente difficoltoso, perché del tutto in controtendenza rispetto alla cultura egemone, che è quella cultura "antiromana" di cui parla, pur con qualche enfasi, il Sottochiesa.
Nel nostro immaginario collettivo — immaginario di occidentali, di europei, e anche, specificamente, di italiani — Churchill, tanto per fare un esempio, è stato il grande difensore della nostra civiltà contro la barbarie nazista; e non importa se alleato alla barbarie stalinista, né se incarnazione della barbarie del capitalismo finanziario, lorda del sangue delle città martiri, spietatamente e inutilmente bombardate fino alla distruzione, come Amburgo, Dresda, Berlino. Di conseguenza, noi vediamo i nostri eroici caduti di El Alamein come coloro che si batterono per una causa sbagliata e che non meritano alcuna gratitudine, né un particolare ricordo; mentre gli invasori della Sicilia, nel 1943, e della Normandia, nel 1944, restano, nella nostra percezione, come gli eroici liberatori del mondo dal giogo mostruoso di Hitler, e non come i conquistatori venuti a imporre, per sempre, la "pax" del capitale ebraico-americano, nelle cui meraviglie tuttora ci dibattiamo inutilmente. Un altro esempio: i Beatles, i Rolling Stones, David Bowie, Bob Dylan (ora anche premio Nobel!…) ci appaiono come gli iniziatori di una felice rivoluzione musicale, alla quale dovremo essere eternamente debitori, perché ci ha permesso di archiviare la nostra musica leggera ancora legata alla melodia, al canto solista, e, soprattutto, ai buoni sentimenti: la mamma, l’amore che dura, la famiglia. Tuttavia, queste cose le pensiamo perché siamo stati sconfitti e conquistati, anche culturalmente; non le penseremmo affatto se le cose fossero andate diversamente sul piano storico. La cultura politically correct è tutta basata su questo equivoco di fondo: si giustifica da sé, perché nasce dalla forza materiale e da una vittoria militare, economica, finanziaria; ma ci appare come giusta e come la migliore fra tutte quelle possibili, non perché l’abbiamo sottoposta al vaglio critico del nostro pensiero, ma perché l’abbiamo ricevuta e subita fin dall’infanzia, perché ci è stato insegnato che ogni alternativa era sbagliata e sarebbe, oggi, indegna e impresentabile, moralmente scandalosa, razionalmente insostenibile. Siamo stato condizionati a pensare così, e troviamo la conferma alla giustezza del nostro modo di vedere nel fatto che tutti gli altri, i media, la scuola, l’università, ripetono gli stessi ritornelli. Ma se appena facciamo uno sforzo per uscire dal coro e per guardare il rovescio della medaglia, ci accorgiamo che tutto questo è soltanto ideologia, nel significato negativo che Marx dava al termine: ossia indottrinamento canino e lavaggio del cervello.
Per tornare al libro di Giulio Sottochiesa, si prenda anche uno solo dei concetti da lui esposti nella pagina citata: la nascita e l’enorme diffusione del pauperismo in Inghilterra, quale esito necessario della riforma religiosa e della istituzione della Chiesa anglicana. Ebbene: la sua tesi ci appare come sostanzialmente esatta e difficilmente confutabile. La povertà delle masse si è aggravata e si è moltiplicata perché le classi possidenti inglesi, armate ideologicamente dalla Chiesa anglicana, recintarono i terreni e cominciarono a puntare al massimo sfruttamento razionale della terra, totalmente indifferenti ai costi umani di quella spietata operazione, anzi, stabilendo, a norma di legge, che l’accattonaggio diventava un crimine, e che, come tale, andava perseguito, con la massima severità e intransigenza. Così, mentre la corona inglese e le classi possidenti si arricchivano ulteriormente mediante la confisca delle vaste proprietà della Chiesa cattolica, il popolo si immiseriva per il venir meno di quella carità e di quella pubblica assistenza che proprio la Chiesa cattolica, attraverso le sue istituzioni, non aveva mai fatto venir meno nel corso dei secoli. L’Inghilterra, sotto Elisabetta e, più ancora, sotto Giacomo I, si avviò a diventare una grande potenza imperiale, marittima, commerciale e finanziaria; ma lo fece attraverso la spoliazione inumana dei suoi membri più fragili, e, in particolare, dei contadini irlandesi cattolici, che subirono un trattamento paragonabile a quello dei nativi del Nord America: la totale sottomissione, l’espulsione dalle loro terre, e l’imposizione ai superstiti della lingua, della cultura, della mentalità dei conquistatori. Così, nel corso dei tre secoli successivi, l’Inghilterra avrebbe realizzati la conquista del più grande impero coloniale della storia, arricchendosi immensamente, mentre, però, gran parte del suo stesso popolo, perfino nella capitale, pur così ricca di banche e di benessere, viveva e lavorava nella miseria più nera e nello squallore più disperato.
Questa è, si faccia attenzione, esattamente la stessa mentalità e lo stesso modus operandi dei moderni padroni occulti del mondo (ma neanche tanto occulti): i gradi banchieri della finanza internazionale. Poche migliaia di persone pretendono di vivere sfruttando il lavoro, le pensioni e la stessa miseria di sette miliardi di esseri umani sparsi nei cinque continenti. Questa è la situazione attuale: ed è la diretta e naturale prosecuzione di quanto accadde a livello politico, religioso, economico e finanziario nelle Isole Britanniche, fra l’età di Enrico VIII, il creatore della Chiesa anglicana, e i nostri giorni, dominati dagli interessi planetari dei Rothschild, dei Rockefeller, della Lehman Brothers e della Goldman Sachs…
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio