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La messa nera di Mme La Voisin e l’abate Guibourg

Il cavaliere Godin de Saint-Croix era un uomo assai meticoloso, per sfortuna della sua amante. Quando costui morì, fra le sue carte vennero trovate, per caso, le prove dei crimini che lei aveva commesso, in particolare l’aver commissionato l’omicidio, mediante avvelenamento, del marito e dei due fratelli, onde mettere le mani sulla totalità dei beni di famiglia. Il fatto è che la signora in questione era una nobildonna di rango, Marie-Madeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers: la quale, informata delle indagini in corso che la riguardavano, si precipitò a cercare rifugio fra le mura di un convento, luogo che godeva allora dell’immunità giudiziaria. Nondimeno, un agente della polizia travestito da sacerdote riuscì a conquistare la sua fiducia e ad attirarla all’esterno, facendole intravedere la possibilità d’una fuga all’estero: invece la malcapitata fu tratta in arresto, interrogata e torturata, dopo di che rese ampia confessione dei suoi delitti (progettava di far assassinare anche la sorella e la cognata, per avere del tutto campo libero) e andò direttamente al rogo, nel 1676.

Il processo alla marchesa di Brinvillies aveva però permesso alla polizia di sollevare il coperchio di un pentolone infernale: divenne evidente dalle carte sequestrate, dagli interrogatori dell’imputata e dalle testimonianze di alcune altre persone coinvolte nell’affaire, che un intero quartiere di Parigi, quello di Saint-Denis, già noto per i suoi residenti non proprio raccomandabili, era popolato da una quantità di fattucchiere, streghe, procuratrici di aborti clandestini, avvelenatrici, ricettatori, falsari, alchimisti, preti spretati e in odore di satanismo, e perfino teatro di messe nere. Era il colmo: proprio lì, nella capitale del Re Sole, il Re Cristianissimo che si faceva vanto d’essere il gran difensore della fede cattolica non solo in Francia, ma in tutta Europa! Da queste sconvolgenti rivelazioni e scoperte nacque un’inchiesta ben più massiccia: il re in persona diede ordine che si passasse al setaccio tutto il quartiere "maledetto e si procedesse contro tutta quella ciurmaglia, senza sosta e senza pietà per alcuno, fino ad estirpare quel cancro vergognoso che gettava un’ombra inquietante su tutto il suo regno. Venne messa in funzione la cosiddetta Camera ardente (Chambre ardente), un tribunale straordinario che si riuniva giorno e notte e prendeva il nome dal fatto di riunirsi in un locale tappezzato di broccato nero e illuminato ventiquattro ore al giorno dalle fiaccole perpetuamente accese. La direzione dell’inchiesta fu affidata al capo della polizia, Gabriel Nicolas de La Reyne, dotato di pieni poteri e con istruzioni di non guardare in faccia nessuno, per quanto di sangue nobile: infatti la cosa più sconvolgente era la rivelazione che molti clienti delle fattucchiere e delle avvelenatrici parigine, quasi tutti di sesso femminile, erano membri della migliore aristocrazia del Paese. Cosa ancor più allarmante e sinistra, gli inquirenti avevano avuto la netta sensazione che non si trattasse solo di un mondo di delinquenti che servivano una clientela di gran nome, e perciò insospettabile, ma che vi fosse dell’altro: un certo qual puzzo di paganesimo e addirittura di satanismo, cosa del resto possibilissima in una metropoli tumultuosa e per certi aspetti incontrollabile, nella quale uno studioso moderno ha calcolato che vi fossero all’epoca non meno di quarantamila libertini praticanti.

Ne 1677, l’anno successivo all’esecuzione della marchesa di Brinvillies, venne fuori che una certa Marie Bosse, moglie di un mercante di cavalli che era una famosa chiromante nonché una preparatrice di veleni, aveva dispensato i suoi lugubri servigi ad alcune mogli di membri del Parlamento, desiderose di sbarazzarsi di mariti importuni e riconquistare la libertà mediante la vedovanza. Costei, interrogata, denunciò a sua volta un’ancor più sinistra figura (se possibile) di fattucchiera e assassina, specializzata nell’arte di avvelenare la gente, oltre che di predire il futuro, procurare aborti e fabbricare afrodisiaci: Catherine Desayes, nota come La Voisin, dal nome del defunto marito, un gioielliere finito in bancarotta. Ben presto le indagini assunsero una portata e una delicatezza tali da sconvolgere letteralmente il bel mondo del regno di Francia: le rivelazioni si susseguivano, sempre più scandalose, quasi incredibili, e gli arresti fioccavano, coinvolgendo alcune centinaia di persone, molte delle quali illustri per censo e per casato. A un certo punto la faccenda divenne così scottante che la Reyne, pur essendo un uomo deciso e un ufficiale coscienzioso, non se la sentì di proseguire senza coprirsi adeguatamente le spalle, vista anche l’indole imprevedibile del sovrano, e si confidò col ministro della guerra, François Michel Le Tellier de Louvois, tanto più che molti dei sospettati e degli indagati facevano parte dell’entourage del ministro delle finanze, il potentissimo Jean-Baptiste Colbert; sicché a un certo punto l’affare dei veleni (affaire des poisons) come venne chiamata la lunga e complessa istruttoria, parve assumere il sapore d’un duello a distanza fra i due ministri.

Oltre alla Voisin, bruciata sul rogo in Place de Grève il 22 febbraio 1680, vi furono alla fine altre trentacinque sentenze capitali, 23 all’esilio e 5 all’ergastolo, più un gran numero di condanne minori e di sorveglianza perpetua per gli imputati contro i quali non erano state raccolte prove sufficienti a erogare una piena condanna, ma sussistevano forti indizi di colpevolezza. L’inchiesta tuttavia si arenò, come suole accadere, allorché La Reyne, a furia di scavare, incappò nei pesci più grossi: decisamente troppo grossi per essere non diciamo condannati, ma anche solo ufficialmente indagati, visto che lo scandalo, già enorme, avrebbe coinvolto direttamente la persona stessa del sovrano. Risultò infatti, dalle dichiarazioni che la figlia della Voisin, Marguerite, rese dopo l’esecuzione della scellerata madre, che cliente abituale di costei, per giunta per i riti infernali della messa nera, era una dama pressoché intoccabile: la marchesa Françoise-Athénaïs de Montespan, l’amante parzialmente in disgrazia del re (perché "sostituita" dal nuovo astro della duchessa di Fontanges) e madre di ben sette figli illegittimi di lui, il quale nondimeno nutriva tuttora qualche riguardo, e forse un certo affetto, per l’ex favorita dalla brillante conversazione, un tempo così potente da essere temuta da tutti, ministri compresi.

Nel 1667 la Montespan, caduta una prima volta in disgrazia a favore di Louise de La Vallière, per riconquistare i favori di Luigi XIV, la Montespan aveva frequentato la Voisin onde procurarsi dei filtri d’amore, ottenuti con ingredienti ripugnanti (sperma e sangue mestruale), riuscendo effettivamente a riconquistare il cuore del re e continuando a dargli dei figli. Poi nel 1673, visto declinare il favore del re nei suoi confronti, e di nuovo nel 1679, per sbarazzarsi della sua nuova amante semi-ufficiale, Marie-Angélique de Scorailles, duchessa di Fontanges, che lei stessa aveva gettato fra le braccia di Luigi XIV per distoglierlo da una nuova e più temibile rivale, Madame de Maintenon, ella si era sottoposta ai riti abominevoli della messa nera, sempre in casa della Voisin, a quanto pare fungendo lei stessa, completamente nuda col suo corpo bellissimo, da sacrilego altare, sul quale un diabolico prete, l’abate Guibourg, aveva celebrato e, come sembra, ucciso un bambino, offrendolo in sacrificio al diavolo. Pare addirittura che la Montespan avesse concepito l’assassinio de re e l’avesse commissionato alla terribile Voisin, la quale cercò di eseguire l’incarico presentando a Luigi XIV una petizione la cui superficie era stata debitamente avvelenata, ma il re non la prese a causa della folla. Questo può dare un’idea di che tipo di persona fosse Madame de Montespan, anche se il progetto di assassinio potrebbe essere stato concepito da un’altra donna di corte che nutriva anche lei il risentimento dell’amante rifiutata (pare che la corte del Re Sole fosse un autentico harem, per non dire una Babilonia), una certa Mademoiselle Desoillets, cameriera della Montespan: questo punto non è mai stato chiarito. Di certo quelle donne infernali non desistettero dal progetto di assassinare il re; per dare un’idea del clima che si respirava a Versailles, basti dire che la morte improvvisa della Fontanges, nel 1681, diede adito alla supposizione, peraltro mai provata, che anche lei fosse stata avvelenata. Pare che anche un’altra ex amante del re, Olimpia Mancini, contessa di Soissons, fosse implicata nella congiura. Un altro fatto significativo per illustrare l’atmosfera che regnava presso la corte: il re venne infornato dal La Reyne che a corte esisteva una strana confraternita di uomini votati, tutti, al patto di non cedere mai alle grazie femminili; non si trattava però di casti asceti, ma di omosessuali impenitenti. Quando il re lo seppe, inorridì e diede ordine che i membri di quel sodalizio venissero severamente puniti e allontanati da Versailles. Evidentemente Luigi XIV non aveva, su tale argomento, la stessa benevola apertura di un Emmanuel Macron.

In ogni caso, quando l’inchiesta arrivò a lambire la Montespan, questa fece ricorso a tutte le sue armi per allontanare le accuse, e fu naturalmente sostenuta anche dal ministro Colbert. Sta di fatto che nel 1682 il re diede l’ordine di sciogliere la Camera ardente e pose fine all’inchiesta, senza che l’eccellente sospettata pagasse per le sue colpe. Come disse La Reyne, i più colpevoli erano stati protetti dalla stessa enormità dei loro delitti. La Montespan comunque perse definitivamente i favori del re, anche se il distacco fu graduale; infine si rinchiuse in un convento e vi trascorse tristemente gli ultimi dieci anni della sua vita.

Così ha ricostruito la messa nera di Marguerite La Voisin e dell’abate Guibourg il saggista britannico Henry Taylor Fowkes Rhodes in un libro che ormai si può considerare come un classico: The Satanic Mass: a criminalogical study (New York, Citadel Press, 1955 e London, Jarrolds, 1968; titolo italiano: La Messa Nera, traduzione dall’inglese di D. Pini, Milano, Sugar Editore, 1960, pp. 134-137):

Questa deposizione [di Marguerite La Voisin, figlia della giustiziata avvelenatrice] si riferisce particolarmente ad una cerimonia che ebbe luogo verso la fine del gennaio 1678: la data precisa non è sicura, ma fu in tutti i casi verso la fine del mese. Alle dieci di sera, una donna si fermò davanti alla casa di via Beauregard; era una persona di alto rango, ed era mascherata. Dopo uno speciale segnale, fu introdotta immediatamente in casa da Marguerite, che, attraversata la casa e il giardino, condusse la visitatrice fino al padiglione.

Marguerite La Voisin fu certamente presente alla cerimonia, anche se non vi prese parte; alcune volte era lei ad assistere il celebrante come chierico e preparava spesso l’altare. Il cerimoniale voleva che la donna che aveva ordinato la messa si stendesse nuda sull’altare. Un cuscino le sosteneva la testa; con le braccia aperte, il suo corpo sembrava in croce. Talvolta in ognuna delle sue mani veniva infilato un cero nero. Il celebrante saliva all’altare e si mette tra le ginocchia flesse della donna; lo assisteva almeno un chierico. Esistono descrizioni di cerimonie più complesse di quelle di cui stiamo per parlare. Che furono celebrate dall’abate Guignard, curato di Bourges, aiutato dall’abate Sébault. Entrambi questi preti furono in seguito giustiziati per sacrilegio. Abitualmente, i chierici erano delle donne. Il celebrante portava degli ornamenti della stessa forma degli ornamenti ortodossi, ma fatti di tela bianca. La pianeta, e forse anche il camice, era adorna di pigne nere. Non vengono menzionato né la stola né il manipolo. Le pugne che servivano come ornamento stabiliscono un diretto rapporto tra questa cerimonia e i riti della fertilità. Presso i Frigi e i Greci, le pigne erano simboli della fertilità e venivano associate ai cuti dionisiaci. Giunto davanti all’altare, il celebrante stendeva il corporale sul corpo della donna e vi posava il suo calice. Baciava poi la donna e la cerimonia aveva inizio.

Non esistono testimonianze che possano informarci sui dettagli del rito. Tutte le nostre informazioni derivano da un’inchiesta poliziesca, e i poliziotti generalmente non s’interessano di liturgia. Abbiamo però qualche informazione sulla consacrazione. È probabile che un fanciullo venisse sacrificato dal celebrante nell’istante in cui offriva l’ostia. Il sangue veniva mescolato al contenuto del calice e l’offerta veniva fatta ad Astaroth e ad Asmodeo: «Astaroth, Asmodeo, principi dell’amicizia, io vi scongiuro di accettare il sacrificio di questo fanciullo, che io vi offro, e di concedermi ciò che io vi chiedo».

Il sacrificio umano non era una regola invariabile, ed anzi lo si perpetrava soltanto in caso eccezionali. L’ostia e il calice venivano consacrati ed innalzati secondo il rito tradizionale. Gli elementi consacrati venivano poi sottomessi a delle manipolazioni di carattere particolarmente osceno e sconcio. Si hanno gravi ragioni per credere che in numerosi casi venero sacrificato dei fanciulli, ma abbiamo un solo esempio di prete condannato per essere stato riconosciuto colpevole di questo delitto. Si tratta di Bartolomeo Lomeignan, vicario di Sant’Eustachio, che fu accusato di sacrilegio e di omicidio per aver celebrato una messa nera, nel corso della quale avrebbe sacrificato due fanciulli maschi e avrebbe «fatto a pezzi il loro corpo». Questo scellerato sfuggì alla pena capitale per la sua età avanzata; condannato all’ergastolo, fu incarcerato a Salses.

La Messa di Guibourg ha un sottofondo più direttamente sessuale e testimonia una corruzione molto più profonda rispetto al Sabba o alla Messa Medici. L’importanza del ruolo sostenuto dalle donne basterebbe a distinguerla dai riti che la precedettero. L’Astaroth e l’Asmodeo dell’abate Guibourg sono dei pallidi e spiacevoli riflessi dei potenti "demoni" primitivi. Questa differenza non deriva unicamente dal fatto che la messa veniva detta o cantata sul corpo di una donna, poiché anche il Sabba aveva conosciuto questo rito, ma dall’assenza totale di fervore rivoluzionario nell’intenzione, che in questo caso non si proponeva altro che servire delle meschine ambizioni o dei bassi desideri personali.

Il caso della donna mascherata, il cui corpo serviva da altare per la messa, avvenuto nel gennaio 1678, è tipico. La identità della donna è incerta, ma quasi senza alcun dubbio si trattava di Françoise Athénais de Mortemart, marchesa di Montespan. La cerimonia aveva lo scopo di assicurare la continuazione del suo regno sul giaciglio reale. La donna credeva che le altre Messe Nere dette sul suo corpo nel 1677 le avessero fatto riportare la vittoria sulla sua rivale, Louisa Frances de la Baume Le Blanc, duchessa de La Valliére, la migliore e la più dolce tra le donne che mai amarono Luigi XIV. Era così sicura del potere del suo corpo sul re e sul Diavolo, che corse il rischio di presentare Marie Angélique de Scoraille de Rousille a Sua Maestà. Questo rischio arrischiato le costò caro, Luigi XIV, che perdeva la testa, come ha detto qualcuno, dietro a tutte le "belle persone", si innamorò perdutamente di quella giovane rossa.

Questa, la scrupolosa ricostruzione della messa nera nell’affare dei veleni, che il Rhodes ha potuto desumere dai verbali dell’inchiesta giudiziaria; anche se non tutti i particolari sono chiari come vorremmo, perché, come osserva giustamente il nostro autore, i poliziotti di solito non sono molto interessati alla liturgia. Una cosa tuttavia emerge con chiarezza: il satanismo esisteva, mescolandosi alla magia nera, negli ultimi decenni del XVII secolo, e aveva una sede privilegiata nella capitale della maggiore potenza europea, che era anche un regno ben organizzato e amministrato assai meglio della maggior parte degli altri Pesi, con una polizia che, per quell’epoca, era da considerarsi estremamente efficiente. Eppure, fino a quando la morte di un oscuro personaggio e la scoperta casuale, fra le sue carte, dell’affare riguardante la marchesa di Brinvilliers non ebbe messo in moto la macchina della giustizia inquirente, le autorità erano rimaste perfettamente all’oscuro che proprio lì, nel cuore della capitale, fioriva uno spaventevole miscuglio di stregoneria, alchimia, magia, veneficio, infanticidio e satanismo cerimoniale, con tanto di sacrifici umani, e per giunta praticati da personaggi che erano arrivati a sfiorare la corte del Re Sole, sia in qualità di clienti altolocati e frequentatori abituali, sia come avvelenatori e assassini di professione, i quali a un certo punto sembra abbiano avuto l’incredibile audacia di rivolgere le loro manovre omicide addirittura contro la persona del sovrano.

Potremmo farci, ovviamente, la domanda se tutto ci appartenga solo ad un lontano passato o se la messa nera sia praticata ancora ai nostri giorni, e non all’interno di gruppi marginali, tutto sommato più pittoreschi che realmente pericolosi, ma proprio ai vertici del potere, da parte di uomini politici, banchieri, grandi industriali, magistrati e alti ufficiali delle forze armate. La risposta è affermativa, e va anche più in là: abbiamo indizi positivi i quali fanno pensare che essa sia tuttora celebrata anche all’interno della Chiesa, da membri del clero; e non già da sacerdoti isolati e sbandati come l’abate Guibourg, ma da alti prelati e da cardinali che nascondono tali tenebrose attività dietro una facciata pubblica assolutamente insospettabile. I Romani sanno bene che in una chiesa della loro città si svolgono le messe nere; così come molti sospettano che in Vaticano vi sia il cimitero in cui sono occultati i resti di quanti vengono offerti in sacrificio al signore tenebroso di questo mondo. Ora, se indulgono al satanismo e alle messe nere dei principi della Chiesa, perché mai non dovrebbero farlo finanzieri e statisti, i quali, dopotutto, sono figli di una cultura secolarizzata che da tempo ha rotto i ponti con la tradizione cattolica e ha ripudiato ogni sentimento e ideale religioso? Ma, si domanderà ancora, perché lo fanno? Possibile che proprio loro credano al diavolo e ai suoi poteri? Ebbene, lo fanno per la stessa ragione della marchese di Montespan: per soddisfare le loro voglie e ambizioni. E a chi rivolgersi se non al principe del mondo, signore e patrono di tutto ciò che è falso e malvagio?

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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